quinta parte del Percorso sull’amore nei classici
La volontà di ordine a tutti i costi.
Il desiderio maniacale di ordine deriva da
viltà e povertà di cuore ed è al tempo stesso desiderio di morte.
Il sadismo.
Leopardi, Kundera e Fromm.
Il desiderio della procreazione senza la
donna: Ippolito, Giasone della Medea, Rodomonte dell' Orlando
Furioso.
L'innamorato, da Catullo in
avanti, è miser.
l'Adamo di Milton. Il Dio della Genesi
crea da solo, senza la femmina.
Catone il vecchio di Livio e la paura della
donna.
La buona moglie casalinga, silenziosa, non
truccata. Esiodo, Senofonte, Svevo, Euripide: l'Andromaca delle Troiane.
Il diario del seduttore di Kierkegaard. La fanciulla del Dyscolos di
Menandro. La verbosità femminile esecrata dagli uomini.
I sette a Tebe
di Eschilo e l'Aiace di Sofocle. Steiner, Giovenale e Ben Jonson. Polibio.
Di nuovo Euripide con Andromaca personaggio dell' Andromaca e Senofonte.
Lucrezio e la muliercola virtuosa. La bisbetica domata e Paolo
l'apostolo.
Il terrore della prepotenza femminile pervade
diverse tragedie della letteratura greca. La donna ateniese, se non contava
nulla nella vita politica e cittadina, era di sicuro una presenza incombente sui
figli, soprattutto sui maschi con i quali cercava una rivalsa:"il ripudio e il
disprezzo delle donne significa il ripudio e il disprezzo della
domesticità-della vita domestica e familiare, e quindi anche dell'allevamento
dei bambini. Il maschio adulto ateniese rifuggiva dalla casa, ma ciò significava
che il bambino ateniese cresceva in un ambiente dominato dalle donne"[1].
E' l'eterna paura che l'uomo, soprattutto chi
ha avuto una madre autoritaria e molto presente, ha della donna:" quanto più
l'uomo imprigiona la donna in casa e frequenta altri luoghi, tanto più
schiacciante è il potere della donna fra le mura domestiche. La posizione
sociale delle donne e la loro influenza psicologica sono dunque due cose del
tutto distinte. Il disprezzo del maschio greco per le donne non solo era
compatibile, ma anzi indissolubilmente legato alla paura di esse, e al tacito
sospetto dell'inferiorità maschile. Altrimenti perché sarebbero state necessarie
misure così estreme? Le usanze come quella che una moglie non doveva essere più
vecchia del marito, o di posizione sociale superiore, o più colta, o in una
posizione di autorità, tradiscono la convinzione che gli uomini non sono in
grado di competere con le donne a livello di parità; le carte vanno prima
truccate, l'uomo deve ricevere un vantaggio"[2].
Lo aveva già detto Marziale (40 ca-104 d.C.)
nella clausula di un suo epigramma:"
Inferior matrona suo sit , Prisce, marito:/non aliter fiunt femina virque pares
" (VIII, 12, 3-4), la moglie, Prisco, stia sotto il marito: non altrimenti
l'uomo e la donna diventano pari.
Sentiamo una ripresa dostoevskijana di questo
topos: “Ma non è forse vero che voi,” lo interruppe di nuovo Raskolnikov, con
una voce tremante d’ira in cui si sentiva il gusto di offendere, “non è forse
vero che alla vostra fidanzata…proprio nel momento in cui ricevevate il suo
consenso…voi avete detto che più di tutto eravate lieto che fosse povera…perché
è più vantaggioso togliere la moglie dalla miseria in cui vive, per poi poterla
dominare…e poterle rinfacciare d’averla beneficata?”[3].
Espressioni di paura della donna e
risentimento contro di lei si trovano, oltre che nella Medea , nell'Antigone
, nell'Ippolito e nella Genesi .
Tra i moderni vedremo qualche cosa nell'Ariosto
e nel Milton.
Torniamo all'Antigone e sentiamo il
despota Creonte :"Così bisogna difendere l'ordine,/e in nessun modo
lasciarsi superare da una donna./Infatti è meglio, se proprio bisogna, cadere
per mano d'uomo/e non dovremmo mai lasciar dire che siamo inferiori alle donne (
gunaikw'n h{ssone" )" (vv. 676-679).
Il tiranno dell'Antigone
è un maniaco della disciplina (peiqarciva,
v. 675) e dell'ordine. Ebbene nella tragedia di Sofocle l'ordine voluto dal
despota che ha terrore dell'anarchia, vista come il male più grande (
ajnarciva" de; mei'zon oujk e[stin kakovn,
v. 671) consiste nella sottomissione dei sudditi al suo editto che prescrive
l'incuria e il conseguente sconciamento di un cadavere. Ogni ribellione gli è
insopportabile, ma sopra tutte quelle che vengono da una donna, che poi è una
ragazza, è sua nipote, ed è la fidanzata di suo figlio Emone.
Altri autori
hanno smontato la volontà di ordine a tutti i costi, quale espressione del
carattere autoritario che non è capace di rapporti alla pari.
Troviamo un' interpretazione malevola dei
fanatici dell'ordine nello Zibaldone di Leopardi:" Sono
moltissimi che amano, predicano, promuovono, ed esercitano esclusivamente la
giustizia, l'onestà, l'ordine, l'osservanza delle leggi, la rettitudine,
l'adempimento de' doveri verso chi che sia, l'equa dispensazione de' premi e
delle pene, la fuga delle colpe; ma ciò non per virtù, né come virtù, non per
finezza o grandezza o forza o compostezza d'animo, non per inclinazione, non per
passione, ma per viltà e povertà di cuore, per infingardaggine, per inattività,
per debolezza esteriore o interiore, perché non potendo (per debolezza) o non
volendo (per pigrizia) o non osando (per codardia) né provvedersi né difendersi
da se stessi, vogliono che la legge e la società vegli p. loro, e provvegga loro
e li difenda senza loro fatica...." (3316).
M. Kundera deride o biasima la
mania dell'ordine che individua non tanto nei tiranni quanto nei loro sgherri:"I
vecchi armati di lunghe pertiche si confondevano ai suoi occhi con i secondini
del carcere, i giudici istruttori, i delatori che spiavano i vicini per scoprire
se facevano discorsi politici quando andavano a fare la spesa. Che cosa spingeva
quelle persone alla loro sinistra attività? La malvagità? Senz'altro, ma anche
il desiderio di ordine. Giacché il desiderio di ordine vuol trasformare il mondo
umano in un regno inorganico in cui tutto marcia, funziona, è assoggettato a una
norma sovrindividuale. Il desiderio di ordine è al tempo stesso desiderio di
morte, giacché la vita è una perpetua violazione dell'ordine. Oppure, con una
formula opposta: il desiderio di ordine è il pretesto virtuoso con cui l'odio
per gli uomini giustifica i propri misfatti"[4].
Questa smania del controllo secondo Fromm
è tipica del carattere sadico:"io propongo la tesi che il nucleo del sadismo,
comune a tutte le sue manifestazioni, sia la passione di esercitare un controllo
assoluto e illimitato su un essere vivente, sia esso animale o bambino, uomo o
donna"[5].
Ma torniamo alla volontà di tenere sotto
controllo le donne, o addiritture di separarle dai maschi.
Nell'Ippolito
di Euripide, il figlio di Teseo, sdegnato con la matrigna, è talmente disgustato
e terrorizzato dalle donne, ingannevole male ("
kivbdhlon ajnqrwvpoi" kakovn ", v.
616), male grande ("kako;n mevga",
v. 627), creatura perniciosa, o, più letteralmente, frutto dell'ate[6]
("ajthrovn...futovn", v. 630) che
auspica la loro collocazione presso muti morsi di fiere (vv. 646-647) e la
propagazione della razza umana senza la partecipazione delle femmine umane. La
storia della malizia di Fedra, la quale denuncia l'amante che l'ha respinta,
contiene un motivo folclorico, forse di provenienza orientale, comunque presente
in altri testi e in altre letterature: nel VI canto dell'Iliade c'è la
storia di Bellerofonte calunniato da Antea, moglie di Preto, nella Genesi
(39, 7-20) quella della moglie di Putifarre[7].
Un desiderio
espresso anche da Giasone nella Medea :"Crh'n
ga;r a[lloqevn poqen brotou;"-pai'da" teknou'sqai, qh'lu d& oujk ei'jnai geno":
-couJvtw" aj;n oujk h'jn oujde;n ajnqrwvpoi" kakovn" (vv. 572-575),
bisognerebbe infatti che in altro modo, donde che sia, gli uomini generassero i
figli, e che la razza delle donne non esistesse, così non ci sarebbe nessun male
per gli uomini. Insomma la femmina è il male.
Nell'Orlando
furioso (1532) troviamo echi di questo risentimento contro le donne, messi
in bocca al personaggio di Rodomonte, scartato da Doralice.
Prima il"Saracin"
biasima, "catullianamente", l'instabilità e la perfidia delle donne:" Oh
feminile ingegno,-egli dicea-/come ti volgi e muti facilmente,/contrario oggetto
a quello della fede!/Oh infelice, oh miser chi ti crede!" (27, 117).
Questo miser
risale alla letteratura latina nella quale, a partire da Catullo assume il
significato di persona infelice per l'amore non contraccambiato.
Nel carme del
discidium (8), miser è la prima parola che qualifica l'autore (
Miser Catulle, v. 1) quale amante infelice poiché tradito.
Miser è
comunque chi cade vittima della passione d'amore : lo è Catullo stesso quando è
affascinato da Lesbia nel c. 51:" :"misero quod omnis
[8] / eripit sensus
mihi " (51, vv. 5-6) il che a me infelice porta via tutti i sensi.
Il poeta
potrebbe smettere di essere miser solo allontanandosi dalla donna che
ama:"Quin tu animo offirmas atque istinc teque reducis/et deis invitis
desinis esse miser? (76, vv. 11-12)
perché tu non ti irrobustisci nel carattere e non ti ritrai di qui/e non smetti
di essere infelice contro la volontà degli dei?.
Ma deporre d'un tratto un lungo amore è
difficile (difficile est longum subito deponere amorem, v.14) poiché
questo è diventato come una peste o un cancro, malattie dalle quali non si
guarisce senza l'aiuto degli dèi:"O di, si vestrum est misereri, aut si
quibus umquam/extremam iam ipsa in morte tulistis opem,/me miserum
aspicite et, si vitam puriter egi,/eripite hanc pestem perniciemque mihi,/quae
mihi subrepens imos ut torpor in artus/expulit ex omni pectore letitias" (vv.
17-22), O dei, se vostre forza è avere misericordia, o se ad alcuni mai/portaste
l'estremo aiuto già dentro la morte stessa,/guardate me disgraziato e, se ho
passato la vita senza tradire,/strappatemi questa peste e rovina,/che
strisciando, come paralisi, in fondo alle mie membra,/ha cacciato da tutta
l'anima la gioia di vivere. Pestem perniciemque in nesso allitterante
significano la rovina totale. Pernicies è imparentata etimologicamente
con neco, uccido, nex, uccisione, noceo, nuoccio, nonché
con le parole greche nekrov"
, nevku"
, morto, nevkuia,
evocazione dei morti.
L'infelicità
dell'amore deluso dunque ha la forza negativa di una malattia mortale ed è
necessario liberarsi da quel morbo deleterio , e dalla donna, per salvarsi la
vita:"Non iam illud quaero, contra me ut diligat illa,/aut (quod non potis
est) esse pudica velit;/ipse valere opto et taetrum hunc deponere morbum./O di,
reddite mi hoc pro pietate mea" (vv. 23-26) Non chiedo più quel miracolo,
che quella là contraccambi il mio affetto,/o
(cosa di cui non è capace) che voglia essere pudica;/io desidero stare bene e
mettere via questo male oscuro./O dei, datemi questo in cambio della mia
devozione.
Invero una infelicità amorosa altrettanto
grave può riguardare anche le donne poiché l'amore è sempre insidiato da
un fondo di inquietudine: chi ama è vittima della passione che lo assoggetta, e
in quanto tale è infelice
Misera è Arianna abbandonata
da Teseo (numerose sono le ricorrenze nel carme 64).
La Didone di
Virgilio, poco dopo che ha visto Enea è già "infelix pesti devota futurae"
(Eneide, I, 712), disgraziata, consacrata alla rovina imminente: infatti
dopo un altro po’ di tempo moriva " misera ante diem" (IV, 697),
disgraziata prima del suo giorno, come vedremo meglio più avanti.
Per ora
torniamo all'Ariosto. Rodomonte aggiunge il motivo esiodeo della femmina
umana imposta come punizione all'umanità maschile:"Credo che t'abbia la Natura e
Dio/produtto, o scelerato sesso, al mondo/per una soma, per un grave fio/de l'uom,
che senza te saria giocondo:/come ha prodotto anco il serpente rio/e il lupo e
l'orso, e fa l'aer fecondo/e di mosche e di vespe e di tafani,/e loglio e avena
fa nascer tra i grani" (119).
Quindi l'amante
infelice rimprovera la Natura, come Ippolito e Giasone, poiché costringe gli
uomini a mescolarsi con le donne per la riproduzione:"Perché fatto non ha l'alma
Natura,/che senza te potesse nascer l'uomo,/ come s'inesta per umana cura/l'un
sopra l'altro il pero, il sorbo e 'l pomo?/Ma quella non può far sempre a
misura:/anzi, s'io vo' guardar come io la nomo,/veggo che non può far cosa
perfetta,/poi che Natura femina vien detta"(120).
Un motivo questo
presente anche nel Paradise Lost (1658-1665) del "puritano d'incrollabile
fede"[9]
John Milton (1608-1674). In questo poema Adamo si chiede perché il
Creatore, che ha popolato il cielo di alti spiriti maschili, ha creato alla fine
sulla terra questa novità, questo grazioso difetto di natura ( this fair
defect of Nature ) e non ha riempito subito il mondo con uomini simili ad
angeli senza il femminino, o non ha trovato un altro modo per generare l'umanità
("or find some other way to generate Mankind? ", X, 888 e sgg.).
Questo
desiderio del maschio deluso è stato realizzato per sé dal Dio biblico che crea
il mondo senza alcuna presenza femminile, come fa notare Fromm: "Il
racconto non ha inizio con le parole:" In principio era il caos, in principio
era l'oscurità", bensì, "In principio Dio creò...."-dunque lui solo, il dio
maschile, senza intervento né partecipazione da parte della donna-cielo e terra.
Dopo l'interruzione di una frase in cui risuonano ancora le antiche concezioni,
il racconto prosegue:"E dio disse:"sia la luce", e la luce fu (Gn. 1, 3).
Qui in tutta chiarezza compare l'estremo della creazione solamente maschile, la
creazione per mezzo esclusivo della parola, la creazione attraverso il pensiero,
la creazione attraverso lo spirito. Non si ha più bisogno del grembo materno per
generare, non più della materia: la bocca dell'uomo che pronuncia una parola ha
la capacità di creare la vita direttamente e senza bisogno d'altro...Il pensiero
che l'uomo sia in grado di creare esseri viventi soltanto con la sua bocca, con
la sua parola, dal suo spirito, è la fantasia più contronatura che sia
immaginabile; essa nega ogni esperienza, ogni realtà, ogni condizione naturale,
spazza via ogni vincolo posto dalla natura per raggiungere quell'unico
scopo: rappresentare l'uomo come assolutamente perfetto, come colui che possiede
anche la capacità che la vita sembra avergli negato: la capacità di generare"[10].
E meno male che poi "il Signore Dio disse:"Non è bene che l'uomo sia solo: gli
voglio fare un aiuto che gli sia simile" (Genesi, 2, 23).
La paura della
donna suggerisce al Catone il vecchio di Tito Livio alcune parole
sulla necessaria sottomissione della femina al fine di tenere sotto
controllo una natura altrimenti intemperante.
Così si esprime
il censore quando parla, nel 195 a. C., contro l'abrogazione della lex Oppia
che, dal 215, imponeva un limite al lusso delle matrone[11]
le quali erano scese in piazza proprio per manifestare a favore
dell'annullamento della legge:" Maiores nostri nullam, ne privatam quidem rem
agere feminas sine tutore auctore voluerunt, in manu esse parentium, fratrum,
virorum...date frenos impotenti naturae et indomito animali et sperate ipsas
modum licentiae facturas...omnium rerum libertatem, immo licentiam
, si vere dicere volumus, desiderant " (XXXIV, 2, 11-14) i nostri antenati
non vollero che le donne trattassero alcun affare, nemmeno privato senza un
tutore, e che stessero sotto il controllo dei padri, dei fratelli, dei
mariti...allentate il freno a una natura così intemperante, a una creatura
riottosa e sperate pure che si daranno da sole un limite alla
licenza...desiderano la libertà, anzi, se vogliamo chiamarla con il giusto nome
la licenza in tutti i campi.
C'è da notare
che il termine licentia qui ripetuto è utilizzato da Tacito, con alcune
altre "considerazioni puramente moralistiche"[12]
per invalidare le ragioni di una rivolta scoppiata tra le legioni della Pannonia
dopo la morte di Augusto:" nullis novis causis nisi quod mutatus princeps
licentiam turbarum et ex civili bello spem praemiorum ostendebat " ,
Annales, I, 16, per nessun'altra novità se non che il cambio dell'imperatore
faceva sperare la licenza delle truppe e la speranza di gratifiche in seguito
alla guerra civile.-princeps (da primus+capio) era il titolo di
Augusto che passò ai suoi successori.
Vedremo più
avanti che, coerentemente con questa paura, l'austero censore, nella Satira
I 2 di Orazio, consiglia di frequentare i postriboli dove le donne si pagano.
Certi maschi
terrorizzari dunque vogliono l'abrogazione della donna o per lo meno quella
della femmina umana indipendente. Le sue rivendicazioni fanno paura come quelle
di un esercito in rivolta.
La sposa
desiderabile da uomini siffatti si può definire la
buona moglie casalinga silenziosa, non truccata da contrapporre alla donna "
tubo di scarico".
La ragazza deve essere sposata quando è
ancora molto giovane dall'uomo già adulto perché questo possa educarla, o
addirittura addomesticarla. E' una posizione già presa dal protomisogino
Esiodo il quale consiglia il matrimonio con una vergine sui diciassette anni
all'uomo circa trentenne perché, precisa, tu possa insegnarle onesti costumi:"wJv"
k& h[qea kedna; didavxh/"" (Opere
, v. 699).
Altrettanto pensa di fare lo Zeno di Svevo,
quando decide di prendere moglie e, rifiutato da Ada, ripiega sulla sorella
minore Alberta, ricordando una raccomandazione di suo padre:"Scegli una donna
giovine e ti sarà più facile di educarla a modo tuo".[13]
Addomesticare non è necessariamente una parola
brutta: "nel dialogo famoso fra la volpe e il piccolo principe essa vale rendere
nostro, nella familiarità della comprensione e del legame che si crea col
territorio esplorato"[14].
Addomesticare, spiega la volpe, "vuol dire creare dei legami… Tu, fino ad ora,
per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno
di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a
centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno
dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo…non
si conoscono che le cose che si addomesticano-disse la volpe.- Gli uomini non
hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma
siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu
vuoi un amico addomesticami!"[15].
Anche i buoni autori, io credo, dobbiamo addomesticare:"Abbiamo bisogno di
auctores, di guide…I libri che leggiamo sono i nostri auctores, e
c'insegnano a riconoscere nuovi cieli e nuove terre, e ad alimentare sempre,
così, la nostra sete di significazione"[16].
Esiodo chiarisce che l'uomo non può fare
miglior guadagno di una buona moglie, né acquisto più raccapricciante di una
cattiva:"th'" d& au'te kakh'" ouj
rJivgion a[llo"(Opere , v. 703).
Come deve essere però la sposa buona?
Secondo Senofonte (430 ca-355ca a. C.)
ella deve occuparsi dei lavori interni alla casa, mentre il marito seguirà
quelli esterni. Infatti per la donna è più bello restare dentro casa che vivere
fuori (" Th'/ me;n ga;r gunaiki;
kavllion e[ndon mevnein hj; quraulei'n",
Economico , VII, 30); per l'uomo al contrario è più vergognoso rimanere
in casa che impegnarsi nelle cose esterne.
"Del destino normalmente riservato alla donna
ateniese Senofonte dà nell'Economico un'icastica rappresentazione[17].
La
Secondo Roscalla " lo stesso ritratto della
moglie, posta a capo della dispensa e dei servi e con il diretto controllo sulle
entrate e sulle uscite, più volte interpretato come fedele resoconto della
condizione della donna ateniese, sembra risentire dei costumi persiani"[18].
Non diversi peraltro sono i gusti del
triestino Zeno:"Ora non avrei avuto che un desiderio: correre dalla mia vera
moglie, solo per vederla intenta al suo lavoro di formica assidua, mentre
metteva in salvo le nostre cose in un'atmosfera di canfora e di naftalina"[19].
Comunque al modello di moglie proposto da
Senofonte, sia essa la donna ideale ateniese o persiana o di Ilio, assomiglia
la sfortunata Andromaca delle Troiane (del 415) di Euripide:" Io
che mirai alla buona fama (ejgw; de;
toxeuvsasa th'" eujdoxiva", v.643, nel
quale l'ottima sposa si presenta, metaforicamente, come un arciere
toxovth"
che con il suo arco (tovxon)
mira alla buona reputazione cui si accompagna la felicità nella culture of
shame) /dopo averla ottenuta in larga misura, fallivo il successo (th'"
tuvch" hJmavrtanon), v.
644 con il quale Euripide sembra indicare l'insufficienza "della cultura di
vergogna")./Infatti quelle che sono le qualità
conosciute di una sposa saggia/io le mettevo in pratica nella casa di Ettore./Là
dunque per prima cosa- che vi sia o non vi sia/motivo di biasimo per le donne (yovgo"
gunaixivn, v. 648)- la cosa in sé
attira/cattiva fama (kakw'"
ajkouvein, v. 649, lett. sentire parlar
male) se una donna non rimane in casa,/io, messo via il desiderio di questo,
rimanevo in casa (" e[mimnon ejn
dovmoi"", v. 650);/e dentro casa non
facevo entrare scaltre chiacchiere/di donne, ma avendo come maestro il mio senno
(to;n de; nou'n didavskalon,
v. 652)/ buono per natura, bastavo a me stessa./E allo sposo offrivo silenzio di
lingua e volto/ calmo ("glwvssh" te
sigh;n o[mma q& hJvsucon povsei-parei'con",
vv. 654-655); e sapevo in che cosa dovevo vincere lo sposo,/e in che cosa
bisognava che lasciassi a lui la vittoria" (vv. 643-656).
Le visite delle comari, sostiene Ermione nell'Andromaca,
mi hanno rovinato:" kakw'n gunaikw'n
ei[sodoi m '
ajjpwvlesan"
(v. 930). La moglie che permette a tale genìa di guastare la sua intesa
coniugale, viene come trascinata da un vento di follia. Sentiamo ancora la
figlia di Menelao pentita di essersi lasciata montare la testa da queste Sirene
maligne che hanno provocato la rovina del suo matrimonio con Neottolemo:"Kajgw;
kluvousa touvsde Seirhvnwn lovgou",-sofw'n panouvrgwn poikivlwn lalhmavtwn,-exhnemwvqhn
mwriva/."
(vv. 936-938), ed io ascoltando queste parole di Sirene, scaltre, maligne,
intriganti, chiacchierone, mi gonfiai di follia (ejxhnemwvqhn
è aoristo passivo di
ejxanemovw).
Una verità che Ermione, e ancor più Euripide, ha bisogno di ribadire:"
vv. 942-952 in greco
:"
mai, mai, infatti non lo dirò una sola volta, bisogna che quelli che hanno
senno, e hanno una moglie, lascino andare e venire dalla moglie che è in casa le
donne: queste infatti sono maestre di mali: una per guadagnare qualcosa
contribuisce a corrompere il letto, un'altra, siccome ha commesso una colpa
vuole che diventi malata con lei, molte poi per dissolutezza; quindi sono malate
le case degli uomini. Considerando questo custodite bene con serrature e sbarre
le porte delle case; infatti nulla di sano producono le visite dall'esterno
delle donne ma molti mali.-ajmplakou'sa:
participio aoristo di ajmplakivskw
.-kajnteu'qen: crasi di kai; ejnteu'qen.
La donna in ogni modo fa male a parlare con
altre donne.
Anche il seduttore intellettuale di
Kierkegaard auspica che la ragazza cresca nella solitudine e nel
silenzio:"Se dovessi figurarmi l'ideale di una fanciulla, questa dovrebbe sempre
essere sola al mondo e quindi dedita a se stessa, ma anzitutto non dovrebbe
avere amiche. E' ben vero che le Grazie furono tre, ma certamente neppure venne
mai in mente ad alcuno di figurarsele a parlar tra loro; esse compongono nella
loro tacita triade una leggiadra unità femminile. A tal proposito sarei quasi
tentato di suggerire delle gabbie per le vergini, se tale costringimento non
agisse invece in senso negativo. E' sempre augurabile per una giovinetta che le
venga lasciata la sua libertà, ma che non le venga offerta occasione di
servirsene"[20].
La moglie perfetta dunque non deve
frequentare, non diciamo gli uomini che sarebbe una nefandezza meritevole di
ripudio, ma nemmeno altre donne con le quali potrebbe ordire congiure e
progettare sconcezze.
Nel
Duvskolo"
di Menandro (342-290 a. C.) Sostrato, l'innamorato e pretendente della
figlia del misantropo , in un breve monologo elogia l'educazione
presumibilmente ricevuta dalla ragazza:"Se questa ragazza non è stata educata
tra le donne e non conosce nessuno di questi mali nella vita e non è stata
terrorizzata da qualche zia e balia, ma è venuta su liberamente con questo padre
selvaggio che odia il male,come potrebbe non essere la mia felicità unire la mia
sorte alla sua"?(vv. 384-389).
Il , e la tranquillità come virtù femminili
vengono indicate anche da un'altra eroina e martire euripidea: quella Macaria
degli Eraclidi (del 430 ca) che dà la propria vita per salvare quella dei
fratelli:"gunaiki; ga;r sighv te kai;
to; swfronei'n-kavlliston, ei[sw q& hJvsucon mevnein dovmwn"(vv.
476-477), per la donna infatti il silenzio e l'equilibrio sono la dote più
bella, poi rimanere in tranquillità dentro la casa.
Questa indicazione del silenzio come pregio,
particolarmente delle donne, non manca nel padre della tragedia: Eschilo
ne I sette a Tebe (del 467) rappresenta Eteocle, l'eroico difensore della
città assediata, mentre prescrive al coro di ragazze tebane :"
so;n d& au'j to; siga'n kai; mevnein ei[sw
dovmwn" (v. 232), il tuo compito invece
è tacere e rimanere dentro casa.
Anche Sofocle impiega il
tovpo"
quando nell'Aiace (del 456) fa dire al protagonista rivolto a Tecmessa:"guvnai,
gunaixi; kovsmon hJ sigh; fevrei"(v.
293), donna, alle donne il silenzio porta ornamento. Uno zittimento perentorio
utilizzato qualche regime fa dall' eterno Andreotti alla deputata radicale
Adele Faccio nel parlamento della nostra Repubblica.
Certamente molti uomini oppressi da donne
troppo loquaci e petulanti approverebbero Aiace, sebbene pazzo. Su questo
argomento sentiamo Steiner:" In tutte le culture conosciute, gli uomini
hanno sempre accusato le donne di essere ciarliere, di sprecare le parole con
folle prodigalità. La femmina chiacchierona, borbottona e pettegola, la donna
che non fa che cianciare, la bisbetica, la vecchia sdentata con la bocca piena
del vento delle parole sono immagini più antiche delle fiabe.
Giovenale
[21]
nella satira sesta, presenta come un incubo la
verbosità femminile:"cedunt grammatici, vincuntur rhetores, omnis/turba tacet,
nec causidicus nec praeco loquetur,/altera nec mulier; verborum tanta cadit
vis,/tot pariter pelves ac tintinnabula dicas/pulsari; iam nemo tubas, nemo aera
[22]
fatiget:/una laboranti poterit succurrere Lunae",
(vv. 438-443) si arrendono i grammatici, sono sconfitti i retori, tutta/
la folla tace, né l'avvocato né il banditore parlerà,/ né un'altra donna; cade
una colossale quantità di parole,/che si direbbe che altrettanti catini e
sonagli/ vengano percossi; nessuno oramai affatichi le trombe e gli ottoni:/una
donna sola potrà soccorrere la luna in travaglio.
Le donne sono davvero più prodighe di parole?
La convinzione maschile su questo punto va oltre ogni prova statistica ed è nata
forse da antichi contrasti sessuali. Può darsi che l'accusa di loquacità
mascheri il risentimento dell'uomo nei confronti del ruolo femminile nel
'consumare' il cibo e le materie prime da lui fornite. Ma l'allusione di
Giovenale alla luna è più interiore e indica il malessere che tiene l'uomo
distante da certi aspetti cruciali della sessualità femminile. Il presunto
carattere torrenziale del linguaggio delle donne, il profluvio sgradevole di
parole sono forse una riformulazione simbolica del ciclo mestruale che l'uomo
conosce spesso in modo vago e apprensivo. Nella satira maschile, le secrezioni e
i flussi oscuri della fisiologia femminile sono un tema ossessivo. Ben Jonson
unifica i due temi dell'incontinenza linguistica e di quella sessuale in The
silent woman (La donna silenziosa[23]).
"Ella è come un tubo di scarico", dice Morose della sua falsa sposa, "che torna
a scrosciare con più forza quando si riapre". 'Tubo di scarico', con le sue
connotazioni di escremento e di evacuazione, è un termine incredibilmente
brutale. Come tutta la commedia. Nel momento saliente della commedia si paragona
di nuovo la verbosità femminile all'indecenza:"O cuor mio! Ti spezzerai? Ti
spezzerai? Questo è peggio di tutti i peggior peggio che l'inferno poteva
concepire! Sposare una puttana, e tanto chiasso!"[24].
La loquacità femminile è messa in rilievo
anche da Polibio il quale del resto nota come questo vizio servì a
propagare la fama della generosità di Scipione Emiliano che aveva rinunciato a
un'eredità lasciatagli dalla nonna adottiva in favore della madre Papiria:
allora la già buona reputazione della sua nobiltà morale andò crescendo grazie
alle donne che chiacchierano fino alla nausea su qualsiasi argomento nel quale
si siano gettate ("aJvte tou' tw'n
gunaikw'n gevnou" kai; lavlou kai; katakorou'" o[nto" , ef& oJv ti aj;n oJrmhvsh/",
XXXI, 26, 10). In questo caso le chiacchiere delle femmine umane furono uno
degli strumenti della buona Fortuna che assecondò l' ottima indole dell'eroe
polibiano.
In Senofonte si può trovare un' altra
corrispondenze con un'altra Andromaca euripidea. Infatti Iscomaco insegna
alla moglie-ragazza che i pregi della donna agli occhi degli uomini non
dipendono tanto dalla gioventù e dall'avvenenza quanto dalla virtù (Economico
, VII, 43). Ebbene la protagonista dell'Andromaca ( del 430-428) dice
alla rivale Ermione:"ouj to; kavllo",
w'j guvnai,-ajll& ajretai; tevrpousi tou;" xuneunevta""(vv.
206-207), non la bellezza, o donna, ma le virtù fanno felici i mariti. Tra le
virtù della donna la moglie dell'eroe troiano mette una totale abnegazione in
favore dello sposo:" O carissimo Ettore, io per compiacerti/partecipavo ai tuoi
amori, se in qualche occasione Cipride ti faceva scivolare,/e la mammella ho
offerto già molte volte ai tuoi/bastardi (kai;
masto;n h[dh pollavki" novqoisi soi'"-ejpevscon),
per non darti nessuna amarezza./E così facendo attiravo lo sposo/con la virtù (th'/
ajreth/' ''''') (vv. 222-227).
Oltre il non truccarsi pure il non spogliarsi
fa parte della virtù della donna, almeno in ambito e ateniese e ionico. In
questa stessa tragedia si trova un forte biasimo della donne spartane: Peleo
critica tutte le Lacedemoni per i loro
costumi dicendo: neppure se lo volesse potrebbe restare onesta ("swvfrwn",
v. 596) una delle ragazze di Sparta che insieme ai ragazzi, lasciando le case
con le cosce nude ("gumnoi'si mhroi'"",
v.598) e i pepli sciolti, hanno corse e palestre comuni, cose per me non
sopportabili. Erodoto fa gridare a Gige:"
Jvama de; kiqw'ni ejkduomevnw/ sunekduvetai
kai; th;n aijdw' gunhv" (I, 8, 3) con
il levarsi di dosso la veste, la donna si spoglia anche del pudore",
Il
tovpo"
della moglie non necessariamente bella, ma
virtuosa, e per questo motivo amabile, o per lo meno sopportabile, si trova alla
fine del IV libro del poema di Lucrezio :"Nec divinitus interdum
Venerisque sagittis/deteriore fit ut forma muliercola ametur../Nam
facit ipsa suis interdum femina factis/morigerisque modis et munde corpore
culto,/ ut facile insuescat <te> secum degere vitam./Quod superest, consuetudo
concinnat amorem;/nam leviter quamvis quod crebro tunditur ictu,/vincitur in
longo spatio tamen atque labascit./ Nonne vides etiam guttas in saxa cadentis/umoris
longo in spatio pertundere saxa? " (vv. 1278-1287), non per volontà degli
dèi talvolta o per le frecce di Venere accade che sia amata una donnetta di
aspetto meno attraente. Infatti la stessa femmina umana talvolta con il suo
agire e con i modi docili, e con il corpo gradevolmente elegante, fa in modo di
abituarti facilmente a passare la vita con lei. Del resto la consuetudine
concilia l'amore; infatti ciò che viene battuto sia pur leggermente con colpi
frequenti, è vinto comunque a lungo andare e si lascia piegare. Non vedi che
anche le gocce stillanti sulle rupi con un lungo gocciare trapassano le rupi?
Torneremo sul IV canto del De rerum natura
ma possiamo già notare con Dionigi che questa chiusa presenta un "evidente e non
meno sorprendete cambiamento di registro. infatti dopo aver condannato con
asprezza e sarcasmo l'amore come affanno (v. 1060), sofferenza (vv. 1068-1072),
furore (vv. 1079-1083; cfr. 1117), spersonalizzazione(vv. 1121 sg.), amarezza
(v. 1134), rimorso (v. 1135), gelosia (v. 1139 sg.), cecità (v. 1153), miseria
(v. 1159) e umiliazione (vv. 1177-1179), Lucrezio riesce anche a ipotizzare
l'amore sincero, gioioso e vicendevole (vv. 1192-1208), e il dolce sentimento
della paternità (vv. 1253-1256), fino a cogliere-come in questi versi (vv.
1280-1283)- l'intimità e una sorta di malinconica tenerezza"[25].
Più avanti leggeremo e commenteremo parecchi
di questi versi.
Intanto voglio indicare una donna di
Shakespeare che nel corso del dramma subisce una metamorfosi da potenziale
Santippe a probabile Andromaca: si tratta di Caterina, la bisbetica che, una
volta domata, chiude la commedia celebrando la necessaria sottomissione
delle donne:"L'obbedienza che un suddito deve al suo re, la donna deve a suo
marito…Mi vergogno che le donne siano così sciocche da offrir guerra mentre
dovrebbero chiedere la pace in ginocchio; che vogliano legiferare, dominare,
soverchiare, quando sono nate a servire, ad amare e a ubbidire"[26].
Shakespeare forse risente anche di una prescrizione dell'apostolo
Paolo:"wJ" ejkklhsiva uJpotavssetai tw'/
Cristw'/, ouJvtw" kai; aiJ gunai'ke" toi'" ajndravsin ejn pantiv" (Epistola
agli abitanti di Efeso , 5, 22), come la Chiesa è soggetta a Cristo, così
anche le mogli ai mariti in ogni cosa.
[1] Ph. E. Slater, The glory of
Hera , in La tragedia greca. Guida storica e
critica , trad. it. Laterza, Bari, 1974, p. 161.
[2] Slater, op. cit., p. 162.
[3] F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p. 171.
[4]
M. Kundera, Il valzer degli addii ,trad. it.
Adelphi, Milano, 1989, p. 104.
[5] Anatomia della distruttività umana , trad.
it. Mondadori, Milano, 1978, p. 363.
[6] L'accecamento mentale, una smisurata forza
irrazionale.
[7] E' la storia di Giuseppe e del consigliere del
Faraone Putifarre, la cui moglie, innamorata dell'ebreo, lo accusò
ingiustamente di essersi accostato per unirsi con lei. Conservava come
prova la veste che ella stessa gli aveva strappato. Nihil novi sub
sole !
[8] Omnis=omnes.
[9] C. Izzo, Storia della letteratura inglese,
p. 517.
[10]
E. Fromm, Amore sessualità e matriarcato , trad. it.
Mondadori, Milano, 1997. p. 104 e 105.
[11] Vietava tra l'altro di indossare vesti
multicolori o di girare per Roma su un cocchio a doppio traino di
cavalli.
[12] E. Auerbach, Mimesis ,
vol. I, p. 44.
[13]
Svevo, La coscienza di Zeno , Dall'Oglio, Milano,
1938, p. 157.
[14] F. Frasnedi, op. cit., p. 41.
[15] Antoine De Saint-Exupery, Il piccolo principe,
p. 92 sgg.
[16] F. Frasnedi, op. cit., p. 52.
[17] Senofonte, Oec. 7.
[18] Fabio Roscalla, introduzione a Senofonte,
Economico , Rizzoli, Milano, 1991, p. 41. L'autore torna
sull'argomento in La Letteratura Economica di Lo Spazio
Letterario Della Grecia Antica , Salerno, Roma, 1992, Volume I, Tomo
I, p. 476 e sgg.
[19]
Svevo, La coscienza di Zeno , p. 241.
[20] S. Kierkegaard, Diario del seduttore (del
1843), p. 53.
[21] 50/60-140 d. C. d. C.
[22]
Il rumore di catini e campanelli doveva cacciare gli
spiriti cattivi che provocano l'eclissi.
[23]
Commedia del 1609.
[24]
G. Steiner, Dopo Babele , trad. it. Garzanti,
Milano, 1994, pp. 69-70.
[25]
I. Dionigi, Lucrezio, La Natura Delle Cose , p.
422.
[26] W. Shakespeare, La bisbetica domata, V, 2.
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