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martedì 28 gennaio 2014

Remo Bodei, Immaginare altre vite, parte V



Procedo con il commento del recentissimo libro di Remo Bodei Immaginare altre vite
Realtà, progetti, desideri. Feltrinelli, Milano, 2013


Vediamo il paragrafo  Eroi anonimi (pp. 114-116)
“anche nel passato gli eroi anonimi, specie se defunti, sono stati onorati, non però come singoli. Ad esempio, nel discorso commemorativo per i morti nel primo anno della Guerra del Peloponneso, Pericle afferma orgogliosamente che gli ateniesi caduti in combattimento non hanno bisogno di Omero né di qualcuno che procuri piacere con i suoi discorsi a scapito della verità: è Atene medesima, con le sue conquiste per terra e per mare, a lasciare con loro un monumento imperituro[1]” (pp. 114-115)

L’ orazione funebre raffigura Atene così come sarebbe stata vista per secoli dagli amanti della classicità.
Per esempio, Cicerone scrive “omnium doctrinarum inventrices Athenas” (Orator, I, 4).
 E Dante nel Purgatorio    chiama Atene la "villa....onde ogni scienza disfavilla "(XV, 97 e 99).
Nel quadro di Tucidide "lo Stato è una sorta di armonia eraclitea di opposizioni fondamentali e necessarie, e si regge sulla loro tensione e sul loro equilibrio. Le opposizioni elasticamente oscillanti tra produzione diretta e compartecipazione ai prodotti del mondo intero, tra lavoro e ricreazione, affari e festa, spirito ed ethos, riflessione e attività, appaiono in un concerto idealmente equilibrato nel quadro periclèo dello Stato"[2].
Ripeto e sottolineo una frase dell'epitafio poiché mi sembra emblematica non solo dell'Atene di Pericle ma di tutta la cultura greca, anzi di tutta la migliore cultura europea:"filokalou'mevn te ga;r met  j eujteleiva" kai; filosofou'men a[neu malakiva""(II, 40, 1), amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza.

Torno a Bodei: “Con l’avvento delle masse, l’età contemporanea ha conosciuto altri eroi collettivi della lotta, incarnazioni in individui (vivi e non morti) di ideali, talvolta fanatici, di impegno politico e militare: il citoyen della Rivoluzione francese, il “compagno” della tradizione socialista e comunista, il “camerata” del fascismo e del nazionalsocialismo. La loro identità, come sempre accade, non è riducibile a questa sola appartenenza, che è tuttavia quella che nel loro tempo viene politicamente fatta spiccare sulle altre e a scapito delle altre” (p. 115)
Segue una ricapitolazione degli eventi che  dalla fine del Settecento in avanti hanno portato centinaia di milioni di persone a trovare un’identità gregaria nella Nazione, nel Partito o nella Razza.
“Il punto di partenza di queste vicende può essere simbolicamente fissato al 20 settembre 1792, giorno della battaglia di Valmy, nel quale-secondo Goethe[3]-si è aperta una nuova fase nella storia del mondo” (p. 115).
Si tratta della vittoria di uomini “scalzi e male armati” ma “spinti dalla passione per i nuovi ideali di libertà e di eguaglianza” su “eserciti regolari molto più numerosi, disciplinati e agguerriti”.

La mia generazione dava un’interpretazione del genere alla guerra del Vietnam.

Con questa svolta storica “la vera nobiltà  appartiene non a chi la eredita per il solo fatto di nascere, ma a chi la conquista sul campo di battaglia o nell’arena politica mediante il coraggio, l’abnegazione, la capacità di preparare il rovesciamento dell’esistente e di legiferare in favore del popolo” (p. 115)

Vediamo il  paragrafo seguente: Emancipare attraverso il Terrore. 
“Liberare il proletariato (la classe operaia e i contadini) sollevarlo dall’oppressione e dall’umiliazione, è stato il progetto di tutte le rivoluzioni socialiste e comuniste del Novecento” (p. 116).

Ma si sa che tutte le rivoluzioni si istituzionalizzano e nell’istituzionalizzarsi quasi sempre degenerano in controrivoluzioni.
Sto pensando anche a quella della mia generazione, alla rivoluzione culturale del ’68.  

“Nell’Unione Sovietica degli anni venti del Novecento il Proletkult (…) esalta il proletariato in termini estetici e morali, raffigurandolo sfolgorante di bellezza e di forza, dotato di animo naturalmente generoso e coraggioso, sensibile ai valori della solidarietà e della cooperazione sociale”.
Più avanti “alle doti dei suoi membri si aggiunge quella di instancabili lavoratori, che hanno l’eroe eponimo in Aleksej Grigor’evič Stachanov (p. 116)
Quindi Bodei passa alle utopie. Quelle “tradizionali avevano lasciato intravedere la felicità e la giustizia in isole remote cui si perviene per caso o per naufragio. Contenevano però l’avvertenza che la loro perfezione era irraggiungibile, che si trattava di pietre di paragone per misurare l’inadeguatezza della situazione storica effettiva rispetto alle aspirazioni degli uomini”.

Vediamone una, quella dell’ Epodo XVI di Orazio  composto probabilmente  dopo che Sesto  Pompeo nel 38 a. C. ha ricominciato la sua guerra sul mare, minacciando di affamare l'Italia. Roma che tanti nemici esterni non riuscirono a distruggere, prevede cupamente il poeta, "impia perdemus devoti sanguinis aetas "(v. 9), la distruggeremo noi, generazione empia nata da un sangue maledetto, con riferimento al fratricidio primigenio di Romolo.
Si dovrà volare al di là dei lidi etruschi, verso le isole felici dell'Oceano. In quei luoghi la terra è generosa, gli animali produttivi, il clima mite, le donne pudiche, poiché non hanno avuto il cattivo esempio  di Medea:"Non huc Argoo[4] contendit remige pinus/neque impudica Colchis intulit pedem " (vv. 59-60), qua non ha diretto la rotta la nave con la ciurma di Argo, né la svergognata donna di Colchide vi ha messo piede.
  L'altrove utopico delle isole beate di Orazio produce pane e vino senza violenza:" Nos manet Oceanus circumvagus arva beata/Petamus arva divites et insulas,/Reddit ubi Cererem tellus inarata quotannis/Et imputata floret  usque vinea " (Epodi , 16, 41-44), ci attende l'Oceano che gira intorno a campagne felici,  dirigiamoci a quelle campagne e isole fertili, dove ogni anno la terra dà le messi senza essere arata, e la vite fiorisce continuamente senza essere potata.

“La svolta, consistente nell’ibridazione tra utopia e storia, avviene in tappe successive a partire dalla seconda metà del Settecento, con il romanzo “ucronico” di Louis-Sébastien Mercier L’anno 2440, pubblicato nel 1770, dove la perfezione non è più posta nello spazio geografico, ma nel tempo, nel futuro.

Una anticipazione di questa “ucronia” si trova nel poema di Virgilio che proietta l’età dell’oro tanto nel passato remoto del regno di Saturno quanto nel futuro preconizzato dell’impero di Augusto .

Nell'Eneide la decadenza delle età è collegata alla guerra e alla volontà di impossessarsi delle ricchezze: "Aurea quae perhibent illo sub rege fuere/saecula: sic placida populos in pace regebat,/deterior donec paulatim ac decŏlor[5] aetas/et belli rabies et amor successit habendi " (VIII, 324-327), i secoli d'oro di cui si narra furono sotto quel re[6]: così reggeva i popoli in placida pace, finché un poco alla volta succedette l'età scolorita e la furia di guerra, e l'amore del possesso.
 L'età dell'oro , secondo la profezia di Anchise,  ritornerà con Augusto: “ Augustus Caesar,  Divi genus, aurea condet/saecula qui rursus Latio regnata per arva Saturno quondam" (Eneide VI, vv. 792-793), Cesare Augusto stirpe divina, che stabilirà di nuovo nel Lazio l'età dell'oro su cui regnò nei campi arati un tempo Saturno.
 Già nel primo libro del poema Giove profetizza il rinnovamento dei tempi dovuto all’impero e  senza fine e alla pace stabiliti da Augusto: “imperium sine fine dedi. Quin aspera Iuno…mecum fovebit/Romanos rerum dominos gentemque togatam Aspera tum positis mitescent saecula bellis,/cana Fides et Vesta, Remo cum fratre Quirinus/iura dabunt; dirae ferro et compagibus artis/claudentur Belli portae; Furor impius intus/saeva sedens super arma et centum vinctus aënis/post tergum nodis fremet horridus ore cruento” (Eneide, I, 279 sgg.), ho assegnato un impero senza fine. Anzi la dura Giunone con me favorirà i Romani signori del mondo e la gente vestita di toga[7]…allora, deposte le guerre, diventeranno miti le età feroci, e la Fede veneranda e Vesta, e, con il fratello Remo, Quirino daranno le leggi; le atroci porte della guerra verranno chiuse con stretti serrami di ferro; l'empio Furore dentro, seduto sopra le armi crudeli, e legato dietro la schiena con cento nodi di bronzo, fremerà orribile nel volto insanguinato.

Un futuro già preannunciato nella la IV Bucolica[8] dove si legge che sta per iniziare  una nuovo ciclo di età (saeclorum ordo , v. 5) coincidente con la nascita di un puer (v. 8), con il ritorno di Astrea, la vergine dea della Giustizia  ( iam redit et Virgo, v. 6), con la restaurazione dei Saturnia regna  (v. 6), e con l’avvento di una nova progenies, una stirpe nuova (v. 7) e il cambio che la gens aurea  darà a quella ferrea  (v. 8 e v. 9).
Qui c'è l'attesa della seconda età dell'oro, che giungerà alla perfezione  quando il misterioso puer sarà arrivato all'età virile: allora ogni terra produrrà tutto da sola, senza subire violenza dall'uomo, le dure querce suderanno roridi mieli, il mare sarà libero dalle navi, mentre gli animali nocivi periranno, quelli utili verranno liberati, e, per quanto riguarda la donna-madre ella dovrà sorridere al  puer simbolo della rinascita, chiunque egli sia. Infatti il bambino privato del sorriso dei genitori non potrà mai raggiungere l'eccellenza.

Nel Carmen saeculare[9] ” l’età dell’oro è già sulle soglie del presente.
Orazio celebra il nuovo secolo di prosperità e virtù morali ritrovate: "Iam Fides et Pax et Honor Pudorque/priscus et neglecta redire Virtus/audet, apparetque beata pleno/Copia cornu"[10], già la Fede e la Pace e l'Onore e il Pudore antico e la Virtù messa da parte osa tornare, e appare felice l'Abbondanza con il corno pieno.

Torniamo a Immaginare altre vite.
“Le conseguenze, per ora soltanto sul piano dell’immaginazione, sono enormi. Infatti, se la perfezione e la felicità delle società umane vengono situate nell’avvenire, ciò significa che possiamo iniziare già nel presente una lunga marcia di avvicinamento a esse. Questo spostamento dallo spazio al tempo, dall’utopia all’ucronia, s’intreccia con la storia enunciata da Rousseau all’inizio dell’Émile
secondo cui l’uomo nasce buono ed è la società che lo corrompe. I Giacobini ne trarranno la conclusione che, se la società è corrotta, la colpa non deve più essere attribuita alla natura malvagia dell’individuo (frenata sotto San Paolo, che scrive sotto Nerone, dalle autorità che vengono tutte da Dio[11]), ma alle istituzioni stesse. Solo una rivoluzione politica potrà quindi estirpare l’ingiustizia e restaurare la primitiva bontà dell’uomo, promuovendone la felicità.
Si apre così la strada alle rivoluzioni moderne di ispirazione socialista e comunista, che legano ucronia e storia e pongono la  meta finale delle vicende umane nella società senza classi. Secondo una previsione che pretende di essere scientifica (e non utopica o cronica), con il raggiungimento di questo traguardo si restaurerà la bontà originaria dell’uomo, eliminando le ragioni stesse della conflittualità e dando a ciascuno secondo i suoi bisogni” (Immaginare altre vite, p. 117).
Questi ideali sono stati seguiti da alcuni personaggi e molti eroi anonimi con “grandezza e nobiltà”.
 Bodei indica come esempio “il personaggio del detenuto politico Markel Kondrat’ ev, descritto da Tolstoj in Resurrezione. Un operaio che cerca per sé e per la sua classe la liberazione e la punizione degli oppressori attraverso la conoscenza: “Gli spiegarono che la conoscenza dava tale possibilità, e Kondrat’ ev si dedicò con passione ad acquisire conoscenze”. Trovato in possesso di libri proibiti lo arrestarono, ma non smise di acquisire conoscenze: “Adesso studiava il primo volume (del Capitale) di Marx e custodiva quel libro nel sacco con grande cura, come un tesoro preziosissimo”[12]. Allorché la situazione politica divenne difficile, anche la Rivoluzione russa, al pari di quella francese, fece ricorso alla violenza istituzionalizzata” (p. 118). Bodei quindi ricorda il Terrore del regime sovietico e alcuni tra gli  orrori del periodo staliniano.
“Nel Terrore si racchiude il mysterium tremendum della politica, il potere di dare la morte in nome di vere o presunte superiori esigenze di salvezza della comunità in momenti di emergenza: salus populi suprema lex esto!” (p. 120).

Nella storia romana troviamo l’esempio di un console, Tito Manlio Torquato,  il quale, durante la guerra contro i Latini[13] , fece giustiziare il proprio figliolo che aveva disobbedito a un  ordine, per timore che, qualora la trasgressione fosse rimasta impunita, la disciplina militare ne sarebbe stata inficiata.
In questo caso è la disciplina la suprema lex.                        
Riporto le parole dell’accusa: “ tu, T. Manli, neque imperium consulare neque maiestatem patriam veritus, adversus edictum nostrum extra ordinem in hostem pugnasti, et, quantum in te fuit, disciplinam militarem, qua stetit ad hanc diem Romana res  solvisti "[14] tu, Tito Manlio, senza riguardo per il comando dei consoli e per l'autorità paterna, hai combattuto il nemico contro le nostre disposizioni, fuori dallo schieramento, e, per quanto è dipeso da te, hai dissolto la disciplina militare, sulla quale sino ad ora si è fondata la potenza romana.

Più avanti, durante la seconda guerra sannitica (326-304), il dittatore Lucio Papirio si trova a dover affrontare un fatto analogo: il maestro della cavalleria Fabio aveva attaccato e sconfitto i nemici contro un suo ordine, e, quando, su richiesta del condannato appellatosi al popolo, il caso fu portato a Roma, il dictator disse : "polluta semel militari disciplina non miles centurionis, non centurio tribuni, non tribunus legati, non legatus consulis, non magister equitum dictatoris pareat imperio, nemo hominum, nemo deorum verecundiam habeat.."(VIII, 34), una volta corrotta la disciplina militare, il soldato non obbedirebbe all'autorità del centurione, il centurione a quella del tribuno, il tribuno al luogotenente, questo al console, il maestro di cavalleria agli ordini del dittatore, nessuno avrebbe più rispetto degli uomini, nessuno degli dei.
 Questa volta tuttavia fu trovata una scappatoia: il popolo e i tribuni della plebe chiesero la grazia supplicando, e il dittatore la concesse senza del resto assolvere il reo: "Non noxae eximitur Q. Fabius, qui contra edictum imperatoris pugnavit, sed noxae damnatus donatur populo Romano, donatur tribuniciae potestati precarium non iustum auxilium ferenti " (VIII, 35), non è sottratto alla colpa Quinto Fabio, che ha combattuto contro l'ordine del comandante, ma condannato per la colpa, deve il perdono alle preghiere del popolo romano, deve il perdono alla potestà tribunizia che gli porta un aiuto di preghiere, non di diritti.

Bodei conclude il paragrafo con la storia atroce relativa a una donna accusata di essere nemica del popolo “per la sola appartenenza a una istituzione ecclesiastica, una suora venne arrestata ‘per atteggiamenti controrivoluzionari e per sabotaggio’ nel 1937. La deportarono a Kolyma, nel Circolo Artico” dove le inflissero torture raccapriccianti e una fine atroce: “Non le permisero di dormire. Quando svenne, le versarono addosso dell’acqua gelida e la obbligarono a rimanere sull’attenti nella pozzanghera. Il ghiaccio le incollò i piedi alla terra (…) Quella sera le altre donne della squadra dovettero abbattere il suo corpo con l’ascia. Gli occhi erano ancora aperti”[15]. (Immaginare altre vite, p. 120)  

Giovanni Ghiselli

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[1] Cfr. Tucidide; II, 41.
[2]Jaeger, Paideia , 1, p. 687.
[3] Cfr. J. W. Goethe, Incomincia la novella storia (Campagne in Frankreich), Sellerio, Palermo 1981, pp. 64-66.
[4] E' ablativo strumentale dell’aggettivo a tre uscite Argōus,  concordato con remige.
[5] Nell’Oedipus di Seneca la Tebe ammorbata dagli scelera del re  è colpita dall’aridità, dalla siccità e pure dallo scolorimento che significano sterilità e morte: "Deseruit amnes humor atque herbas color,/aretque Dirces; tenuis Ismenos fluit,/et tingit inǒpi nuda vix undā vada "(Oedipus, vv.41-43), l'acqua ha lasciato i fiumi e il colore le erbe, è disseccata Dirce; l'Ismeno scorre vuoto, e con la povera onda bagna a stento i guadi nudi. La malattia toglie umore e colore alla vita prima di annientarla: "Il sole della peste stingeva tutti i colori e fugava ogni gioia" A. Camus, La peste, p. 87.
[6] Saturno (cfr. redeunt Saturnia regna di Bucolica IV, v. 6) che diede alla terra dove si era rifugiato il nome di Latium , "his quoniam latuisset tutus in oris " (Eneide, 8, v. 323), poiché era rimasto latitante sicuro in queste contrade. 
[7] La toga è la divisa del romano in pace, è "quell'indumento così fortemente marcato, dal punto di vista dell'identità e dell' "appartenenza" romana, da costituire una vera e propria "uniforme de la citoyennetè" (. F. Dupont, La vie quotidienne du citoyen romain sous la république, Hachette, Paris, 1989, p. 290) .La toga costruisce il corpo del cittadino alla maniera di una veste rituale…". (M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 345).
[8] Scritta nel 40 a. C., l’anno del consolato di Asinio Pollione.  Il puer potrebbe essere suo figlio, oppure l’auspicato figlio di Antonio e Ottavia, sorella di Ottaviano, i quali si sposarono per sancire l’accordo di Brindisi in quell’anno. Poi nacque una bambina.
[9] Del 17 a. C.
[10] Vv. 57-60. E' una strofe saffica formata da tre endecasillabi saffici e da un adonio.
[11] Paolo scrive la Lettera ai Romani alla fine del 57 o ai primi del 58. Dice ai cristiani di Roma: ogni anima sia sottoposta alle autorità superiori: infatti non c’è autorità se non da Dio: “ouj ga;r e[stin ejxousiva eij mh; ajpo; Qeou', non est enim potestas nisi a deo” (13, 1). Sicché chi si oppone all’autorità si oppone all’ordinamento di Dio; e quelli che si oppongono saranno puniti. Dovete obbedire “a chi dovete le tasse, date le tasse; a chi il timoroso rispetto, date il timoroso rispetto; a chi l’onore, date l’onore”…Paolo insiste sulla necessità che i Cristiani siano soggetti alle autorità romane; e formula il concetto, fondamentale nella storia dell’impero che omnis potestas a deo”. ( Santo Mazzarino, L’impero romano, I,  p. 206).
[12] L. Tolstoj, Resurrezione, cit., pp. 423-424
[13] 340-338 a. C.
[14] Tito Livio, Storie, VIII, 7
[15] G. Steiner, Proofs and Three Parables, Faber & Faber Inc. , London 1992, tr. It. Il correttore; Garzanti, Milano 1992, pp. 52-53. Si veda anche V Šalamov, I racconti di Kolyma, Einaudi, Torino 1999.

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