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Bruno Snell sostiene
che nella tragedia di Eschilo “l’uomo riconosce per la prima volta se stesso
come autore delle sue decisioni”[1]. Infatti mentre “gli uomini omerici agiscono
senza titubanza, con sicurezza, poiché nessuno scrupolo, nessun dubbio li
tormenta, nessuna responsabilità di fronte alla giustizia e all’ingiustizia”,
nelle tragedie di Eschilo invece “l’uomo, mentre acquista coscienza della
propria libertà, assume il peso della responsabilità personale di fronte
all’azione. Meglio di tutte lo dimostra l’ultima trilogia di Eschilo, l’Orestiade… Oreste ha il dovere di
vendicare il padre, ma per vendicarlo dovrà uccidere la madre. Egli compirà
quest’azione, ma soltanto dopo aver sentito tutta la gravità della sua
decisione. Il contrasto fra libertà individuale e destino, fra colpa e fatto,
si presenta così per la prima volta nel mondo, ed è questo contrasto che divide
il mondo degli dèi da quello degli uomini. Oreste si trova preso tra i voleri
contrastanti degli dèi, anzi l’ultima parte della trilogia finisce con la lotta
fra le potenze nemiche, fra le Eumenidi cioè che vogliono vendicare il
matricidio di Oreste, e Apollo che alla fine lo assolve”. Si tratta di una
lotta tra matriarcato e patriarcato che prevale minimizzando il ruolo delle
madri nella società e perfino nella generazione dei figli. Ma questo aspetto lo
vedremo meglio più avanti.
Procediamo con il
libro di Snell: “ Queste due divinità pongono all’uomo diverse esigenze, questi
si trova, in un certo senso, abbandonato a se stesso. I valori univoci vengono
messi in forse, l’uomo si arresta nello svolgimento naturale della sua azione e
deve decidere da sé che cosa sia giustizia e che cosa ingiustizia. Un’umanità
nuova e una nuova naturalezza si rivelano in lui: la consapevolezza della
libertà e dell’azione autonoma. Così egli si scioglie necessariamente dai suoi
antichi legami religiosi e sociali, e si giunge a quello stato di cose, per cui
Aristofane rimprovera così aspramente Euripide”[2]. Stato di cose e rimproveri che vedremo
studiando Euripide.
Il conflitto tra le
divinità si trova anche nel tragediografo più giovane: “L’Ippolito di Euripide ha in comune con l’Orestiade di Eschilo il fatto che il conflitto del dramma trova
riscontro nel conflitto fra due divinità. Una differenza essenziale è data però
dal fatto che il conflitto fra gli dèi non sorge in Euripide per un determinato
caso, ma è piuttosto una lotta di principî; e non si tratta qui di
un’azione giudicata in modo diverso da due diverse divinità, che vengono a
conflitto. Ancora: nella tragedia di Eschilo Apollo trionfa sulle Erinni, e una
religione più serena prevale sulle antiche forme tenebrose del culto; la
conclusione della tenebrosa vicenda acquista così un profondo significato. In
Euripide invece tutti e due i protagonisti vengono annientati e il conflitto
delle due divinità rimane inconciliabile”[3].
Alla
fine delle Supplici, le Danaidi pregano
la casta Artemide di guardarle con compassione salvandole dalle nozze, ma le
loro ancelle affermano e consigliano di non trascurare Cipride. Anche Afrodite
è una dea venerata per le sue opere. Del suo corteggio fanno parte Desiderio,
Persuasione seducente, e Armonia. Il pensiero di Zeus è imperscrutabile e il
matrimonio potrebbe essere la realizzazione delle figlie di Danao come di molte
donne prima di loro (vv. 1049-1052).
La tragedia si
conclude con le minacce dell'arrogante araldo egiziano contro gli Argivi
difensori delle Danaidi le quali oppongono resistenza a ogni tentativo di
moderarle. Esse pregano Zeus
"di liberarle da nozze rovinose con sposi malvagi"(v. 1064) e che
"conceda la vittoria alle donne"( kai; kravto" nevmoi gunaixivn, v. 1069).
Eschilo tende ai compromessi e nelle sue
tragedie non c'è mai un vincitore assoluto. Alla fine della trilogia, Afrodite
stessa compariva sulla scena celebrando la necessità cosmica di Eros. Non
possiedo queste parole, tramandate dalla tradizione indiretta, e mi affido al
già citato testo di Pohlenz:" Mia opera è quando il cielo e la terra si
congiungono in un ardente amplesso, quando l'umore del cielo feconda la terra,
sì ch'essa in pascoli, in campi, in selve, genera ciò di cui l'uomo abbisogna
per vivere". L'eros , il
desiderio d'amore non è solo un istinto individuale dell'uomo; è una potenza
cosmica primigenia che suscita ogni vita. Questo pensiero, che Platone
svilupperà nel Convito , vien qui già
intuitivamente adombrato. Risparmiando il marito, anche Ipermestra ha reso
omaggio alla dea dell'amore"[4].
Ora vediamo come si arriva alla
conciliazione delle Eumenidi (Eujmenivde~) raccontando l’ultima tragedia dell’Orestea per sommi capi. Le Eumenidi sono
le stesse Erinni che solo alla fine dell’ultima tragedia tragedia della
trilogia, e dopo aspra lotta, diverranno, appunto, benevole.
La
prima parte del dramma si svolge a Delfi. Nel Prologo compare la Pizia sacerdotessa di
Apollo,"profeta di Zeus"(v.19). La donna è una figura che impersona
il sincretismo religioso cui Eschilo tende, quindi ella adora anche Gea, la Terra "che fu la prima
profetessa"(v. 2) e Temide che nel Prometeo incatenato è la madre del
Titano identificata con la terra[5],
mentre qui Temide è figlia della Terra cui succedette nell'oracolo (v. 3); poi
fu la volta di Febe, un'altra figliola della Terra, che consegnò l'oracolo ad
Apollo il quale prese così il nome di Febo quando arrivò "alle sedi del
Parnaso"(v. 11).
il culto della Pizia del resto
non dimentica "Pallade Pronáia[6]"
(v. 21) , né le ninfe della "cava rupe Coricia, amica degli
uccelli"(v. 23). Insomma la toponomastica definisce e consacra il luogo
che verrà rappresentato da tanta parte della poesia europea: Ovidio nelle Metamorfosi (I, vv. 316-317) fa apparire
la montagna sacra dalle due cime in questi termini:"mons ibi verticibus petit arduus astra duobus,/nomine Parnasus,
superantque cacumina nubes ", là
l'erto monte chiamato Parnaso mira alle stelle con le due vette, e i
gioghi vanno oltre le nubi. Dante all'inizio del Paradiso dovrà invocare
"amendue[7]"
(I, v. 17) i gioghi "di Parnaso" per entrare "nell'aringo
rimaso"(v.18).
La profetessa non trascura Bromio
il quale “occupa il luogo da quando il dio si mise a capo della guerra delle
Baccanti "(vv. 24-25).
Questo è Dioniso, il dio delle
plebi, il cui culto durò fatica ad affermarsi accanto a quello aristocratico di
Apollo. Omero nell'Iliade (VI, vv.
130-140) racconta un episodio di repressione del culto dionisiaco. Euripide con
le Baccanti invece narra l'affermarsi della religione bacchica tra le donne di Tebe e pure lui annuncia il
compromesso tra le due religioni e le due culture: l'apollinea e la dionisiaca
"inoltre tu lo vedrai anche
sulle rupi delfiche saltare con fiaccole di pino sul pianoro dalle due cime,
agitando e scuotendo il ramo bacchico, grande per l'Ellade"( Baccanti, vv.306-309).
“Il richiamo di Dioniso tende a
scompaginare il corso normale della civiltà, e infatti Atena, la sua saggia
custode, vietava l’ingresso del capro di Dioniso nel proprio territorio.
Dioniso, “Signore delle donne”, chiamava a partecipare ai suoi riti entrambi i
generi e tutte le età della vita. Per seguirlo nelle sue danze selvagge sulle
colline, le donne invasate abbandonavano i doveri domestici. Nelle Baccanti di Euripide, due vegliardi dai
capelli grigi accorrono per danzare con lui “tutta la notte e tutto il giorno.
E’ difficile, negli anni vacillanti, impotenti ma pieni di fantasie della
vecchiaia, accettare il fatto di essere seguaci di Dioniso più di quanto lo si
sia mai stati in gioventù, quando ci vedevamo come grandi scopatori
dall’appetito insaziabile”[9].
Questa affermazione
del culto di Bacco fu pagata con la morte dall'oppositore Penteo, ucciso dal
dio che "tessé una trama di morte contro Penteo, come fosse una lepre lagw; divkhn", ricorda la Pizia ( Eumenidi, v. 26) [10]. Le ultime invocazioni della profetessa
vanno, oltre che alla potenza di Poseidone, alle fonti del fiume Plisto, e a
Zeus.
Quindi la Pizia entra nel tempio, ma
ne esce subito sgomenta: ha visto:"sull'ombelico, un uomo esecrato dagli
dèi, in posizione di supplice, con le mani che gocciano sangue" (Eumenidi, vv.40-42). Queste reggono la
spada del matricidio e un ramo d'olivo avvolto in bende di lana. Vicino a lui
"una strano battaglione di donne dorme stando sopra i sedili, nemmeno
donne, ma Gorgoni dico"(vv.46-48), anzi peggiori delle Gorgoni, simili ad
Arpie, ma ancora più brutte:" senza ali a vedersi queste, e nere e abominevoli,
e russano con aliti inavvicinabili e dagli occhi stillano sgradevoli
umori"(vv. 51-54).
Tali creature, ricorda Rohde in Psiche, "appartengono a quella
"mitologia inferiore",
che raramente penetra in Omero, la quale vorrebbe conoscere molte cose che stanno
fra cielo e terra, di cui l'epos aristocratico non ha notizia alcuna. In Omero
esse non operano di propria autorità; ma soltanto come ancelle degli dèi o di
un dio, rapiscono i mortali trasportandoli là, dove non penetra nessuna notizia
e potenza umana" (p.76).
Quindi interviene Apollo a
maledire: "le abominevoli ragazze vecchie fanciulle antiche cui non si
congiunge mai uno degli dèi né un uomo né una fiera. Per il male esse nacquero,
dato che abitano la tenebra[1]
malvagia e il Tartaro sotterraneo, odio degli uomini e degli dèi
olimpi"(vv. 68-73).
“Il Tartaro è la prigione
sotterranea riservata ai peccatori senza speranza e agli dèi prigionieri, il
luogo più buio dell’universo: ved. Esiodo, Theog.
720-819.[2]”
Il dio consiglia a
Oreste di rifugiarsi nella città di Pallade (v. 79), ad Atene, dove egli, il
profeta di Zeus, lo farà assolvere dai giudici. Febo dunque si prende la
responsabilità dell'accaduto: "Fui io infatti a persuaderti ad ammazzare
il corpo della madre"(v. 84). Vedremo che nelle tragedie di Euripide gli
dèi non sono altrettanto responsabili. Soprattutto Apollo viene criticato.
Oreste dunque viene confortato da un Febo
coerente e giusto (v.85) che affida il suo protetto al fratello Ermes, poi se
ne va.
Quindi appare l'ombra di
Clitennestra che rimprovera le Erinni per la loro passività. Esse infatti
dormono. Eppure, riconosce la madre assassinata: "l'anima che dorme
risplende di occhi, mentre di giorno la parte assegnata ai mortali non vede con
chiarezza" (vv.104-105).
Gli occhi della mente dunque sono più acuti di
quelli facciali o della facciata, e la visione notturna può essere
chiaroveggente più della vista diurna, spesso fallace, come attestano il cieco
Tiresia, Edipo accecatosi, e come del resto ripropone il metodo di Freud.
[1]
B. Snell, La cultura greca e le origini
del pensiero europeo, p. 176.
[2]
B. Snell, La cultura greca e le origini
del pensiero europeo, p. 177.
[3]
B. Snell, La cultura greca e le origini
del pensiero europeo, p. 181
[4]M.
Pohlenz, La tragedia greca , p. 61.
[5] Qevmi"-kai; Gai'a, pollw'n ojnomavtwn
morfh; miva"( vv. 209-210), Temide e Terra, una sola forma di molti nomi.
Prometeo che è una creatura della
Magna mater, la divinità femminile mediterranea, racconta,
poiché "l racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore "(v.
197) che la madre gli aveva predetto il
futuro.
[6] La cui statua cioé si trova davanti al tempio
[7]Nisa, sede delle Muse, e Cirra sacro
ad Apollo.
[8]
F. Frabboni, Sognando una scuola normale,
p. 105.
[9]
La forza del carattere, pp. 167-168.
[10] Questo Dioniso vendicativo e crudele della tragedia di
Eschilo ed Euripide invero si trova in contraddizione con quello già menzionato
di Omero che nel VI dell'Iliade lo raffigura mentre "spaventato si
immerse nel flutto marino" dove "Tetide lo accolse nel suo seno
terrorizzato e tremante "(vv. 133-135) perché aveva subito le minacce e
l'inseguimento di "Licurgo omicida"(v. 132). Spaventato appare anche
il Dioniso delle Rane che Aristofane
rappresenta mentre fugge, terrorizzato da Empusa, tra le braccia
del suo sacerdote (v. 297). Quindi il servo Xantia ha l'impudenza di
apostrofarlo con:" oh tu, davvero il più vigliacco degli dèi e degli
uonmini!"(v. 486). Del resto il dio se l'era voluta cacandosi addosso
dalla paura (v.479) solo al sentire parlare di mostri.
Questi, si potrebbe obiettare, sono
soltanto lazzi scatologici, ossia stercorari, di "quel pagliaccio di
Aristofane", ma non dobbiamo dimenticare che il travestimento derisorio di
Socrate contribuì alla sua condanna a morte e, dunque bisogna inferirne che
tali parodie della commedia antica erano radicate in un sostrato di opinioni
correnti e popolari.
Del resto anche il Dioniso di Sofocle
non è il nume sanguinario di Euripide: nell'Antigone
anzi, se è vero che il dio punisce la violenza di Licurgo, del resto senza
spargimento di sangue: ("E fu aggiogato il collerico figlio di Driante re
degli Edoni, per le ire oltraggiose rinchiuso da Dioniso in una prigione di
pietra", Antigone, vv. 955-958), è pur vero che il dio rappresenta la gioia
giovanile della danza e del libero gioco in termini tanto terreni quanto
cosmici:"Oh tu che guidi le danze degli astri che spirano fuoco, custode
dei canti notturni, ragazzo progenie di Zeus, appari, signore, insieme con le
tue seguaci Tiadi che impazzite, per tutta la notte festeggiano, ballando, Iacco
dispensatore"(Antigone, vv.
1146-1152). Una dimensione ludica che viene confermata dall'Edipo re :"sia che il dio
bacchico il quale abita sulle cime dei monti ti abbia accolto come trovatello
da una delle Ninfe dell'Elicona, con le quali gioca moltissimo"(vv.
1104-1108).
Arriano
forse ci dà una spiegazione di queste contraddizioni ricordando che come ci
sono tre Eracli diversi, allo stesso modo gli Ateniesi venerano un altro
Dioniso, figlio di Zeus e di Core, e il
canto Iacco dei misteri viene intonato a questo Dioniso, non a quello tebano
(Arriano, Anabasi di Alessandro, 2, 16, 3).
[1] Sono dunque divinità fatte per quanti preferiscono le tenebre alla luce, poiché, come dice il Vangelo di Giovanni:" erant enim eorum mala opera ", le loro opere erano malvagie(3, 19).
[2] Avezzù-Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 359.
Più che mai attuale, adesso due uomini divengono mamma,..o papà ?Giovanna Tocco
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