Quanta Stella c’è nel
cielo di Edith Bruck (Garzanti, Milano, 2000)
Seconda e ultima parte.
Il carattere buono di Anita, quel daivmwn che è anche il destino di ciascuno di noi[1], si
manifesta nei suoi ricordi. Questi sono rivolti non solo alle sofferenze subite
e capite ma anche, ma ancora di più, alle
gioie godute, sentite a fondo, pur se causate da piccoli eventi: “Per noi
bambini bastava niente per gioire, e le gocce d’acqua che filtravano dal tetto
e facevano disperare la mamma per noi erano manna, ciliegie da acchiappare con
la bocca spalancata” (p. 75)
O quando, finita in prigione come clandestina, l’adolescente
fa questa riflessione “la guardiana che apparve dicendomi “Dobrý den” (“Buongiorno”) sembrava un oceano di bontà che, invece
della sua acqua salata, mi diede tè caldo e pane nero (…) Al prigioniero basta
uno sguardo umano per credere nell’umanità intera, come a un bambino una foglia
per giocare”.
Per questo riconoscimento del bene è necessario però avere
il bene dentro di sé. Quelli che non ce l’hanno, coloro nei quali prevale il
male, i malvagi vedono e riconoscono solo malvagità nel mondo. Carattere in
greco si dice trovpo~, un sostantivo
che significa pure la direzione verso la quale uno volge (trevpei)
la propria anima. C’è chi la indirizza al bene, chi al male.
Il male fa male non solo alle persone che lo subiscono ma
anche a quelli che lo provano per gli altri e lo infliggono al prossimo: “Tutto
questo odio fa male a te non a loro” (p. 84), dice Anita a Eli che parla poco e
male, dicendo parole quasi sempre cattive. Alla propria amante quindicenne che
gli domanda: “Cosa posso fare per renderti meno rabbioso, più contento?”, lui risponde: “Letto, fottere (…) Tu non
entrare mia storia mia vita”.
Anita ricorda spesso quanto le diceva la mamma, una donna
religiosa, affaticata, delusa: “la mia mamma, gli uomini così, li chiamava cani
di legno” (p.100). Anita è incline al bene ma impara a distinguere il male.
Ha imparato molto dai nazisti e apprende dell’altro dal suo
primo amante.
Tutto il male e il dolore subito, però, non l’hanno impregnata, non l’hanno resa
malvagia: “Se gli assassini devono trasformare in assassini anche noi, vincono
di nuovo loro, ci fanno perdere l’innocenza, l’anima” (p. 117) dice a un
personaggio che suggerisce di “affrontare i nemici a testa alta e mano armata”.
Dopo qualche tempo Anita viene mandata a fare un lavoro di
cucitrice in un luogo seminterrato, oscuro e freddo e che la intristisce. Ma il datore di lavoro le
fa coraggio: “Un giorno, spero non lontano, sarai in un luogo caldo e
galleggerai sul Mar Morto” (p. 120).
Rispetto alle utopie classiche, prive di luogo, talora anche
di tempo (le ucronie) questa terra promessa degli Ebrei è invece reale nello
spazio e nella storia.
Nel luogo di lavoro Anita prova affetto per una ragazza
ebrea anche lei ma di estrazione borghese, Emma, dalla cui presenza trae
conforto attraverso una corrispondenza
di sentimenti umani .
Nella casa dove vive con i parenti, l’unico calore affettivi
lo trae non dall’amante né dalla zia ma dal bambino cui fa da maestra e da
mamma: “L’amore di cui scoppiavo lo riversavo sul bambino che un giorno, al mio
ritorno dal lavoro, pronunciò la prima parola chiamandomi “mamma mamma” (p.
133).
Anita ne viene “stordita dalla felicità” in quanto si sente “ricambiata da quel
piccolo esserino tutta vita” (133). L’amore per la vita, la commozione davanti
a ogni forma di vita è la forza e la bellezza di questa ragazza e di tutto il
libro. E’ un amore e una commozione che ho riconosciuto in tutti i film di Faenza.
Finalmente arriva la primavera che “aveva risvegliato alla
vita anche i mattoni delle case con i loro colori rossastri, illuminati da un
sole dal calore tenero che scioglieva le membra, i sensi, i musi e le labbra
finora chiuse al saluto” (p. 141). Tutto viene osservato con sguardo benevolo,
attento alla vita intera: cose, piante, animali e persone.
Alcune delle persone, pur congiunte ad Anita, pure sue
consanguinèe sono invece estranèe alla sua sensibilità. Lo è Eli, dolorosamente, e anche la zia che
allontanava “da sé tutti gli argomenti seri, per incapacità di capirli o per
paura che potessero turbare la sua voglia di leggerezza” (p. 144).
Monika tratta la nipote come una serva: “E tu, pensatrice”,
guarda me, “pensa ai panni da lavare”.
A tre quarti del racconto la storia di Anita giunge alla resa dei conti. La ragazzina
scopre di essere incinta e lo dice all’uomo che l’ha ingravidata.
Lui reagisce da bruto, da stupratore dell’anima: “Tu pazza
bugiarda, non incinta di me” (p. 149). Anita ribatte che nessun altro uomo l’ha
toccata, ma Eli replica rincarando la dose: “Tu piccola idiota grande puttana
se davvero incinta perché nascosto? Perché non lavata dopo? Io non voglio te
non voglio bastardo. Scandalo se dici Monika o Aron, ti ammazzo io! Abortire!”
Mi viene in mente un film di Fassbinder, Lilì Marlen, che scopre il male non solo
imperante con tracotante prepotenza fra
i nazisti, ma anche annidato nella
borghesia ricca e colta. Il male come il
bene non è mai esclusiva di un popolo,
di una classe sociale, o di una persona, nonostante popoli, classi e persone
siano stati impiegati come capri espiatori.
Anita dunque dopo la
violenza che le è stata inflitta dagli hitleriani, subisce questa di un
congiunto mascalzone, un uomo cui aveva donato tutta se stessa. Ma nemmeno
questa volta diventa cattiva, né perde fiducia nella vita. Ha un ottimismo di
fondo, un ottimismo del resto ragionato e razionale che le fa superare tutte le
prove.
Ricorda che la madre le aveva detto che gli uomini nascono
per tenere le briglie sul collo delle donne e che nascere è una disgrazia.
E lei aveva risposto: “Ma se io non fossi nata non vedrei il
sole, gli alberi, la neve e non mangerei il tuo pane, mamma” (p. 152).
La reazione brutale dell’amante alla notizia del concepimento
la mette comunque in crisi: “La gravidanza, invece di rendermi più
forte, mi rendeva estremamente fragile, inerme, anche nei confronti dell’uomo
che aveva deciso per l’immediato aborto. Da padrone di me e di nostro figlio
aveva pronunciato la parola “aborto” subito, alla maniera del selezionatore,
che con la parola “sinistra” aveva mandato ai forni mia madre. “E’ un nazista”,
avrei voluto urlare, e uccidere in me ogni briciolo di sentimento per l’uomo
che mi aveva sedotta con il primo abbraccio protettivo e il primo membro
maschile che mi aveva penetrato” (p. 153)
Lui vuole farla abortire, nonostante l’opposizione di lei, e
il fatto che la gravidanza sia già avanzata oltre la metà del percorso. Un
briciolo di comprensione le giunge da Aron, lo zio acquisito che le dice: “Sei
una ragazza molto speciale, peccato che non vi capite con la zia: Tra voi due,
la bambina è lei, credimi. A me puoi dirlo cosa ti ha turbato a tavola.
Dovresti essere felice, finalmente vai a Praga. So che vi presteranno anche un
appartamento” (p. 159).
Ma in questa fase Anita è troppo scossa per parlare del suo
sconvolgimento, mentale e fisico. Eli ha preso un appuntamento con un medico di
Praga per farla abortire. Anita rifiuta
e detesta l’uomo che l’ha messa incinta :
“Preferirei un cane piuttosto che te, mi dà nausea anche il tuo respiro” gli
dice quando lui cerca di toccarla. Confronta l’oscurità mentale di lui con la
radiosità del cielo di fine maggio: “Come per verificare i miei sentimenti,
guardai il mio seduttore alla luce di un maggio ridente che si avvicinava a
giugno, e mi parve una figura buia (…) perché era oscurato dalla propria
stupidità ottusa” (p. 162). La luce è la più rallegrante delle cose e il buio
dell’ottusità è una delle più avvilenti, soprattutto quando lo si constata in
un amante.
I due vanno a Praga, dal medico che dovrebbe procurare
l’aborto. Anita viene salutata in ungherese e da tale delicatezza capisce che
questo dottor Heller è una persona buona.
“Oh grazie al cielo, grazie!” balbettai guardandolo come
fosse un’apparizione, una luce nel buio come il cuoco vicino al campo di
Dachau, che mi aveva chiesto come mi chiamavo e mi aveva regalato un pettinino
per i capelli appena spuntati dopo la rasatura ad Auschwitz” (p. 168). Basta
poco a rallegrare un infelice, un atto di cortesia, un momento di attenzione,
un gesto, anche solo simbolico, di generosità. Eppure spesso siamo avari
perfino di queste piccolezze.
Il dottore è una persona per bene e non se la sente di fare
abortire una ragazzina gravida di cinque mesi e non consenziente.
Le chiede come abbia fatto a innamorarsi di un farabutto
siffatto.
E’ questa sicuramente una domanda venuta in mente a parecchi
lettori
Sentiamo cosa risponde Anita: “Forse perché non mi amo,
forse per amare qualcuno, forse per punirmi perché vivo, forse per sentire che
vivo” (p. 173). E’ un momento di grande confusione nell’animo della fanciulla,
è una fase di crisi della sua identità.
Il medico suggerisce che possono simulare l’abortimento
e dire a Eli che è stato effettuato.
Anita accoglie la proposta come una salvezza: “Allora non me lo farà?” quasi
gridai di gioia” (p. 170)
Il dottore si offre di aiutarla anche in seguito :”Ti scrivo
il mio numero di telefono e il mio indirizzo. Elsa ti porterà un altro bel
bicchiere di latte, poi chiameremo il tuo cattivo ragazzo che è senza anima, se
non vuole una fanciulla così bella come te e un figlio che bussa alla porta del
mondo. Ti scriverò una poesia, io faccio anche lo scrittore, per hobby. Il tuo
indirizzo?”
Quest’uomo dà come un’indicazione, un segno del destino alla ragazza che gli
risponde: “Non so se rimarremo lì a lungo. Le scriverò anch’io una poesia. Io
farò la scrittrice, ma chissà in quale lingua e dove”, mormorai” (p. 173). Un
destino che deve ancora precisarsi ma è già indirizzato a una meta.
Il buon medico per giunta mette di nascosto nella borsetta
di Anita il denaro ricevuto da Eli per l’aborto.
Trecento dollari che il seduttore, a sua volta ingannato, ha
la spudoratezza di rinfacciare alla sua vittima con queste parole immonde: “Tu stupida costata molto, non vali
tanto. Adesso riposo. Io vado cercare mangiare”.
Non solo è vero, come dice Platone, che parlare male fa male
all’anima[2]: è
altresì vero che chi parla male ha l’anima malata, o come ha detto il buon dottore,
ha una grave carenza di anima.
Durante l’assenza di Eli, Anita fugge da lui e gira per
Praga osservando ogni cosa con attenzione, ascoltandone le voci: “ Per me Praga
era una città parlante, al contrario di Dresda e Berlino piangenti e Budapest
piena di lamenti (…) Praga mi pareva tutta un museo dove convivevano il vecchio
con il nuovo, il piccolo con il grande, il sontuoso con il semplice, come
fossero l’uno figlio dell’altro e tutti ugualmente pieni del proprio fascino”
(p. 185).
A un certo punto la ragazza sente chiamare il suo nome e
teme di essere stata rintracciata da Eli. Invece è un uomo conosciuto a casa
della zia: “Mi sorrise Avner, l’agente che chiamavo il nuovo Mosé che organizzava e propagandava l’immigrazione
clandestina per la Palestina” (p. 186)
Questo è un altro di
quegli “eventi fatali” che segnano il
destino delle persone.
Avner le propone appunto il ritorno nella terra degli avi.
“Tu sei delusa…eh? Ma se io ti trovo un posto su uno dei
camion che partono stanotte alle due, che ne dici?”
Anita capisce che
queste parole contengono l’eco di una voce fatale, forse sovrannaturale,
e gli risponde: “Che il dottor Heller con Gesù sul muro, che ha savato il mio
bambino, ha un pezzetto di Dio dentro, un altro pezzetto ce l’hai tu, un altro pezzetto
devono avere avuto quei tedeschi che mi hanno dato o buttato qualche avanzo del
loro cibo. Dio forse è diviso in pezzettini tra le persone migliori, ma sono
poche” (p. 191).
Approvo il fatto che l’autrice non si sia lasciata prendere
dal razzismo antitedesco, odioso come ogni altro razzismo.
Anita (Edith Bruck?) vede il proprio destino con precisione
sempre maggiore e dice all’uomo che la sta aiutando quale sia il suo sogno: “il
mio sarà realizzabile appena imparerò l’ebraico: io voglio scrivere, poesie,
racconti, romanzi, favole, inventare un mondo che non c’è, rovesciare quello
che sento sulla carta” (p. 192).
Edith vuole
inventare, trovare, un mondo luminoso e pieni di colori.
Don Pino Puglisi, il
prete ucciso dalla mafia, dice, in un altro film di Roberto Faenza, Alla luce del sole: “I sogni colorano il
mondo”. Gli autori bravi hanno uno stile proprio, una coerenza stilistica e
pure tematica.
Alla fine del romanzo, la ragazza in partenza da Praga sa
quello che non vuole e quello che vuole:
“Io non voglio essere mantenuta, posso pulire anche i cessi e scrivere” (p.
191).
“Della politica” dice “non so quasi niente, ma la Storia
l’ho ereditata” (p. 192). Tutti noi abbiamo dentro l’eredità della storia, ma
pochi vogliono conoscerla e avvalersene, per pigrizia o per viltà. Avner aiuta
Anita a salire sul camion diretto a un porto dove ci sarà una nave che la
porterà con altri in Palestina.
“Ti cercherò, ti troverò, non avremo che una manciata di
paese” promise Avner. Il camion partì e poco dopo si levarono le voci “degli
indistinguibili viaggiatori, che cantavano una canzone imparata nei vari centri
di preemigrazione nell’Europa di Auschwitz”.
Anita si unì al coro
“Alla Terra siamo ascesi alla Terra siamo ascesi
L’abbiamo già arata
L’abbiamo anche seminata
Ma il raccolto non l’abbiamo ancora avuto” (p. 196).
Il raccolto prima o poi arriva. Può tardare, ma arriva.
[1]
Eraclito con il suo stile ieratico e lapidario insegna che l’uomo e il suo
destino coincidono: “h\qo~ ajnqrwvpw/
daivmwn”.
[2] Il parlare male, fa male
all'anima. Lo afferma Socrate nel Fedone:
"euj ga;r i[sqi…a[riste Krivtwn, to;
mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev",
ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e),
sappi bene… Ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in
sé, ma mette anche del male nelle anime.
odiare deve essere davvero faticoso,anche Philomena rinuncia all'odio . Anch'io penso che vi siano persone portate per il male e altre no, ma penso che vi sia anche una grande componente di educazione. Si può auto educarsi o essere educati da persone speciali ,ma voglio anche pensare che esista il libero arbitrio . Voglio pensare che si possa scegliere tra l'amore e l'odio,il bene e il male.Anita ha scelto di amare fino in fondo ,anche se per farlo deve partire verso un destino sconosciuto. è un bellissimo e doloroso percorso di vita.Anita non parte per andare lontano, ma per trovare se stessa e la libertà di amare il suo bambino . Dovunque andrà non sarà mai sola perché è capace di amare e riconosce l'amore anche nelle briciole ,l'amante infame,il cane di legno invece perde tutto perché sceglie di non amare e di non rischiare. Non ama neppure se stesso . Giovanna
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