Gli appunti La magnifica provocazione. La telefonata del nuovo approccio. Lilì Marlen.
Dalla metà di novembre
compare la paura di amare. "I mostri, la peste clericale, i bigotti",
pensai. Dicembre ha poche parole su alcuni errori di stile, di intelligenza della
ragazza e sull'angoscia che mi avevano inflitto. Alle cinque e tre quarti il
sole sbucò dalle nuvole. "Presagio di estate felice?" mi domandai
citando il mio dramma. Significherebbe il recupero delle forze vitali
intirizzite. Nota assai positiva in data 4 maggio 1979: "Sto accettandola
in tutti i suoi aspetti". Un sentimento raro. Durante quegli ultimi giorni
felici, raggiungemmo il culmine. Doveva esserci una fusione, o trasfusione,
anche mentale. Altrimenti non avremmo fatto l'amore così tante volte, così
dappertutto: anche in mezzo ai cespugli quasi spinosi, agli avvallamenti
dell'autostrada, poco cupi di giorno e d'estate, nei gabinetti mobili e
rumorosi, quasi strepitanti dei treni in corsa. Gli appunti del mese di
Debrecen, piuttosto abbondanti, descrivono giorno per giorno la decadenza e la
fine. della nostra fantastica intesa. Ne avrei ricavato un lungo episodio,
quasi un libro nel libro.
Tali pensieri andavo
rimuginando verso il tramonto. A un tratto mi venne in mente un'immagine di
Ifigenia, una delle più care, un'icona depositata per sempre in una nicchia dell'anima.
Era venuta allo stadio; correva sulla pista davanti a me; indossava una tuta nuova
fiammante, azzurra, attillata: un ornamento che metteva in rilievo la
perfezione delle sue membra slanciate. Dopo un paio di giri, la radiosa
fanciulla volse indietro il viso abbronzato e fece una piccola, mirabile
smorfia con cui voleva significarmi la sua stanchezza e chiedermi il permesso
di riposarsi; quindi sfoderò un sorriso malizioso, espressivo, da scugnizza
meridionale, nello stesso tempo giovanissima e antica. Allora io, siccome
volevo abbracciarla subito, lì, sul prato interno alla pista rossa, raccolsi la
magnifica provocazione e dissi: "Fermati pure cara: sei tanto stanca tu:
non devi affaticarti troppo". Smise di correre subito, si portò sull'erba
e vi si posò, ansimante, stremata, ma tutta contenta di avere ottenuto quanto
voleva con il suo irresistibile fascino di ragazza un poco barbara e
canagliesca. Mi stesi accanto a lei, le accarezzai il volto, le baciai le vene
sottili e pulsanti delle tempie sudate, e con le labbra raccolsi l'odoroso
stillare del suo corpo fiorente, bello e profumato più di una giornata già
quasi estiva, quando i muri pietrosi, i cancelli ferrigni, le reti arrugginite,
si ornano di rose rosse, e spruzzi di purpurei papaveri screziano di schiuma sanguigna
i flutti del grano che, ancora non biondo e non più verde[1], viene fatto
ondeggiare da un vento caldo, pregno di vita.
Questo ricordavo il 15 marzo
dopo il tramonto e, come l'uccello orbato dei figli, rimpiangevo acutamente la
creatura dello spirito mio.
"Dio, fai che mi
telefoni", pregavo. "Fa’ che chiami lei". Io non potevo. Però
avevo una voglia tremenda di farlo. Per resistere, mi dicevo:"obdura. Tu
destinatus obdura[2] . Lei ti ha lasciato. Lei deve cercarti. Lo farà: dove lo
trova uno migliore? Tornerà, vedrai. Ifigenia è la vita, è la bellezza viva, e
ha bisogno di un uomo vivo, entusiasta del bello, capace di valorizzarla. Quell'uomo
sei tu. Senza di te andrebbe in rovina, e lo sa. Se tornerà, le darò le ali con
le quali volerà sul mare infinito[3] e su tutta la terra, librandosi senza
fatica". Però non telefonava. Forse non aveva bisogno di ali. Alle nove,
non potendo resistere oltre, telefonai io.
"Ciao Ifigenia, non sto
bene senza di te".
"Ciao Gianni. Non è
facile neppure per me".
"Allora vediamoci".
"Per fare che
cosa?"
"Andiamo a vedere Lilì Marlen - proposi - l'ultimo film di
Fassbinder". Mi bastava vederla. "Va bene – accettò - ti aspetto alle
dieci".
Cercai di farmi bello il più
possibile: volevo piacerle. Contavo sullo sguardo che, sebbene da miope con
lenti a contatto, Ifigenia aveva esaltato come potente, impareggiabile e così
via. Quella sera infelice doveva essere sensuale, ma non fisso, né ossessivo,
né stralunato, bensì mite e vagamente allusivo; caldo ma non pretenzioso, né
aggressivo; dolce ma non liquefatto, né mielosamente languido, bensì forte e
sicuro di sé. Altrimenti rischiavo il penoso o il ridicolo. Però c'era poco da
sbandierare sicurezza, poiché Ifigenia mi aveva lasciato e io l'avevo cercata,
quasi contravvenendo a un divieto, e se lei aveva accettato, del resto soltanto
un invito al cinema, poteva averlo fatto solo per compassione.
Andai a prenderla con grande
patema: non osai toccarla, né parlarle, né guardarla con intensità, a dispetto
dei piani. Per fortuna fu lei a incoraggiarmi dicendo che verso le cinque aveva
sentito il desiderio di telefonarmi. Ma l'aveva represso per volontà di
coerenza.
"Mi avresti reso
mirabilmente felice" ribattei, confortato, e le riferii alcuni dei
pensieri pullulati dal mio cervello durante questa lunga giornata che sta per
finire. Era ora dirai, lettore, e lo dico anche io, ché raccontarla mi è
costato fatica e dolore. Ma anche il silenzio è dolore[4] .
Entrammo dunque nel cinema
dove proiettavano l'ultima opera del regista caro ad entrambi. Durante il film,
che seguivo con attenzione scarsa, a un certo momento le presi la mano
sinistra. La ritirò subito e mi gelò dicendo:
"Gianni, dobbiamo
pensarci".
"A che cosa?"
domandai, cercando di non mostrarmi umiliato.
"A noi - rispose - Prima
di rimetterci insieme, dobbiamo capire se ci amiamo davvero".
"D'accordo
- feci, mentre mi toccavo i baffi - pensiamoci su".
Ci ero rimasto male assai. Io
non dovevo pensarci: ero sicuro che dovevo passare altro tempo con lei per
scrivere questo romanzo. Usciti dal cinema, commentammo il film che non ci era
piaciuto troppo, nonostante i tocchi di commozione e poesia che in quel regista non mancano mai. E' la storia di un amore
fatto fallire da una società disumana, tanto nel suo aspetto militare e
tirannico, quello nazista, quanto nella faccia affarista e borghese. E' la
civiltà antiartistica, antiumana, che ha ucciso Fassbinder, Ludwig di Baviera e
tanti altri nostri eroi. Gli amanti falliti sono due tendenziali artisti nei
quali ognuno di noi riconobbe un poco di se stesso. Però non sembrava che
Ifigenia avesse intenzione di riprendere l'amore con me. Mi pareva che
pensasse: l’amore una volta caduto a terra non si raccatta, non si riscatta. Si
è sporcato, è da buttare via.
giovanni ghiselli
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[1] Cfr. D'Annunzio, La sera fiesolana, 25-26.
[2] Catullo, Carmi,
8, 19. Tu, ostinato, tieni duro.
[3] Cfr. Teognide, Silloge,
vv.237-239.
[4] Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, v. 197-198.
"doloroso è per me raccontare queste cose,/ma doloroso è anche tacere, e
dappertutto sono le sventure"(vv. 197-198). Due versi questi, usati come
epigrafe da Giuseppe Berto per il suo Il male oscuro (1964) che racconta la
terapia di una nevrosi: “Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore”.
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