|
la Marmolada |
Il progetto del romanzo. Il primo amore: Paloma bianca. La gara di corsa. La vittoria non ricompensata
La mattina del 15 marzo, appena sveglio, cominciai a meditare.
|
Era domenica: ne avevo tutto il tempo, anche troppo. Dopo due
|
anni, quattro mesi e mezzo, quello era il primo giorno non
|
lavorativo che avrei passato a Bologna senza vedere né sentire
|
Ifigenia, con ogni probabilità. Mi ero talmente abituato a
|
vivere con lei e per lei, a ricevere le sue visite, le telefonate, le
|
richieste, che se davvero non l'avessi più vista, ascoltata, potuta
|
aiutare, avrei sentito il vuoto e il nulla. La mia decantata vitalità,
|
che l'amica Antonia aveva definito "faustiana", invero dipendeva
|
quasi tutta da quella ragazza. Eppure, sparita lei fisicamente,
|
dovevo leggere più di prima, correre gli stadi più di prima, in
|
tempi migliori; dovevo pedalare non solo su per il Monte delle
|
formiche, il Grappa e il Pordoi, ma scalare pure il Gavia e lo Stelvio. E
|
scrivere un capolavoro dovevo. Un epos grandioso, un romanzo
|
con la visione, diurna e notturna, realistica e onirica, di un'epoca
|
intera. Non avrei sprecato, con il vizio e nell'ozio, il talento che la
|
ragazza splendidissima aveva riconosciuto in me; non avrei sciupato
|
nell'inerzia, stando seduto a mangiare, o steso a boccheggiare, il
|
fisico che a lei una volta piaceva, e forse le sarebbe piaciuto di
|
nuovo se non l'avessi lasciato andare in malora. Non avrei mai
|
santa bellezza rivelata e consacrata
|
dall'amore di quella giovane donna. Non mi sarei più
|
abbassato a tresche con femmine deformi e cretine. L'amore di
|
Ifigenia era il culmine della mia vita: di lassù potevo
|
osservarla intera, comprenderla, e raccontarne le quintessenze che
|
riguardano tutti. Avrei scritto una grande storia d'amore partendo
|
dalle emozioni di bambino per le bambine coetanee, poi, di
|
femmina umana in femmina umana, sarei arrivato al 14 marzo del
|
Il ricordo più antico risaliva all'estate del '55: avevo undici anni
|
non ancora compiuti, mi trovavo a Moena. Mi impressionò
|
fortemente una citta bruna bruna, snella, vivace, vestita sempre di
|
bianco. La vedevo affacciata a una finestra: abitava sotto di me nella villetta di via Damiano Chiesa.
|
Non conoscevo il suo nome. La sentivo cantare qualche cosa su
|
una paloma bianca come la neve. La pensavo quale colomba di
|
due colori: candido, come l’uccello della canzone e il vestito che indossava con eleganza, nero come i suoi
|
capelli lunghi e lisci. Fu il primo anno che a Moena non passai le
|
mattine aspettando, per lo più invano, la posta della mamma.
|
Impiegavo il tempo cercando un'occasione
|
conoscere la fanciullina preziosa e parlarle. Un giorno avvicinai
|
suo fratello, un bambino di sei o sette anni. Lo invitai a giocare, e
|
quando la madre, una donna di occhi e di capelli nerissimi , lo
|
chiamò in casa, gli chiesi se potessi salire anche io. Disse di sì;
|
anzi ne fu contento poiché un bambino più grande lo degnava della sua
|
compagnia. Con questo stratagemma da Ulisse entrai nel loro
|
appartamento. La ragazzina però purtroppo non c'era, e, quando
|
giunse, non mi rivolse lo sguardo. Nemmeno mi salutà. Ci rimasi male assai, ma non
|
Qualche giorno dopo, verso la fine dell'estate, mi accorsi con
|
strazio che in quell'amore per niente contraccambiato avevo pure un
|
rivale: un ragazzotto di 13-14 anni che abitava al primo piano
|
della nostra casa. Li osservavo dalla finestra: parlavano volentieri quei due,
|
senza nascondere qualche complicità. Dovevo superare lui agli
|
occhi di lei, ma ero piccolo io, minuto e malvestito. Quello era grande,
|
un po' prepotente: qualche volta
|
prendeva a calci i bidoni della spazzatura o le cataste di legna e
|
gridava. Sembrava un adulto rozzo, quasi bestiale. Cosa potevo
|
fare contro tale ciclope?
|
Un pomeriggio, mentre uscivo da casa, li vidi sorridersi davanti al
|
portone. Mi venne in mente un'astuzia da condannato a morte .
|
Mi avvicinai, chiesi se sapevano l'ora, feci una o due osservazioni
|
insignificanti, quindi sfidai quel Polifemo a una gara di corsa lì
|
davanti: in via Damiano Chiesa, poi in mezzo al campo dei cavoli,
|
delle patate in fiore, e delle farfalle bianche. Volevo mettere in
|
lizza la mia agilità alata contro la brutalità greve di quell’individuo. Il privo di ali non poté rifiutare.
|
Mentre si parlava dei termini della sfida, feci in modo che si
|
avvicinassero e volessero partecipare altri ragazzini del rione,
|
villeggianti e moenesi. Flavio, "lo strullo", fu proclamato giudice.
|
Bisognava correre per un chilometro circa. Paloma osservava i
|
piccoli maschi agonisti stabilire le regole e spiegarle a Flavio che
|
sorrideva a tutti e augurava la vittoria a ciascuno. La guardavo di
|
sfuggita: mi sembrò molto pallida, e più bruna, più bella che mai.
|
Speravo che fosse in apprensione, se non per me, almeno per il
|
risultato. I capelli li aveva nerissimi, come la madre sua e la mia, gli occhi
|
azzurri e belli come li avevo visti solo nel viso di mia madre; i bambini del resto non danno agli occhi
|
l'importanza dovuta: trovano maggiore significazione nel naso,
|
nelle guance, nelle labbra, e, appunto nelle chiome; forse perché
|
sono parti più concrete, afferrabili, accarezzabili. Da me per altro toccate
|
soprattutto nei pensieri e nei sogni, poiché nemmeno la mamma mia si lasciava accarezzare facilmente.
|
La trovavo così attraente che ne tremavo, sia
|
vedendola al brillare del sole, sia ricordandola alla lume della
|
luna. Speravo di rendermi degno di tanto splendore vincendo la
|
competizione che avevo voluto. Pensavo che se mi avesse
|
gettarmi dentro i crepacci della
|
Marmolada senza farmi un graffio. Le ali mi sarebbero cresciute . Né le
|
vipere che mi terrorizzavano avrebbero potuto nuocermi, né i lupi
|
dei boschi, né i preti arcigni mi avrebbero inibito, né le zie severe,
|
proprio nessuno. E della posta che non arrivava, non mi
|
importava un fico. Finalmente avevo trovato una ragione per non
|
soffrire dell'amore non abbastanza contraccambiato dalla
|
mamma mia fin troppo amata.
|
L'interessamento di Paloma dovevo meritarlo. Sapevo
|
che nessuno ammira nessuno per niente, e sapevo pure di valere
|
qualche cosa correndo a piedi e in bicicletta. A Pesaro vincevo tutte le gare.
In casa e a scuola mi ammiravano perché ero bravo a scuola, per strada gli altri bambini mi stimavano siccome ero il più veloce. Senza queste capacità sarei stato oggetto di compassione o disprezzo.
In fondo da allora poco è cambiato,
|
sebbene siano passati decenni. Il tempo infatti non è reale, e l'arte
|
deve svelarne l'apparenza illusoria. Esso porta a ciascuno la
|
formazione della sua identità che si viene scoprendo e
|
consolidando negli anni. Finché l'uomo muore e poi, forse, come
|
affermano molti saggi, l'opera ricomincia, o continua a crescere in
|
Flavio dunque diede il via. Partimmo in una decina. Il mio rivale
|
in amore correva davanti a tutti: si era piazzato
|
posizione, sgomitando e facendo valere la mole. Girammo intorno alla fontana del Turco, quindi infilammo lo
|
stretto sentiero che attraversava l'orto, in fila indiana: io seguivo
|
l' antagonista come un ombra, poiché l'avversario da battere era
|
lui. Gli altri infatti rimasero presto staccati. Nemmeno quel
|
grossolano era portato alla corsa del resto: quando sbucammo in via
|
Damiano Chiesa sentii che ansimava molto più in fretta di me, e lo
|
superai senza difficoltà. Anzi, allungai pure un poco il percorso,
|
per stare alla larga dalle mani di quella creatura tellurica che infatti allungò prima i suoi artigli spietati per
|
trattenermi, poi una gamba massiccia per farmi cadere e grattare il petto esile nella dura terra sassosa.
|
Ma non riuscì ad acchiapparmi. Sicché tagliai il traguardo per
|
primo. Flavio esultava, Paloma per niente. Se fosse stata meno
|
stupida e vana, quella brunetta avrebbe compreso chi era tra noi
|
due il più capace, poiché avevo inventato e voluto la gara, poi l’avevo vinta; chi il più
|
onesto, siccome non avevo imbrogliato; chi nella vita avrebbe
|
combinato qualche cosa di egregio se ero stato io, piccolo, minuto,
|
a prevalere su una schiera di ragazzini chiassosi e inconcludenti.
|
Non osai avvicinarmi a lei: speravo che venisse a
|
dirmi qualche cosa. Almeno:"bravo! Come ti chiami? Di dove
|
Le avrei risposto:"Mi chiamo Giannetto, sono di Pesaro, l'ho fatto
|
per te. Chiedimi cose più difficili, molto più difficili: per te tirerò
|
giù le stelle dal cielo". Credo che se mi avesse rivolto un sorriso,
|
quel giorno mi avrebbe commosso più che se oggi mi sorridesse
|
l'intero universo, o dio stesso. Invece andò dallo sconfitto, e con
|
un'espressione radiosa, fine, che contrastava con il ceffo sudato di
|
quel gaglioffo, disse senza ironia:"Bravo, siamo arrivati secondi".
|
Smisi di adorare Paloma, però mi accade ancora di ricordare il
|
volto bianco incorniciato dai capelli neri di lei, quando per Pasqua vado a Moena e osservo la
|
luna alzarsi dagli alberi scuri di una tacita selva.
|
Partendo da quell'icona bruna dunque sarei arrivato all'immagine
|
di Ifigenia che mi aveva lasciato la sera prima.
giovanni ghiselli
Cfr. M. Proust, Dalla parte di Swann, trad. it. Einaudi, Torino, 1978, p.32.
|
Nessun commento:
Posta un commento