L'incontro a scuola. Il raggio di sole
riverberato dal volto di Ifigenia. Il giro solitario sul monte Donato. La riconciliazione del 24
marzo. La ragazza saltava come una
puledra al fianco della madre in un pascolo luminoso e fiorito. Il sapere non è sapienza[1].
La mattina seguente andai a scuola con il
proposito di non incontrarla. Invece, appena entrato, la vidi. Percorreva il
corridoio del tetro piano terreno venendo dalla porta di via Nazario Sauro;
io camminavo in direzione contraria, poiché ero entrato dal cortile maggiore,
dove avevo parcheggiato la bianca Volkswagen, e mi avviavo verso le scale,
per salirle ed entrare nella mia aula,
quasi tenendo bassa la testa. Così ci incrociammo. La ragazza era con un
collega giovane, un tirocinante bizzarro che conoscevo, siccome era venuto
più di una volta a casa mia, con lei,
a prendere appunti di letteratura greca per il loro esame di abilitazione. Un
giovanotto taciturno, occhialuto, foruncoloso[2] nel
volto bruno.
Ifigenia quella mattina lontana era così splendida
che provai un'impressione di dolore.
Mi scoccò un sorriso luminoso con il quale mi inflisse una ferita dolorosa;
sembrava volesse significarmi: "Tu oramai sei fuori dalla mia vita, e io
sto bene." Sorrisi anche io, cercando di non lasciare vedere l'affanno
interno, e tirai dritto fino alle scale che mi diedi a salire lentamente, ma
senza volgermi indietro. Ero molto turbato: le gambe tremavano, e il cuore in
tumulto balzava dentro il petto. L'avevo vista così miticamente bella,
radiosa e lontana, che l'amore di lei, mi sembrava già una favola antica.
Nell'intervallo, per non correre rischi, evitai la sua zona: scesi le scale
in fretta, e uscii senza volgermi dalla parte dove solitamente stava Ifigenia con
la schiena appoggiata al muro e il petto odoroso in fuori. Bellina! “Colla
cytericae splendent agitata columbae[3]”.
Durante l'ultima ora, verso mezzogiorno, mi
affacciai all'alta finestra che risponde all'angusto cortile minore. Guardai
giù, nel cupo buco dove il sole non arrivava. C'era lei. Irradiava bellezza dal
volto abbronzato. In mezzo a quel pozzo, la vidi brillare di candida luce.
Era seduta sopra una vespa con gli occhi chiusi e la faccia girata verso un
raggio riverberato da una finestra lontana e poco pulita. Quel riflesso opaco diventava un barbaglio
potente dopo essersi vivacizzato cadendo nel viso della ragazza abbronzata
dalle nevi scintillanti del Lusia. Parlava con uno seduto accanto a lei,
tenendo le spalle appoggiate alle sue. Sembrava soddisfatta. Forse l'avevo
perduta.
Dopo la scuola, salii sul monte Donato.
Volevo rivisitare una stradina sghemba e romita, dove due estati prima
avevamo fatto l'amore, scostando spine, schiacciando insetti, facendo fuggire
le lucertole, che saettavano via come baleni verdi, e interrompendo lo strepitoso
fragore delle cicale pazze di sole. Stavamo stretti in abbracci dolcissimi,
al pari di uccelli dentro i cespugli[4] .
Dopo, ci rotolammo giù per un pendio, tenero e profumato di erba alta, sugosa.
Quando ci ritrovammo in fondo al declivio, fermi e ancora avvinghiati, le
accarezzai i capelli violacei versati sulla vegetazione, le baciai le labbra
vermiglie come i papaveri, le guardai le iridi nere come le more, le pupille
scure, brillanti di gioia nella gran luce pomeridiana, e mi sembrò di tenere abbracciata
la terra con il meglio della sua vita. Il 23 marzo 1981, di quella intesa con
la ragazza, di quella felicità naturale, non era rimasto niente.
Il 24 era un martedì, giorno nel quale le
mie lezioni cominciavano soltanto alle undici. Perciò potei dormire a
sazietà: fin oltre le nove, come chi ha la coscienza tranquilla. Era anche
una bella giornata di sole già caldo, quasi precocemente maturo, per cui potei
andare a scuola in bicicletta, e non infagottato. Insomma ero di buon umore,
come se le cose mi andassero bene. Dopo tutto, pensavo, l'interruzione o anche la
fine del rapporto poteva essere una cosa buona: sarei diventato libero di
dedicarmi a me stesso, di non agire più, senza costrutto alcuno e con
soddisfazione scarsissima, in funzione di quella giovane donna che buttava
via tutto. Avrei avuto più tempo per leggere, onde non perdere tra l'altro la
fondamentale identità di insegnante ottimo, e avrei cominciato a scrivere
l'opera che dovevo a me stesso e all'umanità. Così avrei pure recuperato
l'autocompiacimento, l'amor proprio che avevo smarrito versandolo nella
fanciulla dall'anima ingrata, siccome priva di fondo, come le brocche delle
quarantanove spose omicide[5].
Quando arrivai davanti al Binghetti, suonava
l'inizio della ricreazione. La campana si
sentiva anche da fuori le mura del tetro edificio, illuminato del
resto e rallegrato dal sole. Decisi di non entrare prima che l'intervallo fosse finito, per non
correre il rischio, vedendola, di provare sentimenti troppo forti e
incontrollabili. Aspettai di fianco al portone d'ingresso con la faccia devotamente
girata verso la santa fiamma che nutre la vita. Ero contento poiché avevo
trovato la forza di non volere incontrarla.
Entrai solo dopo avere sentito tutto il suono
che segnava l'inizio della quarta ora. Quando fui nel corridoio, mi
incamminai verso le scale con lo sguardo aderente al pavimento per non vedere
lei qualora si fosse trovata lì nei paraggi. Ma
come giunsi al primo gradino, sentii una voce che gridava il mio nome con
forza.
Non potei fare a meno di fermarmi, girarmi e
alzare gli occhi. Era una ragazza che voleva dirmi qualcosa. Era lei. Sì era
proprio Ifigenia che mi chiamava,
un'altra volta, e correva di nuovo verso di me. Veniva dalla parte del cortile
maggiore. Arrivò trafelata, come ai tempi felici. Doveva avere corso lungo
tutto il piano terreno.
"Gianni – disse - ti stavo cercando.
Devo parlarti”. Come due anni e mezzo prima. L'espressione del volto era
commossa ma allegra.
"Adesso ho lezione" risposi.
Ifigenia andò avanti lo stesso: "Gianni, io ti amo. Voglio stare con te. In questi tre giorni mi sei mancato tanto; sempre mi sei mancato".
"Accompagnami su per le scale"
feci. Le stavo salendo adagio. Continuava a ripetere che aveva capito di amarmi,
ne era sicura. Intanto su ogni gradino faceva piccoli balzi, come una puledra
di fianco alla madre in un pascolo luminoso e
fiorito[6] .
Era certa che non l'avrei respinta. Sapeva bene che mi tenevo sulle mie solo perché
volevo sentirla parlare ancora, prima di farle vedere quanto ero
contento e fiero del fatto che aveva deciso di tornare con me.
Oh sì, ne ero felice: poco prima a furia di
arzigogoli avevo solo messo insieme una misera consolazione dello strazio
lacerante di essere stato piantato da
una femmina umana siffatta. Dopo mesi di dolorosa
incertezza, aveva detto che voleva restare con me. Però non sapevo per
quali motivi né con quali intenzioni. Perciò, mentre procedevo adagio e in
silenzio, la ascoltavo e la osservavo saltellare sui larghi scalini scuri
illuminati dalle finestre del primo piano, quello della macchina per il
caffé, dei bidelli più importanti, della segretaria e del preside Tanghero.
Il seno, sotto la maglia di lana sottile,
rosa, primaverile, sembrava balzare in leggero anticipo rispetto al resto del
corpo. Era splendidissima la ritrovata compagna. Valeva la pena soffrire ancora grandi dolori per una giovane donna
fatta così.
"Sai Gianni – diceva – questa mattina,
non ricordando che il martedì tu cominci alle undici, ti ho cercato
dappertutto qua dentro: ho rovistato il nostro liceo dal cortile all'ultimo
piano, anzi dalla cantina alla soffitta; avevo paura che ti fossi nascosto da
qualche parte per non farti trovare. Non ti dispiace, è vero, che finalmente
ci siamo incontrati?"
Era
sicura che non mi spiaceva.
"No, anzi – risposi – per me è sempre
una gioia e una fortuna averti vicina.
Specialmente quando sei allegra e vitale. Ma per quale ragione, dopo tanti
tentennamenti, hai sentito così forte il desiderio di me?".
Volevo vederla ancora dolcemente sorridere,
e ascoltarla mentre parlava bene di me, di se stessa , del nostro rapporto.
"Ho capito che senza di te non posso
vivere bene. Già ieri pomeriggio a lezione di danza, osservando il maestro,
sentivo che tu mi mancavi, e mi sono congedata da lui prima del termine, per
andare a studiare, per essere degna di te; poi questa notte ti ho desiderato,
sognato, invocato. Ho rimpianto il nostro amore. Questa mattina
bruciavo dalla voglia di parlare con te, di abbracciarti, uomo mio, intelligente
e morale, colto e sensuale. Ora ti vedo come la luce del sole dopo una notte
di mezzo inverno senza le stelle"[7].
Mi bastava. Le credetti, o per lo meno in
quel momento volli crederle.
"Bene - dissi –, condivido i tuoi
sentimenti. Anche io ti ho desiderata e rimpianta. Dopo la scuola ne
parliamo, ma intanto non dubitare: sono felice che il tuo amore per me sia
rinato; il mio per te è stato vivo
sempre, e ora lo è più che mai".
Le accarezzai il volto abbronzato, osservai
il caro sguardo intenerito, e mi girai verso l'aula che mi attendeva. Salii
le ultime rampe di corsa, per sfogare la gioia e impiegare la moltiplicata vitalità. Entrai in classe tutto contento, feci
lezione con entusiasmo e fui ascoltato con interesse. L'amore è
l'affermazione della vita, la negazione della tristezza e della morte.
Chi può essere infelice, non ha
conosciuto l'amore.
All'una scendevo le scale osservando i
giovani con un lampeggiare di felicità negli occhi. Me la sentivo dentro, la
vedevo riflessa negli occhi delle ragazze e delle donne che mi guardavano con
simpatia. Mi sembrava che sulla terra fossero tornate le Grazie[8].
"Questa condizione meravigliosa rinata
insperatamente – pensavo - non devo sciuparla un'altra volta con il ragionare
eccessivo.
Rimuginare
non è saggezza. Sottilizzare su tutto significa negare l'impulso a
vivere spontaneamente e semplicemente. “Ora possiamo amare, amarci, e goderci la vita, tanto bella quanto breve,
”bracu;"
aijwvn”[9], pensai.
Ci incontrammo al piano terreno. Ero
contento anche del fatto che i malevoli non potessero godere assistendo, con
gioia odiosissima, alla fine del nostro rapporto.
giovanni ghiselli
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[1] To; sofo;n d j ouj sofiva. Euripide, Baccanti, v. 35
[2] Cfr. the young man carbuncolar di The Waste
Land di T. S. Eliot (v. 231)
[3] E’ un
esametro di di Nerone citato con elogi da Seneca (Nat. Quaest., 1, 5, 6): ut
ait Nero disertissime “Colla cytericae splendent agitata columbae”, riluce
il collo in movimento della colomba di Venere.
[4] Cfr. Euripide, Baccanti, vv. 957-958: "Kai; mh;n dokw'
sfa'" ejn lovcmai" o[rniqa"
w{"-levktrwn e[cesqai filtavtoi" ejn e{rkesin",
e mi sembra che esse, come uccelli tra i cespugli, siano avvinte nei dolcissimi
lacci dei letti
[5] Le Danaidi.
[6] Cfr. Euripide, Baccanti,
vv. 165-166: "hJdomevna d
j a[ra, pw'lo" o{pw" a{ma matevri-forbavdi, kw'lon a[gei
tacuvpoun skirthvmasi bavkca",
felice allora, come puledra con la madre al pascolo muove il piede
rapido, a balzi, la baccante.
[7] Cfr. Leopardi,
Aspasia, 108.
[8] jekei'
cavrite", ejkei' de; povqo", Euripide, Baccanti, vv.
413-414: là sono le Grazie, là il desiderio.
[9] Euripide, Baccanti,
v. 397: breve è la vita.
[10] József Attila, Compleanno
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