domenica 16 luglio 2023

Il debutto nell’Ellade. Mito e poesia.


Subito dopo il 20 agosto del 1976 tornai in Italia e ripresi a studiare dalla mattina alla sera i miei classici. In ottobre fui sistemato nel liceo Minghetti di Bologna dove il preside gentiluomo Piero Cazzani mi aiutò a imparare l’arte dell’educatore. Nei ritagli di tempo nei quali mi permettevo di non studiare, scampoli davvero esigui poiché volevo conquistare anche gli allievi di questo istituto dopo quelli del Rambaldi di Imola, cercavo una donna dotata di mente, dopo quella insoddisfacente con la pur carina Nefertiti palermitana,  e siccome a un’azione sbagliata ne succede spesso un’altra errata dalla parte opposta, entra in contatto con una collega che non mi attraeva abbastanza fisicamente.

Non potevo trasmetterle il desiderio che non sentivo. Su questo le donne non si sbagliano: del resto simulare il pathos erotico è quasi impossibile, del tutto impossibile, come fingere l’erezione benedetta da Priapo.

Un dialogo c’era tra noi, ma questo non toccava mai la sostanza dei problemi né arrivava al fondo degli argomenti, come succede quando si parlano due giovani in cerca di quell’amore che tra loro non c’è. Così in primavera smettemmo di frequentarci, e io nel dolore compresi che l’attrazione dei corpi non è meno importante di quella spirituale.

Ci sono due tipi di imbecilli: l’uno dice che la bellezza è tutto, l’altra che è niente. Io dico che non è poco, anzi è molto ma non è tutto. 

 

Nel Simposio di Platone, Diotima, insegna a Socrate che Amore  è la tendenza a possedere il bene per sempre (206 a) e vuole la procreazione nel bello secondo l'anima e secondo il corpo:"tovko" ejn kalw'/ kai; kata; to; sw'ma kai; kata; th;n yuchvn" ( 206 b).

 

Nel luglio del 1977  venne a trovarmi a Bologna Nefertiti. Facemmo l’amore, poi ripartì lasciandomi senza alcun rimpianto. Mi piaceva ma avevamo ben poco da dirci “Io a questo punto mi imbarco”, mi dissi.

Sicché salìi in bicicletta e mi diressi verso il porto di Ancona per imbarcarmi verso la Grecia. Era la prima volta che andavo nell’Ellade amata.

Ero con Fulvio, diventato il mio migliore amico, lo spirito dei viaggi che facevamo insieme, l’occhio della via che ora mi manca-poqevw ojfqalmo;n  th`" oJdou`.  

Quel debutto nell’Ellade invero non andò benissimo: a San Benedetto del Tronto caddi dalla bicicletta urtando con la ruota anteriore quella posteriore di Fulvio. Caddi, sbattei il  petto sul duro selciato e mi ruppi una costola. Proseguìi tra dolori rabbrividenti fino a Termoli dove andai in ospedale, dove i medici mi diedero dell’invasato e mi convinsero a lasciare la bici. Proseguìi con mezzi pubblici. Vedevo Fulvio la sera

Invalido com’ero,  guardavo con invidia e ammirazione i balestrucci sfrecciare nel cielo e l’amico che arrivava in albergo dopo ore e ore di bicicletta, beato lui.

Nell’agosto del 1978 dopo l’esame di maturità ripartìì in bicicletta questa volta da solo diretto al porto di Ancona per imbarcarmi sul traghetto per Patrasso. Avevo un punto di riferimento in alcuni conoscenti di Bologna che campeggiavano nell’isola di Andros. Mi recai da loro. Furono ospitali e gentili con me, però si comportavano come se fossero a Bologna: usavano nel parlare tutto il repertorio delle famiglie borghesi emiliane: gente civile, per carità, ma io ero andato in Grecia in cerca di altro: mito e poesia volevo trovare e la strada che mi avrebbe portato metodicamente all’arte e all’artistica donna che mi mancava. Il mio reperto doveva essere   quell’armonia che rimane nascosta alla maggior parte delle persone ma è molto più forte e significativa di quanto è visibile ai più.

 

Il 9 agosto  salii sull’imbarcazione che dal porto di Andros mi recava lontano da quei compagni di tenda con i quali non avevo argomenti comuni: erano tutt’altre persone dai contubernali di Debrecen ricordati più volte. Ero felice di essere solo con la mia bicicletta, una Bianchi da corsa.

Osservavo il chiarore dei flutti spumeggianti  solcati dal veicolo marino.  Biancheggiava la scia del traghetto come un sentiero in mezzo a una pianura erbosa che fluttua al vento sonoro.

Sbarcai a Tenos dove volevo prendere un altro battello per arrivare a Delo, l’isola sacra che diede i natali ai due occhi del cielo. Ma le corse di quel giorno erano già tutte finite: dovevo aspettare la mattina seguente. Cercai un ostello dove passare la notte, fissai un giaciglio, quindi mi chiesi come impiegare sensatamente e proficuamente il resto della giornata che non volevo sprecare, cioè passare senza attività valide a potenziare il corpo e la mente.

Potevo girare l’isola liberamente, ossia senza l’obbligo che avevo avuto ad Andros di presentarmi ai conoscenti di Bologna che mi aspettavano a ore, determinate da loro, per entrare in un enorme gommone motorizzato e andare stipati  in cerca di baie deserte dove arrostire salsicce affumicando la santa luce del cielo. Come facevano i consumisti di Debrecen la sera che corsi via per andare  a trovare Elena santa.

Dopo due giorni passati con tanta noia volevo ricaricarmi di energie vitali e morali. Sul mezzogiorno, lavati gli stracci sudati che poi distesi perché si asciugassero sopra lo zaino appoggiato sul materasso disteso nella terrazza del povero ostello, cominciai a pedalare seminudo nel sole mentre venivo accarezzato dall’aria pregna di aromi marini, vegetali e terrestri: respirandola lietamente a pieni polmoni, sentivo di partecipare a una festa della natura profumata calda e luminosa come una bella ragazza piena di salute, di gioia, di vita. Le cime degli alberi, i musi degli animali, i visi umani apparivano sereni, pieni di luce, promesse e speranze.

Con gli occhi stenebrati del tutto vedevo  i raggi del sole danzare tripudi  vivaci sulla grande tavola liscia e violacea del mare, quindi balzare sui declivi dei monti dove li festeggiavano gli innumerevoli  cori delle cicale pazze di sole, dove i penduli fichi stillavano gocce capaci di  moltiplicare i sorrisi del dio che nutre la vita. Mi chiedevo se ero ancora su questa terra o già in paradiso.

Nell’aria celeste gli uccelli cantavano inni di gratitudine alla fonte della luce divina, l’occhio del giorno d’oro, l’immagine che porta la massima significazione di Dio alla nostra vista. Con le narici aspiravo i profumi soavi della terra, odorosa tutta come un frutto maturo appena spiccato dal ramo. Mi domandavo come può non essere felice una creatura nel  paradiso così ben fatto dall’artista divino.

 Assaporavo  gli umori distillati dai raggi del sole che ravvivano tutto, e gioivo osservando i colori accesi e accentuati dalla pienezza del suo splendore.

Il mondo era bello, variopinto, caldissimo, luminoso e mi rendeva felice.

Ogni tanto mi fermavo per cogliere un fico o un grappolo d’uva: dolce offerta, maturata precocemente dal calore che favorisce la vita.

Mentre mangiavo questi doni dell’estate incoronata dai raggi del dio, pensavo ai regali ricevuti dalle meravigliose donne che avevo già conosciuto meravigliosamente. Le ho sempre considerate “borse di studio”, come le belle giornate. Ero sicuro che altri premi ci sarebbero stati dopo una vacanza talmente santa. 

Ringraziavo la madre terra femmina felix e generosa , poi riprendevo a pedalare su e giù per le strade dell’isola. Ascendere le impervie salite eliminando gli umori cattivi, acquistando la forma corporea più bella possibile, e la mente serena quanto il cielo, era una gioia: mi sembrava di salire per una scala i cui gradini portavano alla Mente dell’universo; ed ero felice mentre mi lanciavo giù per le rapide discese  rinfrescando il volto e il petto con i fiotti veloci dell’aria pur calda sulla pelle abbronzata: mi sentivo armonizzato con l’opera d’arte dove avevo la fortuna di essere vivo del tutto, lontano e diverso dagli sdilinquiti borghesi che arrostivano grassi cadaveri di animali nelle baie sassose ottenebrando la luce del sole o la cristallina purezza della notte lunare.

 

Bologna 16  luglio 2023  giovanni ghiselli

p. s.

ho riveduto questo racconto come viatico per il viaggio che intraprenderò domani con Maddalena e Alessandro

 

 

 La Grecia in bicicletta estate 1978 II parte

Delo. Mykonos. La piana di Maratona. Il toro di Teseo. I tre ceffi feroci. Agamennone e Ifigenia.

La mattina seguente mi imbarcai per l’isola sacra dove aprirono gli occhi il dio luminoso dall’infallibile arco d’argento e sua sorella, la dea cacciatrice dalle fiaccole ardenti. Il traghetto solcava il mare e l’aria mattutina dai tenui colori: i raggi del sole obliqui, leggeri, scuotevano graziosamente le chiome d’oro ancora umide  e preparavano i meridiani tripudi alzando ritmicamente le caviglie sottili sui bianchi fiocchi di spuma che la chiglia metallica sollevava dal cupo fondo della distesa marina, come un aratro fa uscire dalla crosta terrestre zolle nere a imbiancarsi di luce.

Quando fui sbarcato a Delo, pregai i divini fratelli Artemide e Apollo di farmi avanzare con passo sicuro verso la pienezza della vita e il compimento del  destino, quello che solo era, ed è,  il mio.

 

Dopo avere girato la piccola isola devota mente a piedi, nel pomeriggio mi imbarcai verso l’Attica verde di olivi. Il battello però fece una sosta pur troppo lunga a Mykonos. Rimasi quasi assordato dai suoni rumorosi e dagli striduli strepiti di giovani che auspicavano piaceri carnali osceni per dare sfogo alle loro mal protese passioni. I bottegai beati approfittavano di questa folla gonfiando i prezzi della volgare bigiotteria esposta dovunque e delle bevande alcoliche tracannate senza soste da tale masnada.

 

Verso mezzanotte il battello finalmente partì. Arrivò a Rafina sulla costa nord orientale dell’Attica verso le tre. La notte era ancora fonda: dormivano i variopinti uccelli del cielo, gli animali terrestri e i muti pesci del mare. Avevo sonno anche io ma a quell’ora non era possibile trovare una stanza né un materasso su una terrazza sotto la luce della dea casta:  Artemide, Diana o Iside come la chiamavano gli Egizi ricchi di antica dottrina[1]. Sicché mi imposi di volere un’azione che avesse qualche cosa di eroico. Dovevo meritare il mio fato. Aspettai che l’Aurora avesse iniziato ad accarezzare le cime dei monti con le sue dita rosèe. Quindi montai sulla bicicletta fidata e la diressi contro il vento che spirava con forza dalla combattuta piana di Maratona: pensavo all’eroica pugna degli Ateniesi contro il barbaro stuolo invasore e anche allo scontro di Teseo, magnanimo e pur seduttore seriale di femmine umane, alla sua lotta vincente con il toro feroce: i soffi contrari, simili a sbuffi di bestia infuriata, offrivano esca al ricordo. La lotta tra il mostro e l’eroe mi saltò davanti agli occhi assonnati che si spalancarano tosto quando tre mastini magri fatti appositamente inferocire dalla fame e da un addestramento omicida  sbucarono da un tugurio per lacerarmi e cavarsi la voglia di  carne e di sangue. Mi inseguivano ringhiando orrendamente con le fauci spietate da dove uscivano denti lunghi e forti da fare spavento, certamente letali se mi avessero acchiappato. Giunto sul crinale della morte  correvo il rischio di precipitare nel suo baratro e finire sepolto nelle tombe vive costituite dagli stomaci quei tre terribili mostri.

 Pedalavo con tutta la forza coltivata  fin da bambino sui colli di Pesaro, poi a Bologna su per San Luca, a Moena sul san Pellegrino, sullo Stelvio da Bormio e da Prato, forse immaginando che prima o poi tale ascese mi avrebbero salvato la vita. Fin da piccolo avevo imparato  che nessun male è tanto remoto da non incontrarlo: la sventura è versatile e può giungere ovunque. Pedavavo sulla mia sorte  come sul filo di un rasoio.

 Finalmente mi trassi in salvo dai morsi  dei tre maledetti ceffi bestiali, i maledetti cani infernali che ringhiavano rabbiosamente quali Chere odiosissime aralde di morte.

Quindi rivolsi lo sguardo alla santa e bella faccia di luce inclinata a benedire e ravvivare la terra, all’immagine significativa del Bene supremo, insomma di Dio. Lo ringraziai per lo scampato pericolo e giurai che non sarei impallidito nell’ombra né avrei preso puzzo di muffa ma sempre avrei venerato il suo nume che oltretutto migliorava il mio aspetto con un sano colore bronzato. Poi girai verso sud la bicicletta. Il vento soffiava dal mare. Pedalavo con sonno e fatica. Pensavo alla flotta cui gli dèi invidiavano la partenza dall’Aulide. Ricordavo con memoria incorrotta, rabbrividendo, il prezzo che il prete supremo aveva chiesto al capo supremo, il gran duce dei Greci.

Quindi mi identificavo con Agamennone cercando di cambiare il destino: volevo salvare la figlia che per prima mi aveva reso felice chiamandomi padre. In quel momento non pensavo che nemmeno Zeus può sfuggire alla parte assegnata dal fato2. Volevo che Ifigenia, la mia creatura più cara, non venisse sacrificata.

 

Bologna 16 luglio  2023 ore 17, 10. giovanni ghiselli

 

Note

[1] Prisca doctrina pollentes Aegyptii (Apuleio, Metamorfosi, XI, 5).

2 Cfr. Eschilo,  Prometeo incatenato, 518

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[1] Prisca doctrina pollentes Aegyptii (Apuleio, Metamorfosi, XI, 5).

2Cfr. Eschilo,  Prometeo incatenato, 518

 

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