Procedo con il commento del recentissimo libro di Remo Bodei
Immaginare altre vite.
Realtà, progetti, desideri.
Feltrinelli, Milano, 2013
Vediamo il capitolo VI: Uomini
infami (pp. 111-126)
Partiamo dal primo paragrafo: Come le foglie (pp. 111-113)
“C’è bisogno di fama individuale in un mondo in cui la
maggior parte degli uomini vive una vita “infame”, senza fama o malfamata?”
La parola chiave “fama” ha una radice indoeuropea (*bha-) che ha dato luogo a molte parole
greche, latine e italiane tutte connesse ai significati di “dire” e “parlare”: “fama, infame, famoso, malfamato, famigerato”,
infante e altre, tra le quali fatum,
fato, che dovrebbe corrispondere a
quanto viene detto dagli dèi[1].
Si ricorderà che Alessandro Magno considera la fama, quello
che si dice, insomma la propaganda, un elemento tra i decisivi per l’esito
della guerra[2].
Bodei menziona Hegel che fu “il cantore degli eroi della storia
universale come Alessandro, Cesare, Napoleone”. Il filosofo tedesco del resto
non disconosceva il valore di vite quali quella di un pastore o di un
contadino.
Quindi il professore di filosofia alla University of California,
ricorda il mito di Er dove Platone “fa comunque dire queste parole all’araldo
divino, che invita le anime a scegliere la loro sorte : “Anche chi si presenta
per ultimo, purché scelga con senno e viva con regola, può disporre di una vita
amabile, non cattiva. Il primo scelga con cura e l’ultimo non si scoraggi”[3].
Voglio rivedere alcune parole essenziali di questo mito che
mi sta molto a cuore poiché insegna che dobbiamo restare fedeli al nostro
carattere una volta che l’abbiamo scelto, ossia individuato tra le varie
possibilità.
Er, Panfilio di stirpe, era morto in guerra, ma al
dodicesimo giorno, quando si trovava già sulla pira, tornò in vita e raccontò quello che aveva
visto nell’aldilà (Platone, Repubblica,
614b).
Il resuscitato disse che l’anima, quando esce dal
corpo, si incammina, con molte altre,
verso un luogo soprannaturale eij~ tovpon
tina; daimovnion , un prato,
dove ci sono due voragini (cavsmata. 614c)
contigue, nella terra, e altre due corrispettive nel cielo. Alcune anime scendevano dalle
bocche aperte verso l’alto, altre vi salivano; la stessa cosa succedeva nelle
aperture verso il basso. Il saliscendi era correlato a colpe espiate, o da
espiare, e a meriti già premiati, o da premiare. I grandi criminali, gli
incurabili (ajnivatoi525c), tra i
quali molti tiranni, rimangono per sempre nel carcere dell’Ade a fare da esempi
negativi: la visione delle loro pene diventa un monito per quelli che li
vedono.
In mezzo alla folla delle anime dei morti sedevano in trono tre persone diverse:
le figlie di Ananche, le Moire, vestite di bianco con serti (stevmmata,
617c) sul capo.
Queste sono Lachesi, Cloto e Atropo che intonavano un canto
sull’armonia delle sirene.
Lachesi cantava ta; gegonovta, il passato, Cloto ta; o[nta, il presente, Atropo ta; mevllonta, il futuro.
Le tre Moire[4]
accompagnavano con la mano i moti del fuso, l’asse dell’Universo che si volge
sulle ginocchia di Ananche .
Le anime dovettero presentarsi a Lachesi, quella che dà le
sorti.
Quindi un portavoce (profhvth~)
dispose in fila la folla, poi prese
delle sorti, dei modelli di vita, dalle ginocchia di Lachesi.
Infine il profhvth~
, salito su un’alta tribuna, diede voce al pensiero di Lachesi, la vergine
figlia di Ananche ( jAnavgkh" qugatro;" kovrh"
Lacevsew" lovgo~).
Disse: “Questo è
l’inizio di un altro ciclo di mortalità
della razza mortale.
, e non sarà il demone a sorteggiare voi, bensì voi
sceglierete il demone
( “ oujc uJma'"
daivmwn lhvxetai, ajll j uJmei'" daivmona aiJrhvsesqe" (617
e).
Chi è sorteggiato a scegliere per primo, prenda per primo la
vita cui sarà congiunto”.
La parola di Lachesi
aggiunge che la virtù è senza padrone (ajreth;
de; ajdevspoton, 617e) e ciascuno ne avrà di più o di meno, a seconda
che la apprezzi o la disprezzi. Responsabile è chi ha fatto la scelta[5], non
la divinità” (aijtiva eJlomevnou: qeo;~
ajnaivtio~ (617 e). Dopo la scelta, le anime tornavano sulla terra,
lanciate come stelle cadenti.
Ma torniamo a Bodei.
“Dallo sterminato numero di quanti sono vissuti prima di noi
non resta nessuna traccia…Per ricostruire le loro esistenze si possono a stento
trovare indicazioni nelle iscrizioni, nelle residue lapidi funerarie o negli
archivi notarili e, in età moderna, nei registri delle parrocchie, dei
distretti militari, degli ospedali, dei manicomi, delle carceri[6].
Gli uomini: i mortali. Così sono stati denominati dalla
cultura greca sin da Omero, che presenta il paragone tra la caducità del genere
umano e quella delle foglie” (p. 112).
Bodei ricorda Omero e Mimnermo che assimilano il rapido
corso delle vite umane al veloce avvicendarsi delle foglie.
Nell'Iliade (VI, vv. 145-149) Glauco chiede a Diomede:
"Tidide magnanimo, perché mi domandi la stirpe?
quale è la stirpe delle foglie, tale è anche quella degli
uomini.
(oi{h per
fuvllwn genehv, toivh de; kai; ajndrw'n)
Le foglie alcune ne sparge il vento a terra, altre la selva
fiorente genera quando arriva il tempo di primavera;
così le stirpi degli uomini: una nasce, un'altra
finisce".
Mimnermo riprende questo motivo
:"Come le foglie che genera la fiorita stagione
di primavera, quando crescono in fretta ai raggi del sole,
noi, simili a quelle, per il tempo di un cubito, godiamo dei fiori
di giovinezza, senza conoscere dagli dèi né il male
né il bene. Destini neri ci stanno accanto
uno che ha il termine della vecchiaia tremenda,
l'altro di morte: un attimo dura il frutto
di giovinezza, per quanto sulla terra si diffonde un raggio
di sole.
Ma quando questo termine di tempo sia trapassato,
subito essere morto è meglio della vita:
infatti molti mali sopraggiungono nell'animo: talora la casa
va in rovina e ci sono le vicende dolorose della povertà:
a un altro poi
mancano figli, di cui soprattutto
sentendo il desiderio va sotto terra nell'Ade;
un altro ha una malattia che gli consuma il cuore: non c'è
nessuno
degli uomini, cui Zeus non dia molti mali" (fr. 2D).
Questo motivo è diventato topico:
Ungaretti, "uomo di
pena", scrive:"Si sta come/d'autunno/sugli alberi/le foglie"(Soldati ).
Possiamo trovare una variazione del topos in Salvatore
Quasimodo:
"Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera"(da Acque e terre , 1930).
Quindi Bodei ricorda
“un passo commovente”[7] di
Erodoto.
Durante la seconda guerra persiana (480) Serse, invadendo la Grecia, vide l'Ellesponto
coperto dalle navi e dapprima si disse beato (oJ Xevrxh" eJwuto;n ejmakavrise,
VII, 45), ma subito dopo scoppiò a piangere (meta;
de; tou'to ejdavkruse) per
compassione al pensiero di quanto è breve tutta la vita umana dal momento che
di questi che sono tanti nessuno sopravviverà al centesimo anno ( wJ~
bracu;~ ei[h oJ pa'~ ajnqrwvpino~ bivo~, eij touvtwn ge ejovntwn tosouvtwn
oujdei;~ ej~ eJkatosto;n e[to~ perievstai, VII 46,2).
Allora Artabano, lo zio paterno, lo consolò dicendogli che,
essendo la vita travagliata, la morte è il rifugio preferibile per l'uomo (ou{tw" oJ me;n qavnato" mocqhrh'"
ejouvsh" th'" zovh", katafugh; aiJretwtavth tw'/ ajnqrwvpw/
gevgone , VII, 46, 4).
La risposta di Artabano è una delle tante espressioni della
sapienza silenica.
Vediamone un’altra. Sofocle nel suo ultimo dramma, l'Edipo a Colono , fa cantare al
coro:"Non essere nati (mh; fu'nai)
supera/ tutte le condizioni, poi, una volta apparsi,/ tornare al più presto là/
donde si venne,/ è certo il secondo
bene./ Poiché quando uno ha oltrepassato la gioventù/ che porta follie leggere,
/quale travagliosa disfatta resta fuori?/ Quale degli affanni non c'è?/Invidia,
discordie, contesa, battaglie,/ e uccisioni; e sopraggiunge estrema/ l'esecrata
vecchiaia impotente,/ asociale, priva di amici /dove convivono tutti i mali dei
mali"(vv.1224-1238).
“La fine della vita non ha in genere niente di glorioso: “Bisogna
leggere La morte di Ivan Il’ ič di
Tolstoj per capire cosa significhi morire. Morire non in maniera eroica, da
combattente dell’Iliade o di Guerra e pace; né in un incidente, in un
naufragio, per una condanna della giustizia, ma come muoiono quasi tutti: di
morte naturale, per malattia”, magari ribellandosi come fa il personaggio
tolstojano: “Non è possibile che tutti siano condannati a questo orrore”[8]. La
morte di ciascuno, per giovane, bello, benestante e potente che sia, è
mirabilmente raffigurata dal mistero sacro tardo medioevale Jedermann (Ognuno) sulla vita dell’uomo
ricco che si trova, come tutti, davanti alla fine, costretto ad abbandonare i
propri beni, e che, per salvarsi, ripudia nel breve corso di un’ora la sua
precedente vita di egoismo e di spensieratezza. Il testo, che ha avuto varie
rielaborazioni (tra cui quella inglese Everyman.
A morality Play della metà del Seicento), è stato ripreso, nel 1911, da
Hugo von Hofmannsthal nel dramma teatrale Jedermann.
Das Spiel vom Sterben des reiches Mannes, che, a partire dal 1920, viene
replicato ogni anno nella piazza del duomo di Salisburgo[9]” (Immaginare altre vite, p. 113).
Come
antecedente classico di questo personaggio, si può tornare a Erodoto e pensare
a Creso che si illudeva di essere l’uomo più felice della terra. L’ateniese Solone però non lo aveva giudicato tale, e lo
aveva messo in guardia dicendogli: :" Di ogni cosa insomma bisogna
osservare come andrà a finire: a molti infatti il dio fece intravedere la
felicità, poi li travolse sradicandoli ( Storie,
I, 32, 9). Creso sul momento non capì, e Solone “dicendo queste parole non
riusciva certo gradito a Creso che lo congedò senza tenerlo in nessun conto,
proprio convinto che fosse un ignorante quell'uomo che, trascurando i beni
presenti, invitava a guardare la fine di ogni cosa ( Storie, I, 33)
Ma dopo la partenza dell'ospite
ateniese,"la vendetta (nevmesi") divina colpì gravemente Creso, a quanto
si può congetturare, poiché aveva creduto di essere il più felice di tutti gli
uomini" (I, 34).[10]
A Creso prima
morì l'unico figlio sano che aveva, Atys, in un incidente di caccia, poi il
padre perse il regno dopo avere frainteso gli oracoli i quali gli avevano
predetto che"se avesse marciato contro i Persiani avrebbe distrutto un
grande impero"(I, 53, 3) intendendo però con questo il suo regno di Lidia.
Infatti i Persiani occuparono Sardi e catturarono Creso, quindi Ciro, il
vincitore lo fece salire sul rogo. Allora al re sconfitto e condannato a morire
venne in mente il detto di Solone:"che nessuno dei viventi è
felice"(I, 86, 3), e ne invocò tre volte il nome. Fu questa resipiscenza
che gli salvò la vita.
Torniamo a Immaginare
altre vite.
Il paragrafo successivo si intitola Vite immaginarie (pp.
113-114)
Bodei nota che la letteratura classica “con l’eccezione del
racconto pastorale” si è occupata “in misura parca e saltuaria dei senza
storia”.
A proposito di realismo antico, Auerbach sostiene che
il Satyricon rappresenta la realtà in maniera più ampia
e meno stilizzata dei realisti alessandrini, quali Teocrito nelle Siracusane
(XV) o Eroda nel Lenone
(III). Petronio, " come un
realista moderno, pone la sua ambizione artistica nell'imitare senza
stilizzazione un qualsiasi ambiente d'ogni giorno e contemporaneo, e nel far
parlare alle persone il loro gergo. Con ciò raggiunge il limite estremo a cui
sia arrivato il realismo antico". Quanto egli debba al mimo romano,
aggiunge lo studioso di stilistica, "rimane fuori dalla nostra
indagine". Quindi prosegue:"Se dunque Petronio ci mostra i limiti
estremi raggiunti dal realismo antico, si può dalla sua opera anche conoscere
quello che tale realismo non poteva o non voleva dare. La cena è un'opera di carattere puramente comico. I personaggi che
vi compaiono sono, sia singolarmente che nei legami con l'insieme, mantenuti
coscientemente e secondo un criterio unitario nel gradino stilistico più basso,
tanto per la lingua quanto per il modo in cui sono visti; a ciò si collega
necessariamente il fatto che tutto quello che, psicologicamente o
sociologicamente, accenna a sviluppi seri o addirittura tragici, deve essere
tenuto lontano, ché altrimenti distruggerebbe lo stile sotto un peso eccessivo.
Pensiamo per un momento agli autori realistici del secolo XIX, a Balzac[11],
a Flaubert, a Tolstoj o a Dostoevskij.
Il vecchio Grandet[12]
o Fëdor Karamazov non sono soltanto caricature come Trimalcione, bensì
terribili realtà da prendere sul serio, avvolte in tragici intrichi, tragici
perfino essi stessi, benché anche grotteschi. Nella letteratura moderna ogni
personaggio, qualunque sia il suo carattere o la sua posizione sociale, ogni
avvenimento, sia favoloso, sia di alta politica, sia strettamente casalingo,
può venir dall'arte imitativa trattato seriamente, problematicamente e
tragicamente. Ma questa è cosa del tutto impossibile nell'antichità. E' vero
che si hanno nelle poesie pastorali e amorose alcune forme intermedie, ma nel
complesso vige la legge della separazione degli stili…tutta la bassa realtà,
tutto quello che è quotidiano, dev'esser rappresentato solo comicamente, senza
approfondimento problematico"[13].
Del resto già Euripide viene biasimato prima da
Aristofane poi da Nietzsche proprio per
il suo crudo realismo: l’ultimo tragediografo avrebbe commesso il sacrilegio
estetico di “portare lo spettatore sulla scena”[14],
annientando la dimensione eroica dei personaggi della tragedia.
In effetti, nel primo Stasimo, il Coro delle Baccanti
dice di voler
“tenere la mente, e l’anima, lontane
dagli uomini straordinari;
ciò che la massa
più semplice crede e pratica,
questo io vorrei accettare” (vv. 428-432)
Ebbene, nel prologo
della Samìa il protagonista giovane, Moschione, si
presenta come uno dei tanti ("tw'n
pollw'n ti" w[n" v. 11).
Bodei nota che “a
partire dal Cinquecento” il romanzo concede uno spazio sempre più ampio
all’uomo qualunque, ai “senza storia”. “si pensi a Lazarillo de Tormes
di Anonimo o al Don Chisciotte di Cervantes, per proseguire poi in un
crescendo nel Settecento inglese, trionfare nell’Ottocento, ad esempio con la Comédie
humaine di Balzac, e giungere, quasi come un’ovvietà, fino ai nostri giorni”
(p. 113).
giovanni
ghiselli
[1] Cfr. Varrone , De lingua latina, VI, 52 e Agostino De civitate Dei, V3.
[2] Curzio Rufo, Historiae
Alexandri Magni 8, 8, 15
[3] Repubblica,
619B. Bodei aggiunge in nota una ripresa
di Plotino sul tema del destino delle anime: “Ma cosa sono le sorti? Esse
indicano la condizione dell’universo quale era al tempo in cui le anime vennero
nel corpo, il loro venire in un particolare corpo, il nascere da determinati
genitori e in un certo luogo e, in generale, quelle cose che abbiamo chiamato
circostanze esterne (…) Tra gli uomini ve ne sono alcuni che, soggiogati dagli
influssi dell’universo e dalle circostanze esterne, come presi da un
incantesimo, finiscono per ridurre se stessi a poco o a nulla; altri, riuscendo
a padroneggiare tali influssi e sollevando, per così dire, le loro teste verso
il mondo superiore e al di fuori dell’anima, salvano la parte migliore e più
antica dell’essenza dell’anima” (Enneadi,
II, 3, 15)
[4] Cfr. lagcavnw “ricevo in sorte”, klwvqw, “filo” e trevpw “volgo” preceduto da aj-
privativo, quindi l’inflessibile.
[5] E’ l’afferrmazione della
responsabilità degli uomini, già fatta da Zeus nel primo canto dell’Odissea: "Ahimé, come ora davvero i
mortali incolpano gli dèi! Da noi infatti dicono che derivano i mali, ma anzi
essi stessi per la loro stupida presunzione hanno dolori oltre il destino. Così
anche ora Egisto oltre il destino si prese la moglie legittima dell’Atride, e
lo ammazzò appena tornato, pur sapendo della morte scoscesa, poiché gliela
predicemmo noi, mandando Ermes, l’Argifonte dalla vista acuta, di non
ammazzarlo e di non corteggiarne la sposa: infatti da Oreste ci sarà la
vendetta dell’Atride, quando sia adulto e desideri la sua terra. Così diceva
Ermes, ma non persuadeva la mente Di Egisto, pur pensando al suo bene; e ora
tutto insieme ha pagato” (vv. 32-43).
[6] M. Foucault, La
vie des hommes infâmes, in “Chaiers du
chemin”, n. 29, 15 gennaio 1977, pp. 12-29, ora in Dits et écrits, cit. vol
III, pp. 237-255, tr. It. La vita degli uomini infami, il Mulino,
Bologna 2009 ( Postfazione di R. Bodei, Storie dei senza storia, pp. 73-88).
[7] Immaginare
altre vite .p. 112.
[8] Cfr. P. Boitani, Prima lezione sulla letteratura,
Laterza, Roma-Bari 207, p. 31. Nello stesso volume, a p. 65, Boitani cita un
testo di rara bellezza, dove il Venerabile Beda riferisce che, quando Paolino,
missionario romano, cercò di convertire un re sassone al cristianesimo, questi
chiese prima il parere di un suo consigliere, che gli disse: “Questa vita degli
uomini sulla terra, mio sovrano, in confronto a tutto il tempo che per noi è
sconosciuto, mi sembra simile a quando, durante l’inverno, tu siedi a cena con
i tuoi guerrieri e i tuoi ministri, in una sala calda per il gran fuoco che vi
arde nel centro, mentre fuori ovunque infuria una bufera di pioggia e di neve.
Un passero attraversa con rapido volo la sala, entrando da una porta e subito
uscendo dall’altra; nell’attimo in cui rimane dentro non è colpito dalla
burrasca invernale, ma trascorso quel brevissimo momento di quiete subito sfugge
al tuo sguardo e ritorna al gelo dal quale è venuto. Così pure la vita
dell’uomo è visibile, ma per un solo momento; di ciò che è prima e dopo
quest’attimo nulla sappiamo. E dunque se questa nuova religione ci dà una
certezza, mi sembra giusto seguirla” (Beda, Historia
ecclesiastica gentis Anglorum, a cura di B. Col grave e R. A. B. Mynors,
Clarendon Press, Oxford 1969, II, XIII, 3).
[9] H. von
Hofmannsthal, Jedermann. Das Spiel vom Sterben des reiches Mannes, S. Fischer,
Berlin, 1911, tr. It. Ognuno. Il dramma della morte del ricco
(Jedermann) Tea, Milano 1899,
[10]
Creso che si monta la testa per la ricchezza è simile a Tantalo, un altro re di
Lidia, il quale non seppe smaltire la grande felicità e con la sazietà attirò
un accecamento pieno di prepotenza, (katapevyai-
mevgan o[lbon oujk ejdunavsqh, kovrw/ d j e{len-a[tan uJpevroplon,
Pindaro, Olimpica I, vv. 55-57).
[11] "Nella sua introduzione alla Comédie humaine,
dove, in polemica con la storiografia tradizionale, "les séches et rebutantes
nomenclatures de faits", lamenta Balzac che gli scrittori di tutti i
tempi abbiano trascurato di darci la vera storia, "l'histoire des
moeurs" <la storia generale della società>, egli cita come unico
esempio di quel tipo di storia "le morceau de Pétrone sur la vie privée
des Romains", che tuttavia, frammentario com'è, "irrite plutot
qu'il ne satisfait notre curiosité" (V. Ciaffi, op. cit., p.
30).
[12] Eponimo di Eugene Grandet, romanzo del 1833.
[13] E. Auerbach, Mimesis,
pp. 37-38.
[14] “Prima di Euripide, si
aveva a che fare con uomini eroicamente stilizzati, dei quali subito si
riconosceva l’origine dagli dèi e dai semidei della tragedia più antica…Con
Euripide balza sulla scena lo spettatore, l’uomo nella realtà della vita di
ogni giorno. Lo specchio, che in precedenza aveva riflesso solo i caratteri
grandi e nobili, si fece più realistico e perciò più volgare…Quella figura
assolutamente tipica dell’uomo greco, la figura di Odisseo, Eschilo l’aveva
innalzata al livello d’un Prometeo magnanimo, astuto e nobile; tra le mani dei nuovi
poeti decadde al ruolo dello schiavo domestico bonario e scaltro che così
spesso sta al centro del dramma come grande intrigante. Ciò che Euripide nelle Rane di Aristofane si attribuisce a
merito, cioè d’aver svuotato l’arte tragica e la sua gravità attraverso una
cura termale, vale anzitutto per la figura degli eroi; in sostanza, lo
spettatore, sulla scena euripidea vedeva e ascoltava il suo doppio, sia pur
coperto dell’abbigliamento sfarzoso della reteorica” Nietzsche, Socrate e la
tragedia (conferenza del 1870), in Verità e menzogna, p. 52.
[15] Nella commedia nuova
“sopravvisse la forma degenerata della tragedia. Dato questo nesso, è
comprensibile l’appassionata inclinazione che i poeti della commedia nuova
sentirono per Euripide; sicché non sorprende più il desiderio di Filemone che
si sarebbe voluto far impiccare subito solo per poter visitare Euripide agli
inferi” (Nietzsche, La nascita della
tragedia, p. 76).
leggendo mi è venuto alla memoria superman quando si cambia nelle cabine telefonica...l'umanità prende coscienza della quotidianità e nasce la figura dell'antieroe,ma si continua a sognare l'impresa epica e le sua realizzazione. L'uomo prende coscienza dei propri limiti e desidera porsi al di sopra di essi,però senza faticare..come per magia. Ed ecco che il giovane giornalista timido entra nella normale cabina telefonica ed esce volando nel cielo blù finalmente bellissimo e...super. Poi ci si chiede perché una generazione intera si è data alle droghe ,le droghe sono la cabina telefonica del presente storico nel quale viviamo.Per fortuna noi ancora ci diamo al sesso e qualche volta all'alcol...ci accettiamo con tutta la nostra umanità e cerchiamo di migliorare studiando e non passando dalle cabine telefoniche.Giovanna
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