Premessa.
E’ una delle dieci tragedie attribuite a
Seneca.
L’Octavia è considerata non
autentica, a parte Francesco Giancotti.
Anche l’ Hercules Oetaeus è di dubbia
autenticità.
Seneca trova il linguaggio dell’interiorità.
In Seneca il linguaggio si interiorizza e spiritualizza: “Quest’epoca che ha
scoperto la possibilità di spiritualizzare il linguaggio delle parole più
concrete, quest’epoca che con Paolo ha scoperto il concetto di una
peritomhv spirituale (sì che l’ajkrobustiva
può diventare peritomhv), è
difficile proprio per le sue contraddizioni apparentemente assurde”[97].
Paolo afferma che la vera circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non
alla lettera peritomh; kardiva~ ejn
pneuvmati ouj gravmmati (Ai Romani, II, 29).
Tutte le tragedie sono divise in cinque
atti, come aveva canonizzato Orazio nell’Ars poetica (189 sg). I
prologhi entrano in medias res “si collocano sull’orlo del
precipizio…emblematici e particolarmente suggestivi i prologhi della Medea
e della Fedra: il primo rappresenta l’eroina già in preda al
furor al punto che la sua
rJh'si~, pur nel metro dialogico del
senario giambico, ha tutte le caratteristiche di una
klh'si~
; il secondo la monodia di Ippolito…che
isola il personaggio…in una dimensione tutta sua, sottolineata anche dal metro
lirico del dimetro anapestico, cui si oppone il monologo di Fedra” in senari
giambici. “Monodia, di Ippolito, e monologo di Fedra,-che…rappresentano, nel
loro insieme, il prologo, o, quanto meno, il programma di tutta la tragedia che
è lo scontro non più-come nell’Ippolito di Euripide-di due divinità,
Artemide e Afrodite, ma di due opposte psicologie (e passioni), quelle di
Ippolito e di Fedra, lo scontro del furor e della ratio.
” (Biondi-a cura di- Seneca Medea Fedra, pp. 24-25).
Nell’Ippolito di Euripide “Respinta, Fedra
si impicca, però dopo aver applicato il motivo biblico di Putifarre:
incolpandolo cioè in una lettera di aver fatto lui l’avance…Quello che noi
leggiamo è il secondo Ippolito euripideo, detto anche “coronato” (dalla
corona che egli porta in omaggio ad Artemide, alla quale è votatissimo,
essendo purtroppo perduto il primo- il “velato” (a indicare pobabilmente la
ritrosia pudica di fronte alla profferta illecita)-, che sappiamo da Aristofane
aver suscitato un certo scandalo”[98].
La ratio in Seneca equivale alla virtus
.
Il senario giambico di Seneca,
particolarmente quello delle sticomitie ha insegnato la brevitas
all’Alfieri
Alfieri si diede a tradurre la Poetica di Orazio, per assimilare “que’
suoi veridici e ingegnosi precetti”. Quindi si dedicò “anche molto a
leggere le tragedie di Seneca”, benché “si accorgesse essere quelle il
contrario dei precetti d’Orazio”.
C’era poi il problema del metro. Bisognava creare una giacitura di parole, un
rompere sempre variato di suono, un fraseggiare di brevità e di forza,
che venisse a distinguere assolutamente il verso sciolto tragico da ogni altro
verso sciolto e rimato sì epico che lirico. I giambi di Seneca mi convinsero di
questa verità, e forse in parte me ne procacciarono i mezzi. Che alcuni tratti
maschi di quell’autore debbono per metà la loro sublime energia al metro poco
sonante, e spezzato. (Vita, 4, 2)
Quindi Alfieri cita un endecasillabo invece sonante di Virgilio, uno dei più
noti per il suono: Quadrupetante putrem sonitu quatit ungula campum
(Eneide, 8, 596 con tonfo quadruplice lo zoccolo batte il terreno
polveroso) e un senario dall’Agamennone di Seneca, in
ajntilabhv[99]:
Concede mortem./
Si recusares darem (v. 994). Si tratta di Elettra che chiedi a
Egisto di essere uccisa, e l’amante della madre, complice dell’assassinio del
padre, risponde che gliela darebbe se lei la rifiutasse, quindi aggiunge: “rudis
est tyrannus morte qui poenam exigit” (Agamennone, v. 994), rozzo è
il tiranno che esige come pena la morte.
Sentiamo dunque il commento : “Ed in fatti qual è si sprovvisto di sentimento
e d’udito, che non noti l’enorme differenza che passa tra questi due versi?
L’uno di Virgilio, che vuol dilettare e rapire il lettore…l’altro di Seneca che
vuole stupire, e atterrire l’uditore; e caratterizzare in due sole parole due
personaggi diversi… Appena ebbi stesa l’Antigone in prosa, che la lettura
di Seneca m’infiammò e sforzò d’ideare ad un parto le due gemelle tragedie, l’Agamennone,
e l’Oreste. Non mi parea con tutto ciò, ch’elli mi siano riuscite
in nulla un furto fatto da Seneca.
All’inizio
del 1776 Alfieri da sei e più mesi ingolfato negli studi italiani sentì
una onesta e cocente vergogna di non più intendere quasi affatto il latino.
Dunque riprese in mano la madre della nostra lingua madre, cominciando da Fedro,
per poter leggere le tragedie di Seneca, di cui-racconta-alcuni
sublimi tratti mi aveano rapito; e leggere anche le traduzioni letterali latine
dei tragici greci che sogliono essere più fedeli e meno tediose di quelle tante
italiane che sì inutilmente possediamo” (Vita, 4, 2).
Alfieri coglie quell’atmosfera senecana di assassinio, di tortura, di sangue,
di violenza che poi si ritrova in Shakespeare il quale riprende tale tematica
dell'orrore. “In Shakespeare, il teatro di sangue che porta l'insegna
senecana, raggiunge il suo punto culminante"[100].
Seneca come i tragici greci cercò di svolgere un’azione educatrice.
Sommario
Furor e ratio in Medea e Fedra, quelle di Seneca e
quelle di Euripide. La ratio coincide con la virtus: « nihil
enim aliud est virtus quam recta ratio” (Ep. 66, 32).
Seneca e Shakespeare. La difesa dell'identità. Eliot:
Medea superest ( v. 166, II atto) e I am Antony yet[101].(Antonio
e Cleopatra (del 1606-1607) , III, 13
La Medea di Christa Wolf. La preghiera nera della Medea senecana. La
fiaccola fumosa. La negazione della luce. Il determinismo geografico. C'è una
connessione tra le forme della terra e quelle dell'esperienza umana: pelle
femineos metus/et inhospitalem Caucasum mente indue (vv. 42-43). C’è una
volontà di defemminizzazione come nell’Argia della Tebaide di Stazio e
nell’Antigone di Alfieri.
I Fenni di Tacito. Tasso. I Marchigiani di Leopardi. La negazione della
femminilità: Medea e Lady Macbeth. Ortrud nel Lohengrin di Wagner.
Nietzsche e Wagner. La maternità e la spietatezza compiuta. Le Argonautiche
mostrano già l'antefatto della tragedia nel diverso investimento erotico dei due
amanti. Il sogno infantile della Medea di Apollonio Rodio.
Nel primo coro della Medea di Seneca le donne corinzie cantano le
nuove nozze di Giasone con Creusa augurando ogni bene agli sposi.
Il secondo atto
Medea utilizza i topoi della morale stoica per incoraggiare i suoi propositi
criminali: un esempio di asservimento della sapientia non alla virtus
ma alla u{bri" :" Fortuna opes
auferre, non animum potest (v. 176), la Fortuna può portare via il
potere, non il coraggio.
La coazione a ripetere i delitti. Fides (v. 164) e foedus.
ajnakalei' de; dexia'"-pivstin megivsthn
( Euripide, Medea, 21-22), reclama il sommo impegno della mano destra.
Fides è fundamentum iustitiae[102].
Foedus è l'accordo stipulato secondo le regole della fides. Ma un
rapporto di fiducia è anche una relazione di potere. Il foedus in origine
legava contraenti di potenza diseguale. Il caso dei Falisci fide provocati[103]
, sollecitati dalla lealtà di Camillo. La slealtà greca dichiarata da
Lisandro. L'amicitia amorosa di Catullo. Rompere la fede non porta bene[104].
Inaffidabilità dei giuramenti amorosi. Etimologia di femina. La
transvalutazione lessicale:"scelus virtus vocatur[105]
L'identità di Medea: Medea superest (v. 166). L'autopossesso è l'unico
punto fermo nei momenti critici. Diventare se stessi prima di morire: le
Memorie di Adriano. La Medea di Anouilh. Il
kairov". La paura di Creonte (vv.
186-187). La fobia delle donne dichiarata da Catone il Censore in Tito Livio
(34, 2). Creonte cerca di cacciare Medea. Il tiranno non vorrebbe ascoltare, ma
Medea si impone. La solitudine di Medea, quella di Seneca (vv. 207-210) e quella
di Euripide (vv. 252-258).
Valutazioni diverse della solitudine. Imprevedibilità della vita umana (vv.
217-222).
Ultimi versi della Medea di Euripide. La parte buona, vera o simulata,
di Medea: "prodesse miseris" (v. 224). Il credito di Medea nei
confronti dei Greci. La borsa di studio di Medea è Giasone come Tess[106]
è my fellowship di Angel. Creonte teme Medea quale
mivasma della sua terra. La maga
denuncia la correità di Giasone. Una sentenza senecana sovvertita in malam
partem da Creonte che teme Medea:" Nullum ad nocendum tempus angustum est
malis" (v. 292), nessuna frazione di tempo è ristretta per i malvagi
intenzionati a nuocere.
Il secondo coro, in dimetri anapestici, maledice la navigazione. Prometeo,
Orazio (Odi, I, 3) e Leopardi. La cultura pragmatica, senza carità,
strumentalizza tutto. L'audacia dei navigatori è eccessiva e colpevole: audax
nimium (301)…ausus Tiphis (318). L'uomo
deinovteron dell'Antigone. La
navigazione ha unito quello che doveva restare separato guastando i candida…saecula
dei padri. E' la stessa u{bri" di
Serse il quale, secondo Eschilo, tentò di trattenere con vincoli la sacra
corrente dell'Ellesponto e di unificare ciò che deve restare diviso[107].
Bene dissaepti foedera mundi/ traxit in unum Thessala pinus,/iussitque pati
verbera pontum/partemque metus fieri nostri/mare sepositum ( Medea,
vv. 335-339), la nave tessala unificò le parti
del cosmo separate da un recinto di leggi, e ordinò che il ponto patisse le
frustate dei remi; e che il mare lontano divenisse parte della nostra paura.
Erodoto racconta che Serse fece frustare e incatenare il mare (8,
109). Il rischio è quello del ritorno al magma indifferenziato del caos. Infatti
il pretium huius cursus (cfr. vv. 360- 361) è Medea "emblema del caos
etico". Il mondo pervius ha aperto la via alla "confusion delle persone".
“Venient annis saecula seris,/quibus Oceanus vincula rerum/laxet (v.
375-377), verranno secoli in anni fuori dal tempo nei quali l'Oceano scioglierà
le catene del mondo .
L'Oceano in diversi autori. Erodoto nega ci sia questo grande fiume che secondo
Ecateo circondava il disco della terra. Prometeo, l'inventore delle navi, ne
conferma l'esistenza. Con Erodoto scompare l'idea universalista di Oceano che
stringe in cerchio la terra. "L'Oceano è 'garante' ed emblema, insieme,
dell'ordine cosmico in Oedipus, vv. 503-508".[108]
Terzo atto
Il furor della donna offesa nel letto supera quello degli elementi
della natura scatenati: amor timere neminem verus potest (416).
L'incoercibile istinto erotico della donna. Ghismunda di Boccaccio, Joyce e
Weininger. La tempesta emotiva, come quella degli elementi naturali, tende a
negare l'individuazione:"mecum omnia abeant" (v. 428), tutto venga in
malora con me! Alla fine del Prometeo incatenato il Titano vede il mondo
confuso che rischia di regredire nel caos:"xuntetavraktai
d j aijqh;r povntw/"(v.1088), sono sconvolti insieme il cielo e
il mare"
Giasone invoca la sancta Iustitia. Il letto per Medea è più importante
dei figli. Il Giasone di Seneca non è un miserabile come quello di Euripide,
tuttavia Medea lo accusa di ingratitudine: ingratum caput (v. 465) e di
averla colonizzata.
Colpevolezza e ignobiltà dell'ingratitudine (Senofonte: Ciropedia;
Euripide, Eracle; Sofocle: Aiace, Filottete; Teognide;
Shakespeare: Giulio Cesare, Tito Andronico).
L'esilio di Medea secondo la donna è una poena, non un munus
come vorrebbe darle da intendere Giasone il quale si fa un merito di averla
sottratta all'ira del re. L'ira è il tratto distintivo del tiranno e non ha
niente di grande né di nobile. Il potere forte non subisce controlli. Medea
rinfaccia a Giasone di essere il mandante dei delitti da lei compiuti:"cui
prodest scelus is fecit" vv. 501-502), quasi un principio giuridico. Quindi
la donna rifiuta la maternità di bambini che, discendenti dal Sole, diventer
ebbero fratelli dei nipoti di Sisifo. Giasone teme due re, quello di Corinto,
Creonte, e quello di Iolco, Acasto. Medea però afferma di essere più forte di
loro (Est et his maior metus:/ Medea vv. 516-517),
più forte della Fortuna: :"Fortuna semper omnis infra me stetit
" (v. 520), ogni tipo di sorte è sempre stata al di sotto di me.
Medea ha in comune con Achille il non cedere eroico.
Medea decide di colpire Giasone nel punto debole che ha scoperto: vulneri
patuit locus (550): ama i figli. Eros si associa a Eris. Quindi la donna
finge sottomissione. Giasone approva per il proprio utile. Poi l'uomo si
allontana e Medea palesa i suoi intenti e il suo stato d'animo:" Fructus est
scelerum tibi/nullum scelus putare" (vv. 563-564). Ella
colpirà i nemici con doni letali: un mantello, una collana e una corona d'oro.
Maledizioni dell'oro. Ovidio nelle Metamorfosi (I, 141) sostiene che
l'oro è più funesto del ferro. La brama del metallo prezioso infatti scatena la
guerra e inaugura l'era della compiuta peccaminosità, come, negli ultimi tempi,
il petrolio. "Et fas et fides/iusque omne pereat. Non sit a
vestris malis/ immune coelum" ( Megera nel Thyestes, vv. 47-49).
La Medea di Christa Wolf è protettiva verso la nuova moglie di Giasone.
Medea invoca Ecate, la vindice delle donne abbandonate: Simeta di Le
incantatrici di Teocrito, Didone.
Il terzo coro di Corinzi. Il furor di Medea e il castigo. La rabbia
di una moglie abbandonata è devastante più di quella dei grandi fiumi usciti
dagli argini. La madre furente. La donna offesa da un uomo adulto può diventare
una belva con i bambini: Medea, Idotea in Sofocle, Procne in Ovidio.
Il terzo coro chiede venia per Giasone, ma Nettuno è furioso perché sono
stati spezzati i sacrosanti vincoli del mondo.
Il consiglio è: "vade, qua tutum populo
priori;/rumpe nec sacro, violente, sancta/foedera mundi!
" (vv. 604-606), procedi per dove il cammino è stato sicuro alla gente di prima;
e non spezzare con violenza le sacrosante regole del mondo.
"Se…l'
aijtiva e l'
ai[tion della
vicenda euripidea è la rottura, da parte di
Giasone, del foedus con la sposa, in Seneca l'
aijtiva
è la rottura non del foedus con Medea (cosa di cui non è responsabile e
che comunque è fatto recentior ) ma dei foedera mundi "
[109].
Infatti i profanatori del mare sono
morti male, come Fetonte che ha cercato di violentare il cielo. Gli Argonauti
hanno prima devastato i boschi del Pelio, poi hanno solcato il pelago per
impossessarsi dell'oro, ma : exigit poenas mare provocatum (v. 616). L'exitus
dirus la morte orribile (cfr. v. 614) è l'espiazione della rottura dei
sacrosancta foedera mundi. Mundus è il
kovsmo~. Una morte innaturale
per espiare un peccato innaturale. Le novae leges (v. 319) imposte da
Argo significano regressione nel caos. Lo scopo era ignobile:"raptor externi
rediturus auri" (v. 613), per tornare impossessatosi dell'oro straniero.
Il coro chiede agli dèi di graziare Giasone che è partito iussus (v.
669). E' la mancanza di entusiasmo per l'impresa, l'
ajmhcaniva delle Argonautiche.
Quarto atto.
I preparativi della madre furente che medita un maius monstrum (v.
676), una mostruosità colossale, spaventano la nutrice. La sposa tradita con una
ragazza più giovane e bella diventa la belva peggiore:"nulla non melior fera
est" afferma, nell' Hercules Oetaeus (vv. 233 sgg.), la nutrice di
Deianira che ha visto Iole risplendere qualis innubis dies (v. 239).
La moglie di Ercole accusa il tempo che passa e i parti, quali cause della
decadenza della forma. "Quidquid in nobis fuit/olim petitum, cecidit
et partu labat (vv. 388-389), tutto quello che una volta in noi era
desiderato, è caduto e con il parto vacilla.
E' questo secondo motivo che porta la madre a odiare i figli? Si pensi al
caso di Cogne e a quello più recente di Lecco.
Intanto Medea, racconta la nutrice, chiede i veleni al cielo poiché quelli
terreni non le bastano: coelo petam venena (v. 692). In Medea c'è, come
in Oedipus e in Otello il darsi animo:"Iam iam tempus est/aliquid
movere fraude vulgari altius " (vv. 693-694), oramai è già
tempo di scuotere qualche cosa di più alto che un artificio volgare.
Quindi la maga ammucchia le erbe più velenose per farne un impasto letale.
La scelerum artifex (734) mescola alle erbe mortali, bava di
serpenti e pezzi di uccelli di cattivo augurio.
Medea torna in scena e rinnova la preghiera nera alle forze del male: il
Chaos coecum , i criminali del Tartaro, Ecate pessimos induta
vultus (751). Il mondo deve cadere nella confusione:" pariterque mundus
lege confusa aetheris/et solem et astra vidit (vv. 757-758), e il
mondo, confusa ogni legge del firmamento, ha visto contemporaneamente il sole e
la luna.
La
confusione dell' incesto di Edipo è stata portata a livello cosmico: di nuovo
Mutatus ordo est, sed nil propria iacet;/ sed acta retro cuncta ( Oedipus,
vv. 366-367), è mutato l'ordine naturale e nulla si trova al suo posto; ma tutto
è invertito.
Cfr.
Timone d'Atene: "All's obliquy;/there's nothing level in our cursed
natures/but direct villainy" (IV, 3), tutto è distorto; nulla è in sesto
nella nostra natura maledetta, se non la diretta scelleratezza.
Medea,
al pari di Erichto della Pharsalia è congiurata con il Caos "innumeros
avidum confundere mundos" (VI. 696), avido di confondere innumerevoli
mondi.
Il Leitmotiv di Ecate, la dea infernale prediletta da Medea. Compare
anche tra le streghe del Macbeth quale signora dei loro incantesimi
(III, 5).
La maga ferisce se stessa per prefigurare l'assassinio dei propri figli. Il
veleno della veste e il fuoco prometeico dei monili. La sfrontata Hecate
accoglie l’ultima invocazione con tre latrati:"ter latratus/audax Hecate
dedit " (vv. 840-841). Quindi Medea invia con i doni funesti i figli, nati
da madre maledetta: :"Ite, ite, nati, matris infaustae genus " (v. 845).
La parola "madre" si capovolge: da rassicurante diviene la più inquietante. Le
Coefore di Eschilo e il Faust di Goethe. Joyce, Shakespeare,
Seneca, e l'annientamento dei rapporti familiari. Noverca è la
Fedra di Seneca, e pure Livia, l'ultima moglie di Augusto. Il coro
deplora l'ira di Medea il cui volto si trascolora (vv. 856-859), come la
fiamma-arcobaleno nell'Oedipus (vv. 314 sgg.). Ira e amore hanno
sconvolto l'anima di Medea. Quanto all'amore distruttivo, si pensi alla dira
cuppedo, la brama tremenda, del De rerum natura (IV, 1084-1090): essa
fa bruciare il petto in modo terribile in quanto la voluptas è admixta,
mescolata di dolore.
Quinto atto.
La morte del re e della figlia:"Gnata atque genitor cinere permixto iacent".
(v. 880). Il crimine come la peste sconcia le persone e confonde le identità.
Sono stati presi dalla consueta frode "qua solent reges capi:/ donis" (v.
881-882). Come Policrate di Samo dunque attirato in un tranello da Orete satrapo
di Sardi: iJmeivreto ga;r crhmavtwn megavlw"
( Erodoto III, 123). Come Ciro il Vecchio e Dario di Persia.
Euripide attribuisce l'errore piuttosto alla vanità femminile di Creusa la
quale provava ribrezzo per i figli di Medea, ma vedendo i doni non si trattenne
: wJ" ejsei'de kovsmon, oujk hjnevsceto,
Medea, v. 1156.
Medea
non vuole fuggire ma assistere a nozze inaudite: nuptias specto novas!
(v. 894). Il nuovo, l'inaudito solletica il gusto di questa società decadente.
Le incognitae libidines di Messalina.
Medea
vuole abolire ogni fas e pudor, valori forti:" fas omne cedat,
abeat expulsus pudor", (v. 900), ogni legge divina sparisca, se ne
vada cacciato via il ritegno. I delitti compiuti fino a quel momento sono
stati atti di pietas in confronto alle azioni che Medea sta per
compiere:"quidquid admissum est adhuc,/ pietas vocetur!"(vv.
904-905). La pietas è sovvertita.
Medea raggiunge la pienezza della propria identità attraverso i delitti:
Medea nunc sum; crevit ingenium malis (v. 910). Deianira nell' Hercules
Oetaeus la prende come modello per superarla.
Medea si vanta di essere una professionista del crimine:"Ad omne facinus
non rudem dextram afferes "( v.915) ad ogni delitto spingerai
una destra non inesperta, dice a se stessa.
Il tovpo~ della mano
dell'assassino: le Coefore, la Fedra e l'Hercules
furens di Seneca, il Macbeth.
A Paratore la chiusa dell' Hercules furens con l'offerta
dell'ospitalità da parte di Teseo ricorda quella di La donna del mare di
Ibsen. Io direi piuttosto che il Giasone di Euripide il quale fa quanto
ritiene più conveniente (Medea v. 876:
dra'/ ta; sumforwvtata) è
confrontabile con i personaggi di Ibsen, obbedienti alla logica del mercato
secondo Alonge. Nella Donna del mare Hilde è una adolescente ma ragiona
già in base al computo dei soldi. La sorella le chiede all'improvviso se
accetterebbe una eventuale proposta di matrimonio di Lyngstrand, e Hilde è
prontissima a ribattere:"Per carità! Non ha un soldo. Non ha da vivere nemmeno
per se solo"[110].
In ogni caso, afferma Teseo: quod quisque fecit patitur (Hercules
furens, 735). E' la legge del contrappasso già formulata da Esiodo (Opere,
265) e da Eschilo (Agamennone, 1562-1565).
La reputazione. Le due vie della rinomanza: quella di Medea, violenta con i
nemici (Medea di Euripide: barei'an
ejcqroi'", 807) e
quella di Alcesti, ottima sposa: gunh; t j
ajrivsth tw'n uJf j hJlivw/, makrw'/ ( Alcesti, v. 151), la
migliore sotto la luce del sole, di gran lunga.
La Fama, dea foeda . Nella Civiltà di vergogna (Dodds) il bene
supremo sta nel possesso della timhv,
della pubblica stima. Invece Socrate nel Critone e il dottor Stockmann di
Un nemico del popolo di Ibsen non si curano dell'opinione dei più.
Medea non gode di buona fama: nell' Epodo 16 di Orazio è l'
impudica Colchis.
Medea è combattuta (cor fluctuatur, v. 943 con metafora marina)
ma la parte emotiva predomina su quella razionale. Se i figli sono innocenti lo
era anche il fratello bambino:" sunt innocentes: fateor: et frater fuit "
(v. 925), sono innocenti, lo ammetto: anche mio fratello lo era.
Il dolor l'odium e l'ira prevalgono, la pietas
soccombe: ira, qua ducis , sequor, v. 953.
Kai; manqavnw me;n oi|a dra'n mevllw
kakav,-qumo;" de; kreivsswn tw'n
ejmw'n bouleumavtwn,-o{sper megivstwn ai[tio" kakw'n brotoi'"" ( vv.
1078-1080), capisco quale abominio sto per compiere, ma più forte dei miei
ragionamenti è la passione che è causa dei mali più grandi per i mortali", dice
la Medea di Euripide nel quinto episodio dopo avere preso la decisione folle di
uccidere i figli.
In quella di Seneca appare la turba Furiarum impotens (v. 958), la
folla scatenata delle Furie. Poi l'ombra del fratello chiede vendetta, e Medea
risponde ammazzando il primo figlio: victimā manes tuos/ placamus istā
(v. 970-971).
Alla donna sembra di avere recuperato il regno e la verginità: rediēre regna!
rapta virginitas redit! (v. 984). Quindi arriva Giasone, e la madre
assassina pregusta una voluptas magna: il marito si è aggiunto quale
spectator : deerat hoc unum mihi/, spectator iste (vv. 992-993).
Medea, dandosi animo, si drammatizza. Giasone che prima non ha avuto la dignità
prometeica di rivendicare la sua scelta, soltanto ora, per salvare un figlio,
supplica la donna abbandonata dichiarandosi colpevole lui solo: si quod est
crimen, meum est (v. 1004). E tuttavia cerca delle scuse:"
Per numen omne, perque communes fugas,/torosque, quos non nostra violavit fides,/iam
parce nato! "
(vv. 1002-1004), per tutti gli dèi, per l'esilio comune, per i letti
coniugali che non è stata la mia fedeltà a oltraggiare, risparmia almeno questo
figlio!
Medea affonda le armi nella ferita dell'uomo. Se c'è ancora qualche residuo di
figlio in me, afferma "scrutabor ense viscera, et ferro extraham" (v.
1013), frugherò con la spada le viscere e lo estrarrò con il ferro. Un topos
gestuale estremo per significare il rifiuto della maternità.
Quindi uccide il secondo bambino, ma adagio, per accrescere il dolore di
Giasone: perfruere lento scelere; ne propera, dolor! (1016). La missione
è compiuta: bene est: peractum est (v. 1019). Medea è diventata quello
che è: coniugem agnoscis tuam? (1021).
Poi Medea sparisce su un carro alato.
Sentiamo le sue ultime parole :"Misereri iubes./ Bene est:
peractum est. Plura non habui, dolor,/quae tibi litarem. Lumina huc
tumida adlěva,/ingrate Iason! Coniugem agnoscis tuam?/Sic fugere soleo. Patuit
in coelum via:/squamosa gemini colla serpentes iugo/summissa praebent. Recipe
iam gnatos, parens;/Ego inter auras aliti curru vehar" (vv. 1018-1025),
mi chiedi di avere pietà. Va bene: la missione è compiuta. Non avevo altre
vittime da sacrificarti, tormento. Solleva qua gli occhi gonfi, ingrato Giasone.
Riconosci tua moglie? Di solito fuggo così: La via è aperta verso il cielo: due
draghi sottomettono i colli squamosi al giogo. Ora riprenditi i figli, padre; io
andrò per l'aria con il carro alato.
Il padre
privato dei figli chiude la tragedia gridando all'assassina di attestare che per
dove passa non esistono gli dèi:" per alta vade spatia sublimi aetheris,/
testare, nullos esse, qua veheris, Deos" (v.1026-1027), va' per gli alti
dell'etere sconfinato, attesta che dove tu passi non ci sono gli dèi.
"E'
l'antiapoteosi finale"[111].
Il suum esse del De brevitate vitae[112]
è rivendicato da Medea in tutta la tragedia:" In questa rapina rerum omnium
(Marc . 10, 4), che ingigantisce su scala cosmica l'instabilità della
condizione politica, resta come unico punto fermo, come unico bene inalienabile
il possesso della propria anima" afferma Traina[113].
Medea reagisce come un eroe omerico e sofocleo. Due saggi di B. M. Knox.
(al v. 403). Il disonore del letto scatena le ardite femmine spietate (vv.
407-408). Anche la Didone di Virgilio ha orrore della derisione.
Pindaro: Pelope (Olimpica I) e un Giasone (Pitica IV) eroico,
molto diverso da quello di Euripide e da quello di Apollonio Rodio. I Carracci.
Gli eroi, maschi e femmine, sono avidi di gloria.
Altre giovani eroiche: Antigone, Alcesti, Macaria.
Nell'esodo
della tragedia, Giasone riconosce l'indole ferina dell'assassina che ha
ammazzato i loro figlioli apostrofandola come "leonessa" (v. 1342) ed
echeggiando il "divpou"
levaina", bipede leonessa con cui nell'Agamennone di Eschilo (v.
1258), Cassandra individua Clitennestra, la moglie adultera e omicida. A una
leonessa di montagna ("ojreiva
ti" wJ" levain j" ) viene paragonata Clitennestra che si muove a compiere
la strage dal Coro nel quarto Stasimo dell'Elettra di Euripide (v. 1163).
Giasone
privato della prole aggiunge una maledizione con epiteti che caratterizzino la
donna in maniera del tutto negativa:" e[rr
j, aijscropoie; kai; tevknwn miaifovne" (Medea, v. 1346), vattene
in malora, autrice di nefandezze e macchiata del sangue dei figli!
Ella
risponde come un eroe omerico per il quale il dolore più grande è non ricevere
l'onore (timhv) dovuto al suo valore (ajrethv):"su;
d j oujk e[melle", ta[m j ajtimavsa" levch-terpno;n diavxein bivoton, ejggelw'n
ejmoiv" (vv. 1354-1355), tu non dovevi, disonorato il mio letto, vivere
una vita felice irridendomi.
Medea
inorridisce all'idea di essere ridicolizzata per lo smacco del letto e
preferisce essere conosciuta quale artefice di mali estremi piuttosto che come
amante rifiutata.
Il motivo
della paura della derisione è presente anche nell'Antigone dove
la ragazza protagonista, pur del tutto diversa da Medea, scambia le espressioni
consolatorie del Coro per parole canzonatorie della sua infelicità, e offensive
della sua persona, quindi dice:" :"Ahimé sono derisa (oi[moi
gelw'mai). Perché, per/gli dei patrii,/non mi oltraggi quando sono
sparita,/ma mentre sono visibile?" (vv. 839-841). Antigone ha un altro aspetto
del carattere di Medea e di Achille : non cede[114].
Quando Ismene le fa notare : "tu hai il cuore caldo per dei cadaveri gelati" (v.
88), risponde : " ajll j oi\d j ajrevskous
j oi|" mavlisq j aJdei'n me crhv" (Antigone, v. 89), ma so di
essere gradita a quelli cui soprattutto bisogna che io piaccia" . L'eroe
tragico di Sofocle è un uomo (come Aiace, come Edipo) o una donna, o
piuttosto una ragazza, come Antigone, come Elettra[115],
comunque una persona di statura eroica "che, senza l'aiuto divino e contro
l'opposizione degli uomini, prende una decisione che scaturisce dallo strato
più profondo della sua natura individuale, della sua physis, e in
seguito la mantiene ciecamente, con ferocia ed eroismo, anche fino alla propria
distruzione… In sei delle tragedie superstiti (ad eccezione naturalmente delle
Trachinie ) l'eroe si trova di fronte a una scelta tra la rovina
possibile (o sicura) e un compromesso che, se lo accettasse, tradirebbe il
concetto che egli ha di se stesso, dei suoi diritti e doveri. L'eroe decide
contro il compromesso, e questa decisione viene poi oppugnata, dal consiglio
degli amici, con le minacce, addirittura con la forza. Ma l'eroe rifiuta di
cedere; egli rimane fedele a se stesso, alla sua physis , quella
"natura" che ha ereditato dai genitori e che costituisce la sua identità. Da
questa risoluzione deriva la tensione drammatica di tutte e sei le tragedie:
dalla risoluzione di Aiace di morire piuttosto che sottomettersi,
dall'incrollabile fedeltà di Antigone al fratello morto, da quella di
Elettra a suo padre, dall'amaro rifiuto di Filottete di recarsi a
Troia, dall'ostinata insistenza di Edipo a Tebe per conoscere tutta la
verità, prima sull'assassinio di Laio e poi su se stesso, e dalla volontà del
vecchio Edipo di farsi seppellire su suolo attico. In ciascun dramma l'eroe è
assoggettato a pressioni da ogni lato (...) Antigone deve affrontare la
fraterna insistenza di Ismene, le minacce di Creonte, la violenta
disapprovazione del coro, l'imprigionamento in una tomba e la mancanza di
qualunque segno di approvazione da parte di quegli dèi di cui è paladina (...)
E tutti resistono saldamente alla massiccia pressione della società, degli
amici e dei nemici. Per descrivere nel modo migliore l'eroe sofocleo e la
sua situazione, si pensi alla meravigliosa immagine che nell'ultima tragedia
paragona il vecchio cieco a un "promontorio nel Nord, con le onde tempestose che
lo battono da ogni direzione"(Oed. Col. , 1240-1). Come lo
scoglio, l'eroe sostiene i colpi della bufera e rimane incrollabile"[116].
Sofocle dunque:" dimentica l'adattamento eschileo dello spirito eroico alle
condizioni della polis , e fa ritorno ad Achille che, irriconciliabile,
siede corrucciato nella sua tenda. Nei suoi eroi che affermano la forza
della loro natura individuale contro i loro simili, la loro polis e
perfino i loro dei, egli ricrea, in una comunità che ora è ancor più
avanzata socialmente e intellettualmente di quella di Eschilo, la solitudine,
il terrore e la bellezza del mondo arcaico"[117].-
Di questo terrore e di questa bellezza arcaica presenti in Omero e in Sofocle
c'è molto pure nella nostra Medea.
Infatti in
un altro scritto B. M. W. Knox sottolinea la "rappresentazione in termini
eroici di una moglie straniera e ripudiata" assimilando la Medea di
Euripide soprattutto agli eroi sofoclei, e in modo particolare ad
Aiace : "Sia Aiace sia Medea temono più di ogni altra cosa al mondo lo
scherno dei loro nemici (...) Medea è presentata al pubblico nello stile e nel
linguaggio inconfondibile di un eroe sofocleo (...) Il suo più grande
tormento è il pensiero che i suoi nemici rideranno di lei (gelos 383
ecc.): come gli eroi sofoclei maledice i propri nemici (607 ecc.) mentre
progetta la vendetta (...) Come un eroe sofocleo, resiste tanto agli inviti alla
moderazione quanto ai duri richiami della ragione (...) Questa
rappresentazione...deve avere messo un po' a disagio il pubblico che la vide per
la prima volta nel 431 a. C. Gli eroi, questo si sapeva, erano creature violente
e, dal momento che vivevano e morivano secondo la semplice regola 'aiuta i tuoi
amici e fa del male ai tuoi nemici' era prevedibile che le loro vendette, quando
si fossero sentiti trattati ingiustamente, disonorati, offesi, fossero immense e
mortali. I poemi epici non mettono mai in discussione il diritto di Achille di
portare distruzione nell'armata greca per vendicare l'assalto di Agamennone né
il massacro dell'intera giovane generazione dell'aristocrazia di Itaca compiuta
da Ulisse. L'Aiace di Sofocle non vede niente di sbagliato nel proprio tentativo
di uccidere i comandanti dell'armata per avergli negato le armi di Achille; in
lui la vergogna nasce semplicemente dall'aver fallito il suo tentativo
sanguinario. Ma Medea è una donna, una moglie e una madre, e per di più una
straniera. Inoltre si comporta come se fosse una combinazione tra la nuda
violenza di Achille e la fredda astuzia di Ulisse e, quel che è più
importante, è in questi termini che le parole del dramma di Euripide ce la
presentano. 'Nessuno deve considerarmi un'incapace' ella dice 'o un debole o
una persona mite. Altro è il mio carattere: violenta con i nemici e con gli
amici buona. Quelli che si comportano così hanno la vita più gloriosa.' (807
ss.). E' il credo secondo cui vivono e muoiono gli eroi di Omero e di Sofocle[118]
".
La Medea
delle Heroides di Ovidio compensa la probabile derisione che subisce
dalla stulta pelex di Giasone con le lacrime che Creusa, la nuova ganza,
dovrà presto versare: “Quos ego servavi, pelex amplectitur artus/et nostri
fructus illa laboris habet./Forsitan et stultae dum te iactare maritae/quaeris
et iniustis auribus apta loqui,/in faciem moresque meos nova crimina fingas,/rideat
et vitiis laeta sit illa meis!/ rideat
et Tyrio iaceat sublimis in ostro/flebit et ardores vincet adusta meos!”
(XII, 177-182), le membra che io ho salvato, le abbraccia la ganza, ed ella
tiene i frutti della nostra fatica. Forse mentre ti vanti davanti alla stupida
sposa, e cerchi parole adatte da dire a quelle orecchie ingiuste, inventi nuove
accuse contro il mio aspetto e i miei costumi, rida quella e sia lieta dei miei
difetti! rida pure e si stenda superba sulla porpora tiria: piangerà e supererà
bruciata il mio ardore!
L’orrore della derisione è uno dei motivi, e non l’ultimo del suicidio di
Didone abbandonata da Enea
“En quid ago? Rursusque procos inrisa priores
experiar Nomadumque petam conubia supplex,
quos ego sim totiens iam dedignata maritos ? » ( Eneide, IV, vv.
534-536), ebbene che cosa faccio? Tornerò indietro derisa a provarci con i miei
pretendenti di prima e chiederò supplicando le nozze dei Nomadi, quelli che io
già tante volte ho sdegnato come mariti?
La Fedra
di Euripide, dopo la tirata antifemminista di Ippolito sdegnato per la
rivelazione della nutrice si addolora anche perché dovrà morire non più onorata
: “toiga;r oujkevt j eujklei'~-qanouvmeq j”
(Ippolito, vv. 687-688).
Atteggiamenti simili del resto non mancano in personaggi di scrittori
successivi.
Il
disonore della donna è spesso quello del letto: un uomo a lei gradito già
la disonora se non fa l'amore con lei, e la disonora due volte se lo fa con
un'altra. Tant'è vero che le "ardite femmine spietate"[119]
di Lemno uccisero tutti i maschi dell'isola per l'ira tremenda di Cipride,
causata dal fatto che i mariti da lungo tempo non rendevano più gli onori loro
dovuti (Argonautiche, I, 615). Esse ammazzarono non solo i consorti e le
loro amanti, le schiave tracie[120],
ma ognuno che fosse maschio. Solo Issipile risparmiò il vecchio padre, il re
Toante. Orfeo fu fatto a pezzi dalle
donne dei Ciconi[121]
offese dalla sua fedeltà a Euridice (Georgica IV, 520), ossia dal fatto
che le trascurava.
Achille
dunque smette di combattere facendo così morire i suoi compagni e addirittura il
suo miglior amico; Medea ammazza i figli. Quando Giasone le domanda: hai
ritenuto giusto ucciderli per il letto ("levcou"...ou[neka",
v. 1367)?, la madre oltraggiata risponde:"smikro;n
gunaiki; ph'ma tou't j ei\nai dokei'";"
(v. 1368), pensi che questa sia una sciagura piccola per una donna?
Anzi, è
tanto grande che Medea, per contrappesarla adeguatamente, decide di infliggerne
una altrettanto grande a chi gliel'ha inflitta, ammazzando i figli, pur a lei
cari.
Achille e Medea hanno in comune il "non cedere" eroico come abbiamo visto.
L'eroe non fa niente che non stimi degno della sua natura: Achille ,
cedere nescius
[122], non si lascia fermare da
niente e il Bruto Minore di Leopardi prima di suicidarsi proclama :"
Guerra mortale, eterna, o fato indegno,/teco il prode guerreggia,/ di cedere
inesperto"(vv. 38-40).
L’eroe è
dotato di una virtù particolare: “esiste una virtù particolare, che altro non
è se non la fedeltà assoluta alla nostra natura, al nostro destino e alle nostre
inclinazioni”[123].
Medea, al pari di Achille, non si perita di mandare in rovina amici e nemici
quando si tratta di salvare il proprio onore.
Quando
Giasone in uno degli ultimi versi (1396) li invoca:" o figli carissimi", Medea
replica :"alla madre sì, a te no"; allora il padre domanda:"e poi li hai
uccisi?", e l'infanticida risponde:"Per tormentare te" (v. 1398).
Si tratta
di una difesa dell'identità a tutti i costi.
Medea come
Achille, come Antigone, non indietreggia nemmeno davanti alla rovina estrema. E
non giunge a quella rassegnazione alla quale, a detta di Schopenhauer, la
tragedia dovrebbe condurre, come abbiamo visto nell'introduzione.
Apollonio
Rodio attribuisce alla sua Medea adolescente qualche cosa di odissiaco quando le
riconosce la ejpivklopo" mh'ti"
(3, 912), la scaltra intelligenza. Durante la visita ad Afrodite, Era
riconosce a Medea l’astuzia (ejpei;
dolovessa tevtuktai, 3, 89) necessaria per aiutare Giasone a superare
le difficili prove. Di nuovo una qualità di Odisseo.
Didone in
procinto di essere abbandonata da Enea soffre pensando di essere derisa dai
pretendenti rifiutati prima:"En quid ago? rursusne procos inrisa priores/
experiar…?" (Eneide, IV, 534-535), ora che cosa faccio? a mia volta
farò tentativi, derisa, con i pretendenti di prima?
Vittorio
Alfieri durante il suo secondo soggiorno a Parigi (nel 1771) avrebbe
“facilmente potuto vedere ed anche trattare il celebre Gian-Giacomo Rousseau”.
Ma non volle: “non mi volli piegar mai a quella dubbia presentazione ad un uomo
superbo e bisbetico, da cui se mai avessi ricevuta una mezza scortesia gli
n’avrei restituite dieci, perché sempre così ho operato per istinto ed impeto di
natura, di rendere con usura sì il male che il bene. Onde non se ne fece
altro” ( Vita, 3, 12).
Creonte
nell’Antigone alfieriana accusa il figlio Emone di non
contraccambiare, ingratamente, il suo amore di padre, amando una ragazza, la
cugina Antigone appunto, che minaccia il suo potere regale e lo deride. Sentiamo
le parole del tiranno tebano: “Al mondo cosa/non ho di te più cara… Amarti
troppo/è il mio solo delitto… E tal men rendi/tu il guiderdone? ed ami, e
preghi, e vuoi/salva colei, che il mio poter deride;/che me ne dispregia,
e dirmel osa; e in petto/cova del trono ambizïosa brama?/di questo trono, oggi
mia cura, in quanto/ei poscia un dì fia tuo” (3, 1, vv. 74-82).
Creonte vorrebbe come compenso (guiderdone) che il figlio gli togliesse due
paure di fondo: quella di essere deriso e quella di venire esautorato.
Questa è ovvia in chi detiene il potere, qualsiasi potere, soprattutto nel
tiranno
Il
timore della derisione sociale per la donna dipende dal comportamento del
compagno che si è scelto o l'ha scelta, anche se costui non la offende
direttamente: nel caso di Madame Bovary deriva dalla goffaggine e
l'importunità del marito:"Temo che i sottopiedi mi daranno fastidio nel
ballare", disse lui. "Ballare?" disse Emma. "Sì!" "Ma tu hai perduto la
testa! Farai ridere tutti, sta' tranquillo al tuo posto. Del resto,"
aggiunse, " è quello che si addice di più a un medico"[124].
Ma
torniamo alla poesia greca.
Nell'Iliade
il compenso che il prode si aspetta in cambio dell' ajrethv dimostrata obbedendo
agli obblighi del suo rango e della sua identità eroica, impegnativi fino al
sacrificio, è un riconoscimento in termini di onore: la
timhv negata è una tragedia per il
valoroso che si è distinto in battaglia: Achille rifiuta di combattere solo
quando constata che l'uomo codardo e il valoroso sono tenuti nello stesso
onore:" ejn de; ijh'/ timh'/ hjme;n kako;"
hjde; kai; ejsqlov""[125].
Sua madre infatti implora Zeus di onorargli il figlio:"tivmhsovn
moi uiJovn"[126],
onora mio figlio-prega-, poiché è di vita più breve degli altri, e il signore di
genti Agamennone lo disonorò ("hjtivmhsen"[127])
: gli ha preso il suo dono e lo tiene.
L'Aiace di
Sofocle si uccide poiché non sopporta di vivere a[timo" ( Aiace, v. 427 e
v. 440), senza onore.
Petrarca
teme la derisione del demonio:” Vergine, ma ti prego-che ‘l tuo nemico del
mio mal non rida” ( Canzone 39, ultimo componimento: 366)
Giunto[128]
di fronte a lei che credeva sola, Absirto la saggiava con le parole, come fa un
bambino delicato (ajtalo;~ pavi~,
Argonautiche; IV v. 460) con un torrente invernale che neppure forti
guerrieri si azzardano ad attraversare. Cfr. l’ambiguità del linguaggio.
Le parole talvolta non giungono all’animo, forse nemmeno all’orecchio di chi
sembra ascoltare. Talora il parlare dell’uomo non è più espressivo del
rumorìo di un torrente. Talora invece nelle nostre solitudini immense ci
illudiamo che i rumori della natura siano persone che ci parlano: “Non era
dunque il soldato che canterellava, non un uomo sensibile al freddo, alle
punizioni e all’amore, ma la montagna ostile. Che triste sbaglio, pensò
Drogo, forse tutto è così, crediamo che attorno ci siano creature simili a
noi e invece non c’è che gelo e pietre che parlano una lingua straniera,
stiamo per salutare l’amico ma il braccio ricade inerte, il sorriso si spegne,
perché ci accorgiamo di essere completamente soli”[129].
18 maggio 2014 Giovanni Ghiselli
[97] S. Mazzarino, L’impero romano, 1, p. 225.
[98] R. Andreotti, Classici elettrici, p. 61
[99] Suddivisione di un verso tra due personaggi.
[100] George Uscatescu, Seneca e la tradizione del
teatro di sangue, "Dioniso" 1981, p., p. 387.
[101] Antonio e Cleopatra (del 1606-1607) , III,
13.
[102] Cfr. Cicerone, De officiis, I, 23.
[103] Livio, 5, 28, 13.
[104] Catullo 64. La slealtà di Teseo si ritorcerà
contro di lui.
[106] La protagonista eponima del romanzo Di T. Hardy.
[107]
Eschilo, Persiani, vv. 745-750.
[108] G. B. Conte, op. cit., p. 353.
[109] G. Biondi, Il mito argonautico nella Medea.
Lo stile 'filosofico' del drammatico Seneca, "Dioniso" 1981, p. 440
[110] III.
[111] G. G. Biondi, Seneca Medea Fedra, p. 165.
[112] "Ille illius cultor est, hic illius: suus
nemo est ", 2, 4, , quello è dedito al culto di quello, questo di
quello, nessuno appartiene a se stesso.
[113]Lo stile "drammatico" del filosofo Seneca
, p. 13.
[114] Cfr "ouj
lhvxw "
Iliade
, XIX, 423.
[115] La quale dice:"mhvt'
ei[hn e[ntimo" touvtoi" " (Elettra, v. 239), non voglio
essere stimata da costoro.
[116]Bernard M. Knox, L'eroe sofocleo in La
tragedia greca. Guida storica e critica , (a cura di C. R. Beye), p.
80-81.
[117]B. Knox, op. cit., p. 85.
[118]B. Knox, The Medea of
Euripide , in "Yale Classical Studies", 28, 1977, trad. it. in
Medea , a c. di L. Correale, Milano, 1995.
[119] Dante, Inferno, XVIII, 89.
[120] Cfr. l'elogio degli amori ancillari di Gozzano
[121] Abitavano in Tracia, alle foci dell'Ebro.
[122]
Orazio, Odi , I, 6, 5- 6:" gravem /Pelidae
stomachum cedere nescii ", la funesta ira di Achille incapace di
cedere. Cfr. la scheda successiva al v. 112.
[123] S. Màrai, La recita di Bolzano, p. 97.
[126]Iliade
, I, 505
[127]Iliade ,
I, 507
[128] La scena è ambientata in una delle isole Brigie
che appartengono all’arcipelago liburnico.
[129] Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, p.
83.
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