Affresco raffigurante Priapo, Pompei |
Il conforto delle montagne dalla
voce umana. La cena con i chiarimenti dovuti. L'ira di Priapo[1] . Il patto dei
quindici giorni di separazione
Ifigenia si avvicinava ridicolmente, zoppicando e appoggiandosi sulle racchette.
"Vecchia e brutta", pensai.
Tornammo in albergo. L'accompagnai in camera sua. Guardai l'orologio.
"Sono le cinque – dissi - adesso ci laviamo, ci riposiamo un poco,
e ci vediamo tra un'ora".
"Va bene – rispose - a cena". Ma questa era alle otto: Ifigenia non voleva fare l'amore. Una volta
non perdevamo nemmeno occasioni di pochi
minuti, e non sempre avevamo una stanza per la nostra libidine. Mi allontanai
facendo questa constatazione triste, e soffrendone, ma senza darlo a vedere. Scesi in camera mia, mi lavai e asciugai in
fretta, poi uscii per parlare con i monti amici e con il santo volto di luce
che tramontava. Erano quasi le sei. A quell'ora, nelle sere non annuvolate di
primavera, le rocce antropomorfe prendono un colore rosa pallido che suscita
buoni presagi, evoca ricordi di maggi odorosi, di calde, aulenti sere piene di
voli. I monti rosati dall'ultimo sole mi
parlarono anche. Dissero: "Non preoccuparti, Gianni, non te la prendere.
Non sei più il bambino infelice che dovevamo consolare trent'anni fa, quando
oltre noi non avevi nessun conforto. Né avevi ricordi buoni. Ora sei un uomo di
trentasei anni e non sei male: hai avuto il beneficio dell'amore di donne anche
belle e fini, hai conosciuto il pensiero di persone intelligenti e geniali, hai
costruito dentro di te una forza che nessuno potrà sottrarti, che, anzi, si
accresce di giorno in giorno mentre la propaghi insegnando. Ifigenia è una
ragazza piuttosto bella, non è proprio scema, non è disonesta del tutto, ma non è della tua levatura: tu puoi trovare
di meglio. Pensa a quanta strada in salita hai fatto da quando venivi qua bambino
angariato a domandarci: ‘Ditemi monti dalle facce umane, tu amico Piz Meda, tu
caro Sas da Ciamp, tu fraterno Mesdì, che cosa ho fatto di male per soffrire in
questa maniera? Fatemi capire in che cosa sbaglio, piccolo come sono, e
smetterò. Quali peccati ho commesso perché la mamma dai capelli neri e lucenti
come le piume dei grandi uccelli che planano adagio sopra le vostre foreste
scure, dagli occhi verdazzurri e inafferrabili come le trote dei vostri
torrenti, in due settimane che sono qui a patire aspettando, non mi ha mandato nemmeno
una cartolina con baci e saluti?’ Ricordi quanto male ti andava? Camminavi solo su queste
strade, ed eri malvestito e pativi,
eppure pensavi che ti saresti rifatto: un giorno, magari lontano, però sicuro,
non saresti più stato un bambino pezzente in balìa di gente scontenta di sé. Ebbene,
da allora diverse creature ti hanno amato; alcun persone ti hanno ammirato;
altre hanno dovuto temerti; i colleghi invidiosi ti hanno fatto una guerra
iniqua che giustamente hanno perduto, poiché gli allievi hanno preso non loro,
ma te quale modello di cultura e di vita. Pensa alle donne che ti hanno donato
l'amore nella gioia, o l'amicizia nella contentezza, l'affetto e la solidarietà
nei momenti difficili. Ti è andata bene, Gianni, molto bene ti è andata. E non
è finita qui. Dai retta a noi che siamo più antiche dei tuoi poeti, più di
Sofocle che prediligi, anche dell'antichissimo Omero siamo più antiche noi, e
abbiamo visto tanta gente soffrire. Ma tu sai farlo con dignità, con nobiltà,
come i tuoi eroi della tragedia: tu dal dolore sai trarre comprensione[2] e
accrescimento . Con la volontà buona e l'intelligenza hai conquistato quanto
nemmeno osavi sperare: Ifigenia, per esempio; sopra tutte Ifigenia. Cos'altro
vuoi? Dillo a te stesso, dillo a noi, e lo otterrai. Quella ragazza, dopo che ti
sei abituato alla soddisfazione della conquista, ed è scemato il piacere, non
la volevi davvero e per sempre. Hai pensato che con la sua bellezza esterna
volesse sottomettere la tua interiore, meno apparente ma più produttiva e
reale, e non hai voluto scambiare oro con rame, come fece Glauco cui Zeus tolse
il senno[3]. Non è così?"
Ammisi e ne fui confortato. Capii che avevo motivi razionali e reali
per essere ottimista. Ringraziai i monti amici, le convalli rifugi di fiere
montane, i dossi sporgenti, le rupi scoscese a me familiari , e tornai a La
Campagnola.
Entrai in camera mia. Erano circa le sette. Poco dopo arrivò Ifigenia,
assai complimentosa. Probabilmente aveva pensato di essere stata troppo dura.
Mi faceva carezze e moine straordinarie. Troppe, e, nel contesto di quella
giornata, stonate. Alle sette e mezzo scendemmo a cenare. La ragazza continuava
a ripetere:
"Quanto sei bello, Gianni, quanto sei bravo! Arcibravissimo sei!".
Aspettai che la scimunita tacesse un momento, quindi le domandai: "Perché
sei venuta in montagna senza intenzione di fare niente con me: né parlare sul serio,
né sciare, né passeggiare, né fare l'amore?"
Capì che non poteva continuare a mentire e rispose: "Non lo so. Forse
per abbronzarmi. E' vero che non ho più tanta voglia di stare con te, non
quanta ne avevo una volta: mi spiace".
La osservavo con calma. Ne fu incoraggiata.
Continuò: "I miei sentimenti verso di te adesso non li capisco. Dammi
del tempo; anzi, facciamo una cosa. Finita la cena, saliamo in camera mia.
Quindi torniamo a Bologna, e là, per due settimane, tu non mi cerchi, nemmeno
al telefono. Io devo pensarci bene a quello che sento, alla nostra situazione,
a noi due. Prima non ho voluto stare con te siccome ero stanchissima e tutta indolenzita
per le cento o mille cadute della mia disastrosa discesa. Quando ho fatto la
doccia, mi sono vista piena di lividi. Ma non è solo per lo sfinimento e il
pestaggio della discesa che non ho voluto. Credo di essere venuta qua con
l'intenzione di vedere se tu mi vuoi bene, se io te ne voglio; insomma per
capire qualcosa di noi. Io non sono più sicura di niente. Ora per esempio mi è
venuta una gran voglia di fare l'amore".
Sembrava sincera. Probabilmente lo era. Le luccicavano gli occhi mentre
mi fissava. Salimmo in camera sua. La chiave chiudeva. Lo facemmo una volta,
con gusto e allegria. Dopo l'orgasmo disse: "Lavati Gianni, facciamolo
ancora zazzì". Andai nel bagno contento.
"Come ai bei tempi" pensavo. Tornai presto nel letto dove lei
aspettava fissando il soffitto con un sorriso. Io però non ebbi una seconda
erezione decente. Dopo tre o quattro tentativi falliti, mi scostò con una mano,
e, senza guardarmi, esclamò con dura ironia: "Poi sono io quella che ne ha
poca voglia! Diciamola una buona volta questa verità!"
"Sì, capita pure a me di non avere più tanto desiderio quanto una volta
– risposi - ma generalmente tu sei più fredda di me. L'anno scorso il meno
entusiasta ero io; quest'anno sei tu".
"Già, oramai sono quasi anni che le cose non vanno bene tra
noi" confermò.
Allora dissi:" Adesso partiamo. A Bologna proveremo la separazione
che hai proposto tu poco fa. Per due settimane non ti cercherò. Faremo in modo
di non vederci neppure a scuola. Dopo questi quindici giorni tu, però, mi dici
con tutta franchezza e chiarezza se vuoi restare con me. Io lo vorrei,
nonostante questa sera sia rimasto molto al di sotto della nostra sufficienza e
di quanto ti meriti. Io ambisco a restare con te. Non è soltanto dal numero
degli orgasmi però che si misura la volontà di stare insieme".
Ifigenia annuì.
Ci vestimmo, prendemmo i bagagli già preparati prima di cena e scendemmo.
Il proprietario dell'albergo, quando andai a pagare il conto, disse:
"Torni a Bologna tanto presto? Io, con una femmina del genere starei via almeno due anni". Non si
vedeva quanto male andassero le cose tra noi. Meglio così: non affliggevamo
altri che noi stessi.
Durante il viaggio scherzammo sulla nostra tragedia; forse ci aveva
rallegrati la decisione presa di non vederci per quindici giorni. Arrivati
sulla tangenziale, poco prima di separarci, ancora una volta e forse per
sempre, recitammo un vicendevole atto di dolore: "Mio Dio, mi pento e mi
dolgo con tutto il cuore...".
Davanti alla porta di casa sua le ricordai il nostro patto, onesto e chiaro.
Rimasto solo, nel letto, non ero del tutto infelice. Nemmeno felice ero, però.
giovanni ghiselli
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[1] E' il dio dell'erezione. Un
dio grande. E’ inutile, anzi è perfino dannoso, cercare di propiziarselo con
farmaci che, anzi, suscitano la sua ira santa.
[2] Cfr. Eschilo, Agamennone,
vv. 177: "tw'/ pavqei mavqo"",
attraverso il dolore la comprensione.
[3] Cfr. Iliade, VI, vv.
234-236.
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