George Bernard Shaw |
La
mattina di venerdì 20 marzo, verso le sette e mezzo, mentre stavo uscendo da
casa, sentii squillare il telefono, del tutto insolitamente per quell'ora.
"Chi
può essere tanto presto?" mi domandai,
sperando del resto che fosse Ifigenia. Il proposito di non amarla più e
di prepararmi alla solitudine era debole. Rimasi deluso dalla voce di mia
sorella che chiamava da Moena e ci invitava a raggiungerla lassù: c'erano
anche
suo marito e un gruppo di amici.
"Venite
– disse - così stiamo un poco insieme".
"Io
arrivo questa sera, volentieri, Ifigenia non so: oggi è molto impegnata
all'Antoniano", risposi. Non volevo spiegare le nostre tragedie al
telefono in fretta e furia, freneticamente, prima di correre a scuola.
"Aspettala!
- mi esortò Margherita - Venite insieme domani mattina: noi rimaniamo fino a domenica sera".
"Glielo
dirò – conclusi - comunque tu e io ci vediamo".
Mia
sorella non si era accorta che la ragazza non gradiva la compagnia dei suoi
amici, né la sua, anzi oramai nemmeno la mia.
Per
strada pensavo che era meglio se a Moena andavo senza di lei: avrebbe fatto
scene odiose, come l'ultima notte dell’anno. Non era capace di sciare, non
sapeva o non voleva osservare, tanto meno ascoltare; chi avremmo trovato non le
piaceva; con me non andava
d'accordo.
Non amava neppure il sole, sebbene all'abbronzatura tenesse parecchio, secondo
la solita pretesa parassitaria di avere tutto, in cambio di niente. E in ogni
caso Ifigenia era innamorata di un altro: che cosa voleva ancora da me?
Entrai
in classe e assegnai il compito di latino. Mentre i ragazzi traducevano,
cercavo di stabilizzare il vacillante proposito di terminare il rapporto.
Scrissi all'Antonia che l'amore più grande, e bello della mia vita era finito.
Aggiunsi una frase tratta dallo Zibaldone: "anche io davo il mio contento
in custodia alla malinconia". Doveva essere l'epigrafe sulla pietra
tombale della relazione che invece aveva ancora qualche mese di vita.
All'inizio
dell'intervallo ero incerto se telefonarle, cosa che avevo fatto sempre, quasi
come un rito dovuto e pure festoso, ogni volta che lei era rimasta a casa. Formai il numero poco
convinto, tanto che lo sbagliai. Lo rifeci con l'intenzione di dirle soltanto
che la salutavo, poiché subito dopo la scuola sarei andato in montagna.
Non
intendevo invitarla. Ma il telefono era occupato. Allora sentii una voglia
impaziente e nervosa della sua voce. Finalmente rispose.
"Ciao.
- dissi - Ti telefono per salutarti: subito dopo la scuola vado a Moena. Ci
sono Margherita e i suoi amici".
Senza
esitare un istante rispose: "No Gianni, aspettami fino alle sei. Ti prego.
Ho voglia di venire con te, anche di vedere tua sorella. Mi sono svegliata di
ottimo umore. Mi manchi".
Così
mi spiazzò, mi eccitò, mi commosse. Mi vennero le lacrime agli occhi; ebbi
un'erezione violenta. Non fui capace di mantenermi fedele al primo proposito,
di tenerla in rispetto e a distanza da me, come avrei voluto, siccome
immaginavo che a Moena e in presenza di Margherita si sarebbe comportata da canaglia.
"Sì
tesoro, ti aspetto, sì vieni, mi fa tanto piacere davvero", risposi. Non che
fossi accecato al punto di non prevedere dispiaceri grossi; il fatto è che in
fondo sentivo di averne bisogno, per capire meglio e per fare capire scrivendo.
Sei curioso lettore di quest'ultimo viaggio da Bologna a Moena dei due amanti degenerati
in quasi nemici? Se non ti interessa, salta al capitolo successivo. Nel
pomeriggio andai a correre i 5000 metri al campo sportivo: lo feci in un tempo
buono per il mese di marzo. Allora pensai che, portandola in montagna con me, non solo facevo
del bene a lei, siccome la aiutavo a non degradarsi con quel ballerino di mezza
tacca, ma anche a me stesso in quanto frequentandola acquistavo
comunque
potenza, mentale e fisica.
Alle
sei e mezzo della sera dunque partimmo per la valle di Fassa. Io avevo buone
intenzioni.
All'inizio eravamo in discreta armonia.
Cantavamo
Marinella di Fabrizio De Andrè,
scambiandoci sguardi per quanto lo consentiva la guida, e sorridendoci, come due
che si vogliono bene, o addirittura si amano. Andava così nel novembre del '78,
il primo mese del nostro rapporto, quando ci guardavamo nelle pupille con
ammirazione reciproca, con allegria, con gioia, e osservandola io non potevo
fare a meno di ringraziare la Mente dell'Universo di averla messa sulla mia
strada.
Divinam ego putabam…
Appena
usciti dal casello di Padova ovest però, mi innervosii poiché avevo dimenticato
di fare benzina nell'autostrada, mentre fuori le pompe erano già chiuse, e i
distributori automatici non li sopporto. Ifigenia intanto, accesa la radio,
aveva cercato e trovato la musica rock, e la teneva a tutto volume.
"Musica drogata", pensai. Né
mi aiutava colei a rimediare la necessaria benzina. Mi domandavo:"
Che cosa è venuta a fare in montagna con me?".
A
Borgo Valsugana finalmente, vidi un distributore aperto; dopo il rifornimento
mi tranquillizzai un poco. Anche perché erano cessati quei rumori d'inferno.
Rimanemmo in silenzio fino a Trento, dove Ifigenia disse: " Ehi, vecchio
signore!"
"Che
cosa vuoi dire?" le domandai.
"No,
tu devi rispondere ‘Dei immortali!’" ordinò.
Stetti
al gioco: "Dei immortali!".
"Vecchio
signore, non scappare!".
Dovevo
rispondere: "Non scappare? Vecchio signore? A Giulio Cesare questo?".
Erano
battute del Cesare e Cleopatra di
Bernard Shaw . La fanciulla le aveva provate all'Antoniano, nel pomeriggio. Per
un quarto d'ora fu divertente, ma ripetuta decine di volte la scena divenne monotona,
quindi ossessiva, noiosa e odiosa. Non la finiva più di
ripetere:
"Ehi, vecchio signore!". Con voce da bimba. Smisi di risponderle, ma
continuò fino a Moena.
"Mancanza
di misura – pensavo - di educazione, di intelligenza. probabilmente è adatta a
quel
ballerino utile, forse, ad allungare una fila”.
Si
rispondeva da sola. Con voce da uomo. Provava un piacere depravato.
"Sfinge,
tu abusi dei secoli"
"Sono
più giovane di te, benché tu abbia ancora una voce da bimba"
"Ma
che regina d'Egitto!".
Verso
l'una arrivammo. Disse: "Buonanotte, vecchio signore" poi si avviò
verso camera sua.
Mi
sentivo così poco amato, così strumentalizzato, e provai tanto risentimento che
pensai: "Se non vado a letto con quella, gliela do vinta ancora una volta.
E' venuta a Moena solo per abbronzarsi e sfruttarmi: non prova attrazione, né
stima, né affetto per me. Adesso però le faccio vedere cosa provo io per
lei".
Mi
involgarivo, mi mettevo a un livello più basso e triviale del suo: Ifigenia non
voleva fare sesso con me; io avevo intenzione di imporglielo per dispetto, con
risentimento e volontà di rivalsa .
Andai
in camera mia a posare il bagaglio, quindi salii la rampa di scale che ci
separava e bussai alla porta della sua stanza. Mi aprì. Entrai. Le chiesi: "Hai
voglia di dormire?"
"No"
rispose pur stropicciandosi gli occhi, come faceva, a qualsiasi ora, quando
voleva dare a vedere di essere già mezza morta di sonno.
"Bene
– dissi - allora neanche io. Quindi facciamo l'amore". Come se fosse stato
suo dovere farlo comunque: anche senza tenerezza, né simpatia, poiché era
quanto lei mi doveva in cambio dell'aiuto per l'esame di recitazione, e del
fatto che l'avevo portata in montagna.
Copulammo
una sola volta, squallidamente. "Ecco il peccato vero – pensai - non è
fare l'amore, come ci inculcavano i preti, ma fare sesso in questa maniera
priva di gioia". Quindi cominciai a vestirmi, senza parlare. Ma Ifigenia
disse: "Gianni, resta a dormire con me".
La
guardai. Era nuda. Aveva un'aria davvero stanca, quasi sofferente e malata. Mi
diede pena. La sua dignità residua non le consentiva di cadere con il nostro
rapporto in una specie di semiprostituzione senza reagire con una scena di
affetto e con una simulazione di amore.
"D'accordo"
risposi. Volevo contribuire a salvarci la faccia, ma sapevo che nella sua
richiesta non c'erano sentimenti buoni per me. Dormii un paio di ore, poi
tornai in camera mia, pieno di odio, di compassione e di schifo.
La
mattina, verso le nove, andai a chiamare Ifigenia che era già pronta; quindi
scendemmo insieme nella sala da pranzo. Avevo voluto evitarle l'imbarazzo di
salutare da sola Margherita e i suoi amici. Questi stavano finendo la
colazione; come ci videro entrare, si alzarono in piedi, ci applaudirono e
fecero dei gran complimenti. In effetti la ragazza era bella assai, e imbelliva
anche me. Dopo, salimmo sulla pista del Lusia. Ifigenia si era
procurata
sci e scarponi, ma non volle provarli; "forse domani" disse.
Quando
furono le dieci anzi, accusò un forte male di stomaco e volle rientrare in
albergo per stendersi nel letto. Sarebbe tornata più tardi. Sciando, pensavo a
lei che mi aveva accompagnato per soffrire e farmi soffrire: non sciava, non
parlava, non vedeva il paesaggio, aborriva il gruppo di mia sorella, nemmeno
del sole e dell'abbronzatura si curava. Era venuta sulle Dolomiti per chiudersi
in una stanza e poi lamentarsi. Mi venne in mente un compagno di scuola di
quinta ginnasio che in gita scolastica, nel 1960, proprio a Moena, durante la
cena, chiese un panino. Siccome non glielo portarono, abbaiò: "Boia di un
Giuda, ho fatto spendere quindici mila lire a mio padre per non mangiare
neanche un panino? E tu Ghiselli, perché mi hai detto che questi posti dove ci
affamano sono bellissimi? Era meglio se restavo a casina, e quei soldi me li tenevo
in saccoccia, boia madosca!" Vecchio,
bestiale, titanico Maurizio Sessi, tutto istinto. Anche colei era tutto
istinto, nemmeno benevolo nei miei confronti,
ed era meglio se non veniva a Moena. Rimuginavo
fastidiosi
pensieri, mescolati e temperati con ricordi buffi.
Alle
tre cercai di telefonarle. Una voce rispose che la signorina non era in
albergo. "Cosa? - pensai - è
uscita?"
Cominciavo
a sentire il morso vipereo della gelosia, quando la vidi apparire con la faccia
pallida, immersa nel bavero rialzato del montone nuovo, quasi bianco anche lui.
Era più attraente del solito.
"Stai
meglio?" le domandai.
"No,
sto ancora male. Sono tornata perché in camera da sola avevo paura. Ti
aspettavo, ma tu non arrivavi mai. Non hai nemmeno telefonato. Speravo che lo
facessi".
"Infatti,
lo stavo facendo in questo momento, tesoro. Sarei venuto adesso, se tu mi
avessi detto che gradivi la mia presenza. Prima non ti ho chiamata perché
pensavo che stessi dormendo o smaltendo il dolore. Davvero non ti è passato,
creatura?"
"No,
gianni, sto peggio di prima".
"Moena,
o cara, noi lasceremo,/ la vita uniti trascorreremo:/de' corsi affanni compenso
avrai,/la tua salute rifiorirà", canticchiai quasi senza ironia. In
effetti era verde a vedersi.
Come
mi diceva la mamma mia quando ero bambino e adolescente, perché smettessi di
strapazzarmi affaticandomi troppo con gare di corsa, di nuoto, di bicicletta.
Senza contare lo studio matto e disperatissimo delle materie numeriche che non
capivo.
Ma
la bellezza di Ifigenia era inattaccabile; integrale era: anche se mutava
colore non cambiava sostanza. "Cosa pensi che sia, cocca?" le
domandai. Mi venne in mente Helena Sarjantola, e la sera di quel luglio
lontano, quando alla stessa domanda rispose: "Ho male al ventre: potrei
essere in cinta, ma potrebbe anche essere un cancro". Io allora la amai.
"Non
lo so - fece Ifigenia - sento dolori forti sotto lo stomaco, a destra. Forse è
il fegato. "Bellina! – pensai - Le tue vene tremano senza tregua, come
cespugli di rose" .
"Ti
accompagno in albergo poi rimango là – dissi - ho sciato abbastanza".
Tornammo
a La Campagnola e salimmo in camera sua. Si stese sul letto. Volle che le
tenessi una mano e leggessi i miei appunti del mese di Marzo. Lessi le
annotazioni copiose dalle quali avrei tratto i due capitoli precedenti.
Ifigenia ascoltava con attenzione.
Quando
ebbi finito, disse: "Bravo, continua così: ci sai fare." Poi mi chiese
il quaderno per scriverci qualche cosa. Glielo diedi e volsi lo sguardo fuori
dalla finestra, ai monti Pallidi che, declinando il sole dall'altra parte,
cominciavano a coprirsi di rose. "Presagio d'estate felice" pensai,
come avevo fatto a Moena nella primavera che precedette l'incontro con la
ragazza bella, bruna e vivace.
Rivolsi
una preghiera al sole che rosseggiava tra le pietre dei monti: "Falla
diventare un'attrice famosa, e fammi scrivere un capolavoro capace di educare
un popolo intero". Il dio non diede alcun segno. Invece mi chiamò Ifigenia
per restituirmi l'agenda con queste parole: "Caro gianni, sto male da
morire. Ho il fegato in cattivo stato: ‘visceri guasti dai ripugnanti sospiri’,
e mi sento quella persona infelice, malata che sono diventata. Ma io
non
sono così di natura. Una delle mie caratteristiche è essere sana oltre che
allegra, vitale, ecc. Tu dici che vuoi il mio Bene e secondo te il mio Bene è
che tu continui a scrivere, a essere forte. Dici che sono infelice e non ti
chi… ". Qui si interrompe. In fondo alla pagina sono disegnati due volti piccoli,
con occhi grandi ma poco espressivi, con capelli folti, nasi leggermente
carnosi e pronunciati, denti appena un poco fuori dalle labbra sensuali. Visi
alquanto
simili al suo.
A
cena Ifigenia continuò a fare la grande malata: mangiò solo del riso scondito,
e subito dopo, tra lamenti e sospiri, volle tornare in camera. L'accompagnai.
Mi pregò di rimanere a dormire con lei.
La
mattina seguente si svegliò guarita e contenta. Allora le proposi di sciare con
me, sulle piste del Lusia: il gruppo di mia sorella era andato su quelle del
San Pellegrino, perciò non avremmo incontrato nessuno che, conoscendola,
potesse vederla cadere, posto che fosse caduta. Così la convinsi: infatti
temeva il ridicolo. Mi seguì in direzione della discesa Le Cune-Valbona che per
un principiante, a onore del vero, è alquanto difficile. Voglio dire che non
fui un bravo maestro, né un amico, portandola da quella parte. Comunque la
precedevo, mi giravo e la incoraggiavo a tentare i brevi tratti che ci
separavano. Le davo pure suggerimenti vari sulla tecnica sciistica dove del
resto io stesso ho più da imparare che da insegnare. Non potei evitarle di
cadere innumerevoli volte, anche pesantemente. Nei casi peggiori mi piombava addosso,
e, precipitando, mi trascinava con sé. Allora dovevo rimettere in piedi tutti e
due, con fatica ogni volta maggiore. Dopo pochi metri
di
scivolata, ricadeva, più o meno male, ma sempre cadeva.
A
metà discesa si tolse gli sci, esasperata e, credo, ammaccata; mi accusò
persino di avere voluto ammazzarla buttandola giù per quel burrone scosceso. Risposi
che la pista non era nera, e che cercavo di insegnarle con il metodo attraverso
il quale avevo imparato io: anche a nuotare avevo cominciato buttandomi dal moscone
dove non toccavo, quando non ero sicuro di galleggiare.
Replicò
sdegnata che lei era diversa da me, e non voleva rischiare la vita; quindi mi
consegnò i suoi sci e cominciò a scendere camminando. Ogni due passi imprecava.
Mentre facevo la discesa da solo, con i suoi sci tra le braccia, pensavo: "Ma
guarda se quella, da quando frequenta una scuola di recitazione, deve avere l'ardire
di credersi una gran donna, superiore a te. Hai visto come era goffa e
vigliacca? Hai contato quante volte è caduta? Se non ti ama più, siccome pensa
di trovare un principe azzurro nell'ambiente dello spettacolo, vada pure a
cercarlo nel teatro il suo eroico burattino. Sarà lo strappo nel cielo di carta
a darle coscienza dell'errore che ha fatto cambiando te con una marionetta. In
fondo colei è stata pure una palla di piombo attaccata con una catena ai tuoi
piedi leggeri per invalidarne la corsa.
Oggi per esempio, sai quanto avresti sciato più volentieri con tua sorella, o
anche da solo, piuttosto che con questa noiosa balorda! Per quanto riguarda la
tua opera d'arte poi, non credere che tale cretina sia necessaria; anzi,
comincerai a scrivere con impegno totale quando quella sciagurata sarà andata
via. E intanto, finché rimane, disturba. Sparita lei, tu sarai libero da tanto
tumore; passata la sofferenza della resecazione, ti sentirai veloce e potente: potrai
lanciarti spedito verso la meta dell'arte".
La
aspettavo alla stazione intermedia di Valbona. La vidi arrivare dopo una
mezz'ora.
govanni
ghiselli
Il
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Questo capitolo mi piace moltissimo...in certi punti fa venire i brividi...quando l'amore sta finendo sembra davvero un fuoco che muore,un attimo brucia e un attimo sembra spento. Penso che se si è amata tantissimo una persona poi non può esserci indifferenza e che sia necessario arrivare ad odiarsi per ottenere la catarsi che può aprire le porte ad una nuova relazione,un sentimento forte va consumato fino in fondo.
RispondiEliminaLe storie lasciate a metà strappate dal loro naturale consumarsi fanno soffrire troppo perché lasciano troppi dubbi e troppi rimpianti.Per smettere di amare una persona bisogna perdere il rispetto fino all'ultima traccia e consumare ogni altro sentimento buono fino alla fine. Questo capitolo mi affascina perché sembra una danza e se fosse una musica credo che sarebbe il bolero...un crescendo travolgente ed erotico. Eros e tanatos. Amore e odio. Giovanna