domenica 9 luglio 2023

Percorso sull’amore VIII, 8. Siamo liberi o in balia delle cose?

 

 

 Si era detto che tanti eventi della vita e della storia umana non sono prevedibili.

Tucidide viceversa ha la pretesa di assicurarci, dandoci regole per i fatti che si ripresenterebbero sempre nello stesso modo.

 In un testo molto più recente, le Metamorfosi  di Ovidio, troviamo, a proposito di Cadmo, la medesima sentenza della tragedia e di Erodoto,:"sed scilicet ultima semper/exspectanda dies hominis, dicique beatus/ante obitum nemo supremaque funera debet "(III, 135-137), ma certo bisogna sempre aspettare l'ultima ora dell'uomo e nessuno deve essere chiamato felice prima della morte e delle esequie estreme.  

 Né si trova solo in poesia tale idea: Platone nelle Leggi (VII, 801e, 802a) afferma che "non è cosa sicura onorare i viventi con inni e canti prima che ciascuno abbia percorso fino in fondo tutta la vita".  Per quanto riguarda la prosa latina, riferisco la formulazione di Valerio Massimo[1], attribuita, come da Erodoto, a Solone[2]:"quam prudenter Solo neminem, dum adhuc viveret, beatum dici debere arbitratur, quod ad ultimum usque fati diem ancipiti fortunae subiecti essemus "(Factorum et dictorum memorabilium , VII, 2, ext., 2) quanto saggiamente Solone pensa che nessuno, fino a quando vive, debba essere chiamato felice, poiché fino all'ultimo giorno assegnatoci dal fato siamo soggetti alla sorte incerta.

Da antichista comparatista cito anche Musil  con l'immagine della mosca utilizzata per dire che siamo in balia delle cose  :"Qualcosa ha agito nei loro confronti come la carta moschicida nei confronti d'una mosca; qui ha imprigionato un peluzzo, là ha bloccato un movimento, e a poco a poco li ha avviluppati, finché son sepolti in un involucro spesso che corrisponde solo vagamente alla loro forma originale"[3].

Cito anche pagina precedente facendo una contaminatio tra i due prossimi corsi alla Primo Levi: "Si direbbe che ad ogni istante noi abbiamo gli elementi, e la possibilità di fare progetti per tutti (…) Ma purtroppo non è affatto così. Siamo noi, invece, in balìa della cosa. Giorno e notte viaggiamo dentro ad essa e vi svolgiamo ogni nostra attività; ci si rade, si mangia, si ama, si leggono libri, si esercita la propria professione, come se le quattro pareti stessero ferme, e l’inquietante è che le quattro pareti viaggiano, senza che ce ne accorgiamo, e proiettano innanzi le loro rotaie come lunghi fili adunchi e brancolanti, senza che noi sappiamo verso qual meta"[4].

 

 Ho insistito su questo tovpo" dandone parecchie, forse fin troppe testimonianze poiché adesso i più cercano disperatamente, e risibilmente, di assicurarsi su tutto, da tutto. La grande angoscia di questi giorni di guerra deriva in massima parte dallo squarcio che si è aperto orrendamente nella stupida illusione della programmabilità e prevedibilità della nostra vita dal primo momento all'ultimo.

 

 

Medea reagisce come un eroe omerico e sofocleo.

Nell'esodo della Medea di Euripide Giasone, come si è detto, riconosce l'indole ferina della donna che ha ammazzato i loro figlioli apostrofandola come "leonessa" (v. 1342) ed echeggiando il "divpou" levaina", bipede leonessa con cui nell'Agamennone di Eschilo (v. 1258), Cassandra individua Clitennestra, la moglie adultera e assassina. Quindi Giasone, il padre privato della prole, aggiunge una maledizione con epiteti che caratterizzino la donna in maniera del tutto negativa:" e[rr j, aijscropoie; kai; tevknwn miaifovne"(v. 1346), vattene in malora, autrice di nefandezze e macchiata del sangue dei figli! 

Al che ella risponde come un eroe omerico per il quale il dolore più grande è non ricevere l'onore (timhv) dovuto al suo valore (ajrethv):"su; d& oujk e[melle", ta[m j ajtimavsa" levch-terpno;n diavxein bivoton, ejggelw'n ejmoiv" (vv. 1354-1355), tu non dovevi, disonorato il mio letto, vivere una vita felice irridendomi.

 Medea inorridisce all'idea di essere ridicolizzata per lo smacco del letto e preferisce essere conosciuta quale artefice di mali estremi piuttosto che come amante rifiutata: alla fine del primo episodio dice a se stessa:" jora/'" a} pascei"; ouj gevlwta s j ojflei'n--toi'" Sisufeivoi" toi'sd j jIavsono" gavmoi",-gegw'san ejsqlou' patro;" JHlivou t j  a[po.-- jEpivstasai dev: pro;" de; kai; pefuvkamen--gunai'ke", ej" me;n e[sql j ajmhcanwvtatai,--kakw'n de; pavntwn tevktone" sofwvtatai"(vv. 404-409), vedi quello che soffri? non devi dare motivo di derisione ai discendenti di Sisifo[5] per queste nozze di Giasone, tu che sei nata da nobile padre e discendi dal Sole. E poi lo sai: oltretutto noi donne siamo per natura assolutamente incapaci di nobili imprese, ma le artefici più sapienti di tutti i mali. 

Il motivo della  paura della derisione è presente anche nell'Antigone  dove la ragazza protagonista, pur del tutto diversa da Medea, scambia le espressioni consolatorie del Coro per parole canzonatorie  della sua infelicità, e offensive della sua persona, quindi  dice:" :"Ahimé sono derisa (oi[moi gelw'mai). Perché, per/gli dei  patrii,/non mi oltraggi quando sono sparita,/ma mentre sono visibile?" (vv. 839-841). Tale fraintendimento rende l'idea dell'incomprensione reciproca tra la fanciulla e le altre creature viventi, anche benevole. Oramai la figlia di Edipo si intende soltanto con i morti. Queste donne, dicevo, hanno qualcosa in comune con gli eroi omerici, in particolare con Achille.

Anche Didone in procinto di essere abbandonata da Enea soffre pensando di essere derisa dai pretendenti rifiutati prima:"En quid ago? rursusne procos inrisa priores/ experiar…?" (Eneide, IV, 534-535), ora che cosa faccio? a mia volta farò tentativi, derisa, con i pretendenti di prima?

Il timore della derisione invece deriva Madame Bovary  dalla goffaggine e l'importunità del marito:"Temo che i sottopiedi mi daranno fastidio nel ballare", disse lui. "Ballare?" disse Emma. "Sì!" "Ma tu hai perduto la testa! Farai ridere tutti, sta' tranquillo al tuo posto. Del resto," aggiunse, " è quello che si addice di più a un medico"[6]. 

 B. M. W.  Knox sottolinea la "rappresentazione in termini eroici di una moglie straniera e ripudiata" assimilando la Medea  di Euripide soprattutto agli eroi sofoclei, e in modo particolare ad Aiace : "Sia Aiace sia Medea temono più di ogni altra cosa al mondo lo scherno dei loro nemici...Medea è presentata al pubblico nello stile e nel linguaggio inconfondibile di un eroe sofocleo...Il suo più grande tormento è il pensiero che i suoi nemici rideranno di lei (gelos  383 ecc.): come gli eroi sofoclei maledice i propri nemici (607 ecc.) mentre progetta la vendetta...Come un eroe sofocleo, resiste tanto agli inviti alla moderazione quanto ai duri richiami della ragione...Questa rappresentazione...deve avere messo un po a disagio il pubblico che la vide per la prima volta nel 431 a. C. Gli eroi, questo si sapeva, erano creature violente e, dal momento che vivevano e morivano secondo la semplice regola 'aiuta i tuoi amici e fa del male ai tuoi nemici' era prevedibile che le loro vendette, quando si fossero sentiti trattati ingiustamente, disonorati, offesi, fossero immense e mortali. I poemi epici non mettono mai in discussione il diritto di Achille di portare distruzione nell'armata greca per vendicare l'assalto di Agamennone né il massacro dell'intera giovane generazione dell'aristocrazia di Itaca compiuta da Ulisse. L'Aiace di Sofocle non vede niente di sbagliato nel proprio tentativo di uccidere i comandanti dell'armata per avergli negato le armi di Achille; in lui la vergogna nasce semplicemente dall'aver fallito il suo tentativo sanguinario. Ma Medea è una donna, una moglie e una madre, e per di più una straniera. Inoltre si comporta come se fosse una combinazione tra la nuda violenza di Achille e la fredda astuzia di Ulisse e, quel che è più importante, è in questi termini che le parole del dramma di Euripide ce la presentano. 'Nessuno deve considerarmi un'incapace' ella dice 'o un debole o una persona mite. Altro è il mio carattere: violenta con i nemici e con gli amici buona. Quelli che si comportano così hanno la vita più gloriosa.' (807 ss.). E' il credo secondo cui vivono e muoiono gli eroi di Omero e di Sofocle[7] ". Anche Apollonio Rodio attribuisce alla sua Medea adolescente qualche cosa di omerico quando le attribuisce la ejpivklopo" mh'ti" , la scaltra intelligenza   di Odisseo (III, 912).

 Nell'Iliade  il compenso che il prode si aspetta in cambio dell' ajrethv dimostrata obbedendo agli obblighi del suo rango e della sua identità eroica, impegnativi fino al sacrificio, è un riconoscimento in termini di onore: la timhv negata è una tragedia per il valoroso che si è distinto in battaglia: Achille si rifiuta di combattere solo quando constata che l'uomo codardo e il valoroso sono tenuti nello stesso onore:" ejn de; ijh'/ timh'/ hjme;n kako;" hjde; kai; ejsqlov""[8] . Sua madre infatti implora Zeus di onorargli il figlio:"tivmhsovn moi uiJovn"[9], onora mio figlio-prega-, poiché è di vita più breve degli altri, e il signore di genti Agamennone lo disonorò ("hjtivmhsen"[10]) : gli ha preso il suo dono e lo tiene.

Tetide invoca la meritocrazia.

Il disonore della donna è quello del letto: un uomo a lei gradito già la disonora se non fa l'amore con lei, e la disonora due volte se lo fa con un'altra. Tant'è vero che le "ardite femmine spietate"[11] di Lemno uccisero tutti i maschi dell'isola per l'ira tremenda di Cipride causata dal fatto che i mariti da lungo tempo non rendevano più gli onori loro dovuti (Argonautiche, I, 615). Esse uccisero non solo i consorti e le loro amanti, le schiave tracie[12], ma ognuno che fosse maschio. Solo Issipile risparmiò il vecchio padre, il re Toante. Poi verrà sedotta da Giasone.

Achille dunque smette di combattere facendo così morire i suoi compagni e addirittura il suo miglior amico, Medea uccide i figli. Quando Giasone le domanda: hai ritenuto giusto ucciderli per il letto ("levcou"...ou[neka", v. 1367)?, la madre oltraggiata risponde:"smikro;n gunaiki; ph'ma tou't j ei\nai dokei'";" (v. 1368), pensi che questa sia una sciagura piccola per una donna?

Anzi, è tanto grande che Medea, per contrappesarla adeguatamente, infliggendone una altrettanto grande a chi glel'ha inflitta, ha già deciso di ammazzare i figli comuni, pur a lei cari.

Achille e Medea hanno in comune il "non cedere" eroico. Il figlio di Peleo non può cedere in battaglia quando vi torna: "ouj lhvxw , non cederò grida in Iliade , XIX, 423 rispondendo alla predizione di morte del cavallo fatato Xanto; e la Nutrice di Medea racconta:"Già infatti l'ho vista mentre fissava con furia taurina/questi bambini, come se avesse in animo di fare qualcosa; e non cesserà/dall'ira (oujde; pauvsetai-covlou, vv. 93-94), lo so bene, prima di avere assalito qualcuno./Spero lo faccia almeno con i nemici, non con i suoi cari" (vv. 92- 95). L'implacabilità di oujde; pauvsetai viene ripresa poco dopo (v. 109) dall'aggettivo duskatavpausto" ,  implacabile appunto, sempre riferito a Medea dalla nutrice che la conosce bene. Più avanti la nutrice ribadisce questa implacabilità dell'ira di Medea:"ouj e[stin o{pw" e[n tini mikrw/'-devspoina covlon katapauvsei" (vv.171-172), Non è possibile che la signora contenga l'ira in una piccola vendetta.

L'eroe non fa niente che non stimi degno della sua natura:  Achille , cedere nescius [13],  non si lascia fermare da niente e il Bruto Minore di Leopardi prima di suicidarsi proclama :" Guerra mortale, eterna, o fato indegno,/teco il prode guerreggia,/ di cedere inesperto"(vv. 38-40).

Achille e Medea non si peritano di mandare in rovina amici e nemici quando si tratta di salvare il proprio l'onore.

 

 

 Quando Giasone in uno degli ultimi versi (1396) li invoca:" o figli carissimi" e Medea replica :"alla madre sì, a te no", il padre domanda:"e poi li hai uccisi?", l'infanticida risponde:"Per tormentare te" (v. 1398).

Nella Medea di Seneca Giasone il suo punto debole: l'amore paterno. Allora la follia lucida di Medea vede dove può colpire e dice fra sé:"sic natos amat?/Bene est, tenetur, vulneri patuit locus" (549-550), ama così i figli? Va bene, ce l'ho in pugno, si è aperto un varco per la ferita.

E’ la quintessenza del sadismo: per tenere in pugno una persona bisogna infliggerle sofferenza.

“Come fa un uomo ad affermare il suo potere su un altro uomo, Winston?”

Winston ci pensò un po’ su. “Facendolo soffrire” disse infine.

“Esattamente. Facendolo soffrire. L’obbedienza non basta…Il potere consiste appunto nell’infliggere la sofferenza e la mortificazione. Il potere consiste nel fare a pezzi i cervelli degli uomini e nel ricomporli in nuove forme e combinazioni di nostro gradimento”[14].

 

Si tratta di una difesa dell'identità a tutti i costi.

Medea come Achille, come Antigone non cede. E non giunge a quella rassegnazione alla quale secondo Schopenhauer  la tragedia dovrebbe condurre. Secondo il filosofo del pessimismo "quasi tutti" i drammi greci :"mostrano il genere umano sotto l'orribile dominio del caso e dell'errore, ma senza la rassegnazione da ciò provocata e di ciò redentrice". Per questo la tragedia antica non viene approvata:"Se quindi gli antichi rappresentano poco nei loro eroi tragici, come loro disposizione d'animo, lo spirito della rassegnazione, l'abnegazione della volontà alla vita; ciò nondimeno la vera tendenza e l'efficacia della tragedia restano sempre quelle di destare nello spettatore tale spirito e provocare in lui, se anche transitoriamente, quella disposizione d'animo"[15].

Nietzsche rifiuta questa interpretazione dopo essersi pentito "di avere oscurato e guastato con formule schopenhaueriane intuizioni dionisiache"[16]. Leggiamo quanto scrive nei Frammenti Postumi :"Schopenhauer sbaglia quando fa di certe opere d'arte uno strumento del pessimismo. La tragedia non insegna la "rassegnazione". Il rappresentare le cose terribili e problematiche è esso stesso già un istinto di potenza e di magnificenza nell'artista: egli non le teme. Non c'è un'arte pessimistica. L'arte afferma"[17].  

La Medea  di Seneca riafferma la propria identità terribile quando alla fine del dramma chiede a Giasone:"Coniugem agnoscis tuam? " (v. 1021), riconosci tua moglie? Giasone chiude la tragedia gridando alla donna di andare per gli alti spazi dell'etere sublime ad attestare che per dove passa non esistono gli dèi. "E' l'antiapoteosi finale"[18].

 Ma anche sulla terra il caso di Medea lascia una testimonianza indelebile: Ippolito nella Fedra ne fa il paradigma negativo che concentra in sé e rappresenta tutto il genere criminale delle donne:"Sed dux malorum femina: haec scelerum artifexSileantur aliae: sola coniunx Aegei,/Medea, reddet feminas dirum genus" (vv. 559, 563-564), ma il primo dei mali è la donna: questa artista del crimine…si taccia delle altre: la sola moglie di Egeo[19], Medea, renderà le femmine una razza funesta. 

La donna barbara insomma è tornata a essere l'assassina che era già nel ruolo di moglie e complice del bel seduttore greco. Il suum esse  del De brevitate vitae di Seneca ("Ille illius cultor est, hic illius: suus nemo est ", 2, 4, , quello è dedito al culto di quello, questo di quello, nessuno appartiene a se stesso) è rivendicato da Medea in tutta la tragedia:" In questa rapina rerum omnium  (Marc . 10, 4), che ingigantisce su scala cosmica l'instabilità della condizione politica, resta come unico punto fermo, come unico bene inalienabile il possesso della propria anima" afferma l'ottimo Traina[20]. Anche se è un'anima sconvolta aggiungo .

Più avanti il professore dell'ateneo bolognese aggiunge:"L'animo si arrocca in se stesso: fuori è il regno della fortuna, il vortice delle cose, turbo rerum  (ep.  37, 5), hJ e[xwqen perirrevousa divnh, come dirà Marco Aurelio (12, 3, 3). E' ellenistico questo senso chiuso, individualistico, direi esistenziale dell'interiorità"[21].

Io direi che è già euripideo. I delitti degli uomini fanno dubitare della presenza di dèi giusti già il "sacrilego"  Euripide il quale aprì la strada ai "beffardi Luciani dell'antichità"[22] e al  Seneca delle tragedie:" Fugere Superi " (Thyestes, 1022), sono fuggiti (fugere=fugerunt ) gli dèi, afferma Tieste quando riconosce il fratello Atreo dal crimine efferato che ha commesso, e Giasone chiude la Medea gridando alla donna che si allontana:"Testare, nullos esse, qua veheris, deos " (Medea, v. 1016), attesta per dove passerai che gli dei non esistono.

Data la concezione pedagogica del teatro di Seneca, tutti i suoi personaggi sono paradigmi e, al pari del loro autore, lasciano l'immagine della loro vita[23].   

La Medea di Euripide alla fine trionfa poiché accetta del tutto quella sua diversità della quale in un primo tempo aveva solo preso coscienza:"h\ polla; polloi'" eijmi diavforo" brotw'n" (v. 579), davvero in molte cose io sono diversa da molti. Sembra che la donna barbara abbia infine attuato il precetto che costituisce "La somma di tutto il pensiero educativo di Pindaro"[24]:"gevnoio oi|o" ejssiv" (Pitica II  v. 72), diventa quello che sei.

Un motto recentemente usato dalla pubblicità, in francese, poiché, come dice bene Bettini "anche i pubblicitari sono degli Aconzi"[25]. Questo fu il primo uomo capace di obbligare con la lettura.

 La pubblicità vuole farci diventare tutti uguali, ossia tutti compratori degli stessi prodotti, mentre la tragedia antica ci aiuta a vedere fuori dall'orizzonte obbligato:" Il teatro greco era infatti un rito religioso in cui le esperienze fondamentali di ogni individuo venivano rappresentate in forma drammatica, e in cui proprio la forma drammatica aveva la forza di spezzare la routine. Chi era partecipe del dramma non era un consumatore né uno spettatore, ma partecipava a un rito che toccava nell'intimo le corde fondamentali della vita; è per questo che il dramma, come dicevano i Greci, produceva un effetto catartico. Il dramma purificava, toccava direttamente. Chi prendeva parte a una rappresentazione drammatica ritrovava il contatto con la parte più profonda dell'uomo e dell'umanità, e ritrovava così ogni volta la capacità di squarciare il velo della routine"[26]. 

Ho visto ieri nella piazza Maggiore di Bologna il  film La valle dell'Eden di Elia Kazan 81955) tratto dal romanzo di Steinbeck East of Eden.

Ebbene in questo film sono resi problematici i rapporti tra genitori e figli, tra marito e moglie, tra fratelli. Problematici e tragici come nelle tragedie greche e senecane.

Torniamo alla diversità di Medea, alla problematica diversità di ciascuno di noi e concludiamo:" Il vero problema nasce con le diversità che si pongono in irriducibile conflitto con il modello di umanità, un conflitto nel quale la soddisfazione dell'esigenza degli uni costituisce necessariamente violenza per gli altri e viceversa. Nel famoso film di Fritz Lang, M, l'assassino di bambine non mente, quando illustra tragicamente la sua reale esigenza che lo induce a quegli atti omicidi, e l'altissimo costo che significherebbe per lui la repressione di quegli impulsi, ma d'altra parte anche il diritto di quelle bambine di non essere uccise-ossia il loro diritto di esigere la sua repressione-non è meno reale. Pure il delitto di Raskol' nikov nasce da una passione sofferta e reale; se egli ne venisse impedito, ciò significherebbe il sacrificio di una sua oscura ma autentica esigenza, e d'altronde senza quel sacrificio sono le sue vittime a venire calpestate. Si tratta di casi estremi, che indicano tuttavia la difficoltà di tracciare un confine fra l'esigenza dell'universale e la rivendicazione della diversità, e che indicano soprattutto la difficoltà di risolvere il problema sul mero terreno della prosa del mondo, sul piano puramente sociologico: per Dostoevskij soltanto la prospettiva di Sonia, della carità, può risolvere il dilemma di Raskol'nikov"[27].

L'eroismo di Medea sta nella realizzazione e rivendicazione della propria natura senza infingimenti. Analogamente nelle Ultime lettere di Iacopo Ortis leggiamo:" io mi reputo meno brutto degli altri e sdegno perciò di contraffarmi; anzi buono o reo ch'io mi sia, ho la generosità, o di' pure la sfrontatezza, di presentarmi nudo, e quasi quasi come sono uscito dalle mani della Natura"[28].  

 

Bologna   9 luglio 2023 ore 12, 10 giovanni ghiselli.

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[1] Autore dell'età di Tiberio al cui regime diede sostegno. Il suo Factorum et dictorum memorabilium , una raccolta di exempla in nove libri, uscì intorno al 31 d. C.

[2]Per cui cfr. il mio Storiografi Greci , pp. 88-89.

[3]p. 124. Parla dei giovani.

[4] R. Musil, L'uomo senza qualità, p. 27.

[5]Gli abitanti di Corinto, fondata da Sisifo con il nome di Efira. Questo figlio di Eolo era famoso per i suoi inganni.

[6]  Flaubert, Madame Bovary , p.40.

[7]B. Knox, The Medea of Euripide , in "Yale Classical Studies", 28, 1977, trad. it. in Medea  , a c. di L. Correale, Milano, 1995.

[8]Iliade , IX, 319

[9]Iliade , I, 505

[10]Iliade  , I, 507

[11] Dante, Inferno, XVIII, 89.

[12] Per cui cfr. l'elogio degli amori ancillari di Gozzano

[13]Orazio, Odi , I, 6, 5- 6:" gravem /Pelidae stomachum cedere nescii ", la funesta  ira di Achille incapace di cedere. 

[14] G. Orwell, 1984, p. 280.

[15] A. Schopenhauer, Supplementi al libro III del Mondo come volontà e rappresentazione , pp. 113-114.

[16] Tentativo di autocritica (, del 1886, alla Nascita della tragedia ), p. 12.

[17] Scelta di frammenti postumi, primavera 1888-14, p. 229.

[18] G. G. Biondi, op. cit., p. 165.

[19] Che sposerà Medea dopo Giasone.

[20]Lo stile "drammatico" del filosofo Seneca , Patron Edizioni, Bologna, 1974, p. 13.

[21]A. Traina, op. cit., p. 2O.

[22] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cap. 10.

[23] Imaginem vitae suae relinquere testatur , dichiara per testamento che lascia l'immagine della sua vita. E' Seneca prima di morire negli Annales di Tacito ( XV, 62).

[24]Jaeger, Paideia , I vol., p.391.

[25]M. Bettini, Con i libri , p. 9.

[26]E. Fromm, I cosiddetti sani . La  patologia della normalità dell'uomo contemporaneo , pp. 26-27.

[27] C. Magris, L'anello di Clarisse , p. 27.

[28] 11 dicembre 1797.

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