scena dal film Il mio Godard di Michel Hazanavicius |
La neve precoce di molti anni fa rievocata da quella di oggi
13 novembre 2017
Domani compirò 73 anni pieni di ricordi belli, con pochi
rimorsi e nessun rimpianto.
Sono grato alla vita, al sole e alle donne, a tutte le donne
della mia vita: alla mamma, alla nonna, alle zie, alle amanti, e a Dio che le
ha create così come sono e me le ha fatte incontrare.
Mercoledì ventinove novembre, fin dalle prime ore del
pomeriggio, su Bologna, dove lunghi sono gli inverni, cadde a fiocchi grandi la
neve, che in poco tempo rese canuta la terra.
Ifigenia fece suonare il campanello verso le cinque, quando
era già buio; corsi di sotto ad aprire il portone, poiché ero impaziente
di fare l’amore; ma, come la vidi, mi fermai stupito, senza toccarla, senza
invitarla a entrare, senza dire parola: non avevo mai visto una tale unione di
inverno, colore e calore di vita: i capelli bruni bruni, bagnati, a tratti
innevati, le scorrevano giù per le spalle come un ruscello montano cupo di
gelide ombre, e aspro di pietre biancastre, facendola rabbrividire, ma gli
occhi violacei, lucenti mi versavano addosso una morbida luce che fluiva calda
dal cuore. La osservavo in silenzio, mentre i fiocchi larghi continuavano a
caderle addosso, evidenziandosi sulle ciocche scure, come sulle chiome perenni
degli abeti montani, e trasformando la luminosa ragazza in una creatura dei
boschi: un dolce cerbiatto dalla pelle screziata, oppure una bella baccante che
dopo la dolce fatica della corsa sui monti si riassetta la nebride multicolore
onorando il dio suo, Bacco, signore della gioia di vivere, della festa lieta,
delle grazie tutte, del desiderio. Mentre nella fredda oscurità della notte
precoce contemplavo la vivida fiamma della mia giovane amante, mi riempivo e
scaldavo di gioia. Dopo qualche momento di stupito silenzio, la ragazza disse:
“Mi fai entrare? Sento un poco di freddo”.
Mi scostai dall’ingresso: Ifigenia entrò senza indugiare e,
poiché l’ascensore non funzionava, cominciò a salire i cinque piani di scale
spedita, facendo ondeggiare la testa, e le anche, sulle gambe robuste
molleggiate dalle caviglie sottili, mentre i piccoli piedi, nello sforzo di
ascendere i molti gradini di corsa, si appoggiavano e sollevavano con
leggerezza, potenza e agilità. Le correvo dietro ammirato e felice. Quando
fummo arrivati davanti alla porta del mio appartamento, la aprii con la destra
un poco tremante, poi con la sinistra le feci segno di entrare. Ero pieno di
desiderio amoroso. Lo sentiva concordemente anche lei, poiché procedette fino
alla sponda del nostro grande letto dove si svestì con rapide mosse. Mentre,
con i vestiti sul pavimento, cadeva la neve, la splendidissima amante mi chiese
di spogliarmi subito e di abbracciarla senza i preamboli solitamente graditi:
il marito, un tanghero assai sospettoso, non poteva crederla a spasso nel caos
bianconero della notte nevosa, né, tanto meno, doveva immaginarsi che passasse
il tempo nell’alcova di un uomo: perciò era necessario che rientrasse non oltre
mezz’ora dopo la lezione di yoga, che finiva alle sei e distava un chilometro
circa da casa sua. Ci eravamo spogliati. L’abbracciai senza dire parola: il
seno si era già intiepidito, anzi conservava gli odori della terra benedetta
dal cielo estivo: pensai che non era il tepore domestico a renderla così calda
e vivace appena si era sottratta all’iniqua stagione, ma il suo giovane sangue
fervido sotto la pelle ancora abbronzata e profumata dal sole che durante la
nuda estate doveva averla baciata con lucida forza amorosa, lasciandole addosso
indelebili segni di bellezza, di salute e di gioia. La baciai anche io per
succhiare una parte di quel calore celeste; quindi la distesi sul letto
inclinando il mio corpo avido, scuro e magro su quello armonioso di lei: ne
trassi piacere e voglia di vivere, eppure pensai a quando le sue magnifiche
membra, coperte dall’ultima veste, la nera terra, l’avrebbero fatta fiorire di
sanguigni papaveri, o di rose rosse, profumate di carne.
giovanni ghiselli
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