Quanta Stella c’è nel
cielo di Edith Bruck (Garzanti, Milano, 2000)
Leggo in una pagina del quotidiano la Repubblica di oggi, 10
gennaio 2014: “conoscere la storia può
aiutare a capire che perfino da Auschwitz e dal coraggio di una giovane donna
può sbocciare un fiore. E nascere una favola piena d’amore, di passione, di
allegria”.
Sopra queste parole si vede la faccia di Adolf Eichmann increspata da un sorriso tra lo
stupido e il sinistro. E’ l’immagine della orrenda banalità del male.
La pagina del giornale
di Scalfari annuncia il film di Roberto
Faenza, Anita B. che uscirà il 16
gennaio.
Vedrò l’anteprima il 14 e lo racconterò commentandolo.
Ora voglio scrivere qualche riga sul libro di Edith Bruck
dal quale il film è
tratto. Il titolo del romanzo, Quanta
stella c’è nel cielo, è un verso di Petöfi Sándor, il lirico ungherese che
morì per la libertà della terra dei Magiari, combattendo contro i Russi nel
1849.
Il libro della Bruck è un inno alla Vita, la Vita incarnata
nella protagonista del romanzo una quindicenne scampata al campo di sterminio
di Auschwitz. Negli interventi dei giorni scorsi avevo assimilato questa
ragazzina, Anita, all’ Antigone di Sofocle, ma leggendo Quanta stella c’è nel cielo, oltre le analogie, ho trovato una
fondamentale differenza: la figlia di Edipo vuole morire, pur essendo la principessa di Tebe, e avendo la
prospettiva sicura di divenirne regina; Anita invece vuole vivere, nonostante
il passato tragico, il presente insicuro e il futuro oscuro.
Nasce in una famiglia di ebrei ungheresi poveri, da un padre
fallito nel lavoro, umiliato, e da una madre che deve tenere in piedi la
baracca sgobbando dalla mattina alla notte.
Eppure Anita è una bambina vivace, fantasiosa, capace di
giocare e gioire con poco, e nello stesso tempo è riflessiva, desiderosa di apprendere, capace
di ricordare.
Conserva memoria di tanti particolari che l’hanno colpita:
visioni di cose brutte o belle, gesti veduti,
frasi sentite, magari senza volere.
Per esempio: "Una ragazza povera, che Iddio la protegga. Se
si sporca prima del matrimonio non troverà mai un marito” diceva la madre alle sorelle maggiori (p. 8).
Scampata al campo di sterminio dove ha perduto tutti i suoi,
viene presa in casa da Monika, una giovane zia sorella di suo padre, e da suo marito
Aron. I due hanno avuto da poco tempo un
bambino, Roby. Da loro vive Eli, fratello di Aron, un giovane venticinquenne ,
che parla a stento la lingua di Anita, eppure la provoca sessualmente e la
seduce, dato il bell’aspetto di lui e l’enorme bisogno d’affetto di lei . La
ragazza dunque si è sottratta presto all’intimidazione sessuale impartita dalla
madre. Ma il giovane, di una decina d’anni più attempato, si comporta da donnaiolo anaffettivo e la giovinetta ne soffre. Anche la zia è un personaggio poco
profondo, sicché Anita parla con se stessa e con il bambino che è troppo
piccolo per capirla, se non emotivamente, e non può risponderle se non con i
sorrisi e con il linguaggio del corpo.
Ma vediamo qualche particolare .
Citerò alcune frasi chiave che aprono la porta alla
comprensione del libro più di qualunque commento.
Nelle prime pagine si racconta il viaggio in treno di Anita
e di Eli che è andato a prenderla all’orfanotrofio e la porta in Slovacchia
nella casa dove la ragazza dovrà vivere
con lui, con suo fratello Aron, con la zia Monika e con il cugino neonato.
Anita è attirata dall’accompagnatore che le si strofina
contro e le mette presto le mani addosso, senza sapere né voler parlare: “Non parliamo” dice. “Tu non
raccontare io non racconto. Adesso vita, vivere capito?” (p. 12). Entrambi
vogliono vivere, e vogliono amare. Il fatto è che della vita e dell’amore hanno
una visione differente. Il ragazzo vuole escludere la parola e separare il
sentimento dal sesso che intende solo come piacere e come ginnastica: “Uomo
tira giù e tira su i pantaloni, finito. La donna vuole sentimento” (p. 23)
Anita si consola
osservando il mondo bello e variopinto, quando si sente troppo triste e le si
riaprono antiche ferite nel notare l’insensibilità del prossimo suo. Le fa
molto male quella di Eli che le rievoca ricordi orribili: “ Vai” Via via!
Aspetta…” . Mi respinse da sé Eli con un gesto che avvertii violento, e dalle
mie cellule, dai miei organi, come fossero accumulatori di memoria,
riecheggiarono le ultime parole pronunciate dalla mamma: “Vai! Via via via”!
frammiste con : “Gehen. Los los los”
di un soldato tedesco che mi strattonava per staccarmi dalle vesti, dalla carne
di mia madre, durante la selezione, all’arrivo (...) A volte le rimproveravo
quel “”Vai! Via via via!” altre volte alla vista del sole che sorge, della neve
che cade, dell’albero che fiorisce, sono felice di essermi salvata e la vita
sembra un dono grandioso in confronto alla miserabile morte che vedevo attorno,
che mi giaceva a fianco, che mi si rovesciava addosso con tutto il suo freddo
profondo” (p. 16).
Viene in mente una pagina di Guerra e pace: “Dalla dura corteccia secolare erano spuntate,
sprovviste di rami, fresche, giovani foglie, tanto che non riusciva a credere
che le avesse generate quel vegliardo.
“Sì, è proprio quella stessa quercia” pensò il principe
Andrej, e di colpo senza alcun motivo lo assalì un senso primaverile i gioia e
di rinnovamento… No, la vita non finisce a trentun anni”, pensò a un tratto il
principe Andrej con decisione ferma e immutabile” (III, 3).
I due giovani, messi a dormire nella stessa stanza dunque
diventano amanti per l’attrazione reciproca, ma le discrepanze rimangono, né si attenuamo.
Anita che crede nella vita e crede nell’amore cerca di
convertire l’arido compagno di letto: “Il male è grande e il bene è piccolo ma
c’è, devi farlo crescere tu, devi dare luce anche a te, dentro” .
Ma lui le risponde: “Anita tu molto bella per pensare,
sapere, parlare, mi fai nervoso, mi piace donna zitta, gioca, siediti, fammi
calmo” (p. 36)
Mi pare che la ragazza abbia subìto non solo la persecuzione
razziale del tanghero sanguinario e dei suoi ottusi, criminali seguaci, ma anche quella di genere dell’insensibile
amante maschilista.
Anita non ottiene comprensione nemmeno dalla sorella del
padre.
Una sera, nel mandarla a dormire, la zia le dice: “Buona
notte. Dormi bene. E chiudi il cervellino a ogni pensiero”
“Io vorrei studiare”, replica la nipote
E Monika, troppo realisticamente: “Studiare? Non è tempo di
studiare, Caso mai potrai seguire un corso di cucito gratuito, organizzati
ovunque, anche qui dentro, da ebrei” (p. 50)
Ma il desiderio più grande, il bisogno di Anita è quello di
parlare.
Aron prova a dire alla moglie: “Auschwitz rischia di
annientare la verità dell’accaduto stesso se l’orrore non è raccontabile o non
è ascoltabile, capisci?” E Monika gli risponde: “Anita non farebbe altro che
parlarne, avvelenare il mio latte per Roby” (p. 61).
Anita dunque non può parlare con Eli e non deve parlare con
la zia.
Allora parla con Roby, un infante che non è in grado di
risponderle a parole ma sa contraccambiare sorrisi, espressioni, gesti
d’affetto.
Anita gli dice tante
parole e gli canta: “una cosa popolare vecchia, ungherese, versi lamenti
scritti da qualche emigrante come me, senti che belli
“Elmegyek, elmegyek,
hosszú útra megyek,
hosszú út porából
köpenyeget veszek” (p.
65).
Mi permetto una nota personale, e chiedo scusa, ma voglio
manifestare la mia gratitudine alla nazione magiara che mi ha dato molto quando
ero giovane. Ora è un vecchio che scrive, un vecchio che non ha dimenticato
perché ha fatto tesoro delle esperienze belle e ha saputo utilizzare anche le
meno belle.
Sono stato borsista a Debrecen, nella Università estiva di
quella cittadina dell’Ungheria orientale per qualche mese tra la fine degli anni Sessanta e i primi
anni Settanta. Un periodo di maggiore cordialità tra gli umani. Vi ho passato
alcuni tra i giorni più belli della mia vita. Ho conosciuto studenti che
venivano da tutto il mondo. Ho apprezzato la gente e la cultura ungherese.
Anche per questo il libro di Edith Bruck e il film di
Roberto Faenza mi sono cari, mi stanno a cuore.
Traduco le parole della strofe trascritta sopra con parole
mie
Vado via, vado via
Vado per una lunga strada
dalla polvere della lunga strada
ricavo un mantello
Per oggi mi fermo qui. A presto
giovanni ghiselli
Mi piacerebbe conoscere questa ragazza oggi, per vedere la donna che è diventata.Giovanna
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