appunti per la conferenza "Medea di Euripide". Letture e commenti, sguardo alla Medea di Seneca, cenni al film di Pier Paolo Pasolini di Giovanni Ghiselli
18 maggio 2014
Film vedere da 3 a 8
2, 15 Chirone bimembre: “mi diverte raccontare bugie” Rivela a Giasone
bambino di 5 anni che non è suo padre né sua madre. Poi racconta: “tutto è
cominciato per una pelle di caprone”. Racconta il mito di Ino e Nefele.
Ino moglie del re di Orcomeno Atamante, figlio di Eolo. Dice che fu una
questione di gelosia. Il caprone dal vello d’oro portò al di là dal mare Frisso,
uno dei figli di Nefele e di Atamante .
Frisso ed Elle erano odiati da Ino, la seconda moglie di Atamante. Fece dire
ai messaggeri mandati all’oracolo per una carestia che si doveva sacrificare
Frisso. Nefele mandò il caprone che portò via i due fratelli suoi figli. Elle
cadde in mare
Ino aveva generato Learco e Melicerte. Atamante impazzito uccide Learco e
Ino si getta in mare con Melicerte.
Frisso fu salvato dal caprone e giunse dal re Eeta nella Colchide. Eeta ha
sacrificato il caprone e ha fatto sposare Frisso con sua figlia Calciope. I due
generano Argo.
Giasone bambino dorme. Poi il centauro riprende il racconto
Il vello portava fortuna ai re: garantiva la continuità del potere. Giasone
discende da Eolo e Atamante. Esone era nipote di Eolo. Pelia si è impadronito
del regno e Giasone è stato messo al sicuro presso Chirone
“è una storia complicata perché fatta di cose e non di pensieri”
(v. 1)
Minuti4, 08
Chirone, ancora Centauro bimembre e mitico dice a Giasone tredicenne: “Tutto
è santo, tutto è santo, tutto è santo. Non c’è niente di naturale nella natura,
ragazzo mio, tientilo bene in mente. Quando la natura ti sembrerà naturale,
tutto sarà finito e concerà qualcos’altro. Addio cielo, addio mare. Che bel
cielo. Tutto è pieno di dèi (cfr. Talete) Se il dio non c’è, ha lasciato un
segno della sua presenza sacra. Eh sì, tutto è santo, ma la santità è insieme
una maledizione cfr. sacer. Gli dei che amano-nel tempo stesso-odiano”[1]
5, 42 minuti
Il centauro bimembre è diventato uomo ( minuti 5, 49)
Diventato uomo, Chirone comincia a razionalizzare, a sconsacrare ciò che
prima aveva chiamato santo
Dice: “per l’uomo antico i rituali sono esperienze concrete.
Minuti
6, 45. Chirone uomo parla a Giasone, oramai adulto, e gli dice che dovrà andare
in cerca del vello d’oro, in un paese antico, dove il mito è ancora vivo: " per
l'uomo antico i miti ed i rituali sono esperienze concrete, che lo comprendono
anche nel suo esistere corporale e quotidiano". Il giovane allievo dovrà andare
a prendere il vello d'oro “in un paese lontano al di là del mare. Qui farai
esperienze di un mondo che è ben lontano dall’uso della nostra ragione, la sua
vita è molto realistica come vedrai, perché solo chi è mitico è realistico e
solo chi è realistico è mitico”[2].
6, 52,
Il mito
aggiunge significati alle cose, il mito è un'immagine concentrata del mondo, il
mito scopre le origini
La
ragione non prevede i propri errori, siccome non può prevedere il destino
Minuti 7, 18
Ciò che
l'uomo ha veduto dai cereali, nei semi che perdono la loro forma sotto terra per
poi ricrescere, tutto questo ha rappresentato la lezione definitiva . La
resurrezione, mio caro
cfr.
Ammiano Marcellino
Giuliano sii affrettava verso Antiochia
orientis apicem pulchrum, culmine bello dell’oriente. In quei giorni (del
361) si celebravano gli Adonēa,
secondo l’antico rito in onore di questo giovane amato Veneris, apri dente
ferali deleto, quod in adulto flore sectarum est indicium frugum (22,
9).
Ma
l'uomo estraneo al mito ha perso questa lezione e ha perso la nozione degli dèi.
Il grano non ha più nessun significato (7, 27), non c'è più nessun dio
cfr. Jug Jug to dirty ears
Il mito di Procne e Filomela: un lungo racconto in esametri fatto da Ovidio
nelle Metamorfosi (VI, 426-674) cui allude Eliot per significare la
decadenza del mito nella ricezione degli uomini moderni:"The change of
Philomel, by the barbarous king/So rudely forced; yet there the nightingale/Filled
all the desert with inviolable voice/And still she cried, and still the world
pursues,/'Jug Jug' to dirty ears " (The Waste Land , vv. 99-103), la
metamorfosi di Filomela, dal barbaro re così brutalmente forzata; eppure là
l'usignolo riempiva tutto il deserto con voce inviolabile, e ancora ella
piangeva, e ancora il mondo continua, 'Giag Giag' a orecchie sporche.
Il canto della voce inviolabile di Filomela è degradato e dissacrato, poiché
suona oramai solo naturalisticamente come un "giag giag" per le orecchie
inquinate del mondo contemporaneo.
Il canto dell’usignolo che evoca tragedie si trova già nella poesia Sweeny
among the nightingales che ha come epigrafe un verso dell’Agamennone
di Eschilo: “w[moi, pevplhgmai kairivan
plhgh;n e[sw” (1343), ahimé,
sono colpito profondamente da un colpo mortale!.
Sentiamo dunque il canto tragico e rituale degli usignoli: “The nightingales
are singing near/The Convent of the Sacred Heart, //And sang within the bloody
wood/When Agamemnon cried aloud/ And let their liquid siftings fall/To stain the
stiff dshonoured shroud” (vv. 35-40), gli usignoli cantano vicino al
Convento del sacro cuore, e cantarono nel bosco insanguinato, quando Agamennone
forte gridò, e lasciarono cadere le loro feci liquide a macchiare il duro
disonorato sudario.
Immagini
di un mondo selvaggio con un sacrificio umano (16, 25) poi fanno a pezzi il
ragazzo ucciso e la gente ne beve il sangue e ne mangia parti del corpo.
Il
sangue feconda la terra: riti della fertilità 18, 55
Tutti
toccano il cuore con le dita poi toccano il grano giallo
Il volto
della Callas in primo piano minuti 21, 14 con fissità ieratica
danze
selvagge (22, 19)
C'è
anche il farmakovς
picchiato con rami. Tutto il repertorio antropologico del Ramo d'oro di
Frazer ( 22, 39)
Sentiamo J.P. Vernant: “L’altra faccia di Edipo, complementare e opposta (il suo
aspetto di capro espiatorio), non è stata così nettamente evidenziata dai
commentatori. Si è bensì visto che Edipo, al termine della tragedia, è cacciato
da Tebe come si espelle l’homo piacularis, al fine di “allontanare la
macchia”, to; a[go~ ejlauvnein[3]…Tebe
soffre di un loimov~ che si
manifesta con lo schema tradizionale con un isterilimento delle fonti della
fecondità: la terra, gli armenti, le donne non procreano più, mentre una
pestilenza decima i viventi…E’, come si sa, ciò che si produsse ad Atene, nel
VII secolo, per espiare l’empia uccisione di Cilone, quando si cacciarono gli
Alcmeonidi, dichiarati impuri e sacrileghi,
ejnagei`~ kai; ajlithvrioi[4].
Ma esiste pure, ad Atene come in altre città, un rito annuale che mira ad
espellere periodicamente la macchia accumulata durante l’anno trascorso. “E’
usanza ad Atene-riferisce Elladio di Bisanzio- portare in processione due
farmakoiv in vista della
purificazione, uno per gli uomini, l’altro per le donne…”[5].
Secondo la leggenda, il rito troverebbe origine nell’empia uccisione commessa
dagli Ateniesi di Androgeo il Cretese: per cacciare il
loimov~ fatto scoppiare dal delitto,
si istituì l’usanza di una purificazione costante con i
farmakoiv. La cerimonia aveva luogo
il primo giorno della festa delle Targhelie, il 6 del mese
Qarghliwvn[6].
I due farmakoiv, ornati di collane e
fichi secchi (neri o bianchi secondo il sesso che rappresentavano) venivano
portati in giro attraverso tutta la città; li si colpiva sul sesso con bulbi di
scilla, con fichi e altre piante selvatiche[7],
poi si espellevano; può anche darsi che, almeno alle origini, fossero messi a
morte per lapidazione, i cadaveri bruciati, le ceneri disperse[8].
Com’erano scelti i farmakoiv? Tutto
lascia pensare che li si reclutasse tra la feccia della popolazione, tra i
kakou`rgoi, gentaglia che i loro
misfatti, la loro bruttezza fisica, la loro bassa condizione, le loro
occupazioni vili e ripugnanti designavano come esseri inferiori, degradati,
fau`loi, il rifiuto della
società”. Oltre che da Plutarco, traggo
l'idea dallo studio di J.P. Vernant, Ambiguità e rovesciamento. Sulla
struttura enigmatica dell'Edipo re, compreso nel volume Mito e tragedia
nell'antica Grecia (pagg.105-106).
I rami di cui parla Edipo (Edipo re, v.
3) alludono al ramoscello di olivo o di lauro fasciato di lana che ragazzi
giovanissimi portavano in giro per la città e appendevano alle porte delle case
in ricordo della fne della sterilità (dia;
to; lh`xai th;n ajforivan, Plutarco, Vita di Teseo, 22, 6 )
per allontanare la carestia e il disordine
delle stagioni.
Per realizzare l'espulsione del guazzabuglio umano venivano cacciati due
farmakoiv, vittime espiatorie scelte
tra gli scellerati brutti e presi di mira dalla natura.
Cleofonte viene messo alla gogna nella parabasi delle Rane di Aristofane,
in quanto incapace di pronunciare correttamente la lingua dei veri Ateniesi:
sulle sue labbra ambigue orrendamente freme la rondinella tracia (vv. 679-681),
e, poco più avanti il demagogo è messo tra gli stranieri, rossi di pelo,
mascalzoni e discendenti da mascalzoni, ultimi arrivati dei quali ora la città
si serve per ogni uso, ma che in passato non sarebbero stati utilizzati
probabilmente nemmeno come vittime espiatorie: “oujde;
farmakoi'sin eijkh'/ rJa/diiw~ ejcrhsat j an” (vv. 730-733).
Medea è
la grande sacerdotessa
Giasone va da Pelia (23, 53). Pelia gli chiede il vello d’oro
24 “Esiste un segno della perennità del potere e dell’ordine, questo segno è
la pelle d’oro di un caprone divino, essa si trova in una terra lontana, oltre
il mare, dove nessuno è mai stato. Se tu porterai nella nostra città quella
pelle d’oro io te lo restituirò, il tuo regno”[9].
24, 29 La nave Argo tanto magnificata è una zattera (cfr. Géricault
Zattera della Medusa (1819)
Gli Argonauti sono predoni e violenti
Le donne della Colchide lavorano la terra 27, 34
La Callas è muta ed espressiva 28, 20
Si fa vestire da sacerdotessa 30
Viene invasata : ha un attacco isterico da Pizia o Sibilla 31, 50
Prega inginocchiata davanti al caprone 32, 37
Arriva Giasone 33, 8 la fissa
Lei sembra non vederlo, ma sviene 33, 30
Cerca di prendere il vello d’oro 35, 6 poi lo lascia
Va a chiamare il fratello Apsirto 36 22 perché la aiuti a rubare il vello
Lo porta da Giasone
I due si guardano a lungo 38, 17, 38,51.
La sparizione del vello getta le donne nella disperazione 39, 44
Si prepara la guerra. I Colchi inseguono
Medea ammazza il fratello a[yurtoς
Apsirto 41, 42
poi lo fa a pezzi, Lascia in terra la testa fuggono
Gli inseguitori si fermano per raccogliere la testa 44
Altri pezzi vengono lasciati per strada e vengono raccolti dai Colchi
Gli argonauti fuggono con la zattera
La madre di Apsirto grida 47, 36 Urla di donne prolungato
Feminis lugere honestum est, viris meminisse " Germania (27, 1),
per le donne è bello piangere, per gli uomini ricordare.
Medea è disorientata in mezzo agli Argonauti : “voi non segnate il centro,
non segnate il centro!” grida (49, 55) e corre via.
Chiede al sole e alla terra di parlarle (50, 41)
Non trova più il senso della terra. Cammina chiedendo un senso: tocco la
terra coi piedi e non la riconosco (51) Guardo il sole con gli occhi e non lo
riconosco
Gli uomini mangiano e ridono spensierati
Medea è sola pensosa e triste 51, 37
Giasone la raggiunge e la prende per mano la porta nella sua tenda lui si
spoglia e lei lo fissa 53, 27
I due si baciano
Pelia e le figlie che gridano e fuggono 55, 30
Il potere è malvagio: quando riceve il vello d’oro, Pelia dice a Giasone:
“penso che oggi dovrai fare un’esperienza inaspettata: comprendere che i re non
sempre sono obbligati a mantenere le loro promesse” (scena 59). 55, 51
Giasone lascia il vello e dice: la mia impresa mi è servita a capire che il
mondo è più grande del tuo regno. Poi la pelle di caprone lontana dal suo paese
non ha più alcun significato 56, 19
Le figlie di Pelia si inginocchiano a Medea, la spogliano e la rivestono come
loro
Gli Argonauti si salutano e separano
Giasone e Medea fanno l’amore con Medea che lo guarda inquieta.
Le nozze di Medea e Giasone sono raccontate nel poema di Apollonio Rodio:
i due devono anticiparle rispetto al loro desiderio di celebrarle una volta
giunti a Iolco, poiché Alcinoo, il re dei Feaci, avrebbe consegnato Medea ai
Colchi che la inseguivano se Medea, rifugiatasi con gli Argonauti presso di lui,
fosse stata ancora vergine. Ci fu comunque la festa nuziale con i canti
accompagnati dalla cetra di Orfeo, poi i due sposi si stesero sul letto
preparato nell’antro feacio detto prima Macride, la figlia di Aristeo che
scoprì il lavoro delle api e il succo dell’oliva che costa molta fatica, poi,
da quel giorno, antro di Medea. Sopra il letto venne steso il vello d’oro,
mentre le ninfe portavano mazzi varipinti di fiori. Tutto molto bello e
gioioso. Però, è l’ amaro commento di Apollonio, noi stirpi di infelici mortali,
non possiamo mai entrare nel piacere con piede intero (o{lw/
podiv, Argonautiche, 4, 1166); l’amaro tormento si insinua
sempre in mezzo alle gioie. In questo caso i due sposi temevano di
essere traditi da Alcinoo. Il re dei Feaci invece, diversamente da come avrebbe
fatto Giasone, rispettò i giuramenti (4, 1205).
Lucrezio:
"Eximiā veste et victu
convivia, ludi, /pocula crebra, unguenta coronae serta parantur, /nequiquam,
quoniam medio de fonte leporum/surgit amari aliquid quod in ipsis floribus angat
..." ( De rerum natura, IV, vv. 1131-1134):"si preparano conviti con
apparato e portate sfarzose, giochi, tazze fitte, profumi, corone. ghirlande,
invano poiché dal mezzo della sorgente dei piaceri sgorga qualche cosa di amaro
che angoscia persino in mezzo ai fiori
Giasone dorme e Medea osserva il suo corpo
con un sorriso -1 ora-
I due si baciano
Ricompare Chirone come uomo e pure centauro
sono a Pisa
Noi due siamo dentro di te, dice Chirone
Tu hai conosciuto due centauri: uno sacro,
quando eri bambino, e uno sconsacrato, da adulto: ciò che è sacro si conserva
accanto alla nuova forma sconsacrata
Il bimembre non parla perché ha una logica
diversa dagli sconsacrati. E’ comunque sotto il suo segno che Giasone, fuori dai
calcoli, in realtà ama Medea, gli dice Chirone uomo.
Io amo Medea? Domanda Giasone 1, 3
Sì e hai pietà di lei e comprendi la sua
catastrofe spirituale, il suo disorientamento di donna antica in un mondo che
ignora ciò cui lei ha sempre creduto 1, 3.
La poverina ha avuto una conversione alla
rovescia e non si è più ripresa
Il vecchio centauro ispira ancora dei
sentimenti e il nuovo centauro li esprime
Medea vuole andare a Corinto con la nutrice
che le dice “non puoi” 1, 4
Giasone danza a Pisa una danza festosa.
Medea piange
Poi si vede la rocca di Corinto. Una ragazza
le ricorda il suo passato di maga, la gente di Corinto lo sa e ne ha paura, come
si ha di una maga 1, 7
Vuole aiutarla spingendola alla magia
Medea dice di essere cambiata: dopo dieci
anni di assenza ho tutto dimenticato 1, 8 ciò che era realtà ora non lo è più
Ma forse può ricordarsi sono restata quella
che ero: “un vaso pieno di un sapere non mio” 1, 8
Piange
Guarda il sole sul mare. Il sole le parla e
lei lo riconosce: sei il padre di mio padre 1, 9, 51
“E allora che cosa aspetti?coraggio”
3 volte “O dio, o Giustizia cara a Dio, o
luce del sole” 1, 10, 15 Medea, v.764. Il coro di donne lo ripete.
Sarà splendida la vittoria sopra i miei
nemici
Espone il suo piano a un gruppo di donne
Fingerà di considerare utile ai loro figli
il nuovo matrimonio 1, 10, 47
Medea: voi non potete approvarmi solo perché
non avete sofferto tutti i mali che ho sofferto io
Chi ti darà il coraggio? (la nutrice)
Lo troverò pensando che egli ne sarà
straziato 1, 11 Giasone
Medea di Euripide:
Giasone “per questo li hai ammazzati?”
Medea. Per infliggere pene a te (sev ge
phmaivnous j) 1398
Nella Medea di Seneca, la madre furente dice: “ Bene est, tenetur,
vulneri patuit locus” (v. 549)
È tempo di agire, le chiacchiere sono del
tutto inutili
Alla nutrice: fai venire qui Giasone ma non
dirgli nulla dei nostri piani
Tu mi ami e per di più sei donna
Medea ha un’espressione soddisfatta 1, 12
Medea superest
(v. v. 166, II atto)
Il sole le dice: “nelle tue vecchie spoglie”
Chiama i bambini e Giasone
Dà ai bambini i doni avvelenati per la sposa
Glauce
Ditele che la mamma le augura felicità
Vostro padre vi porterà da lei
Dimenticate ogni vecchio rancore, come ho
fatto io
Però dice che non fa altro che piangere
Giasone crede che sia pentita e la elogia
per la riappacificazione
Ai figli dice che penserà al loro benessere
Medea piange e dice la donna è una creatura
debole, facile alle lacrime chiede aiuto perché i figli non vengano banditi
Giasone promette
Medea dice con aria maliziosa ai figli:
ritornate con la lieta notizia che attendiamo “1, 15
Giasone e i figli salgono sulla rocca
Medea li osserva 1, 15, 48
Sfuggiti allo sguardo di Medea, Giasone e i
figli si ritrovano a Pisa, nel mondo ordinato del Rinascimento.
Si presentano a Creonte.
Glauce è un’adolescente
I bambini porgono i regali con auguri di felicità.
La ragazza sorride e li prende, sebbene sconsigliata da una donna
Li accetta e ringrazia con espressione da bambina.
Qualche nevrosi le ha impedito di crescere
La ragazza, giovane e bella, viene vestita dalle ancelle
Dei bambini per strada mangiano angurie molto rosse, un rosso che preannuncia
il sangue.
Glauce si guarda allo specchio 1, 20. Ha un’aria smarrita, poi spaventata,
poi terrorizzata. Fugge e prende fuoco. Il padre la segue, l’abbraccia e prende
fuoco con lei. E’ una pre-visione. La prima versione, mitica della scena che più
avanti si ripete
cfr. Medea di Euripide la
rh̃siς
(vv. 1136-1230). La conclusione è che le cose umane sono soltanto ombra: “ta;
qnhta; d j ouj nũn prw̃ton hJ goũmai skiavn” (v. 1224)
La Medea di Seneca: “stillent artus ossaque fument/vincatque suas flagrante
comā/nova nupta faces” (837-839)
Nata atque genitor cinere permixto iacent (v. 880)
Medea piange
Si vede di nuovo la bambina con sguardo fisso
Entra Creonte, la figlia lo guarda, poi piange.
Creonte esce e si trova a Pisa, poi nella rocca di Corinto.
Va in cerca di Medea e la trova. Le ordina di partire con i figli.
Mi fai paura 1, 24, 29 mi fai paura per la mia figliola
Come barbara sei molto esperta dei malefici. Sei diversa da tutti noi. Peciò
non ti vogliamo tra noi 1, 24, 47
Invece è così povera questa mia sapienza
La Medea
di Euripide risponde a Creonte che la sua fama di sapiente le ha procurato solo
invidia; del resto, aggiunge, eimi;
d j oujk a[gan sofhv (v. 305), non sono
troppo sapiente.
Quindi supplica Creonte di non cacciarla
poiché non ha cattive intenzioni. Ma il re di Corinto continua ad avere paura,
anzi terrore (ojrrwdiva,
v. 317). Creonte vacilla e Medea impreca contro l’amore chè è un
kako;n mevga
(v. 330), un male grande per i mortali.
Medea non ritiene responsabile Creonte ma
solo Giasone 1, 25
Il tuo comportamento mi sembra giusto.
Continua a fingere
Chiede la grazia di restare, promette di
sottomettersi
Creonte riconosce l’umanità di Medea, ma,
dice, è impossibile vedere nel fondo di un’anima
Questo è vero dice Medea, poi chiede un
giorno di tempo.
Creonte dice che il suo volere non è quello
spietato di un tiranno
(cfr. Medea di Eurioide vv. 348-349)
Alla fine Medea chiede un sol giorno (mivan…hJmevran,
v. 340) e Creonte glielo concede perché, dice,
la mia natura non è per niente tirannica (h{kista
toujmo;n lh̃m
j e[fu turannikovn, 348) e provo pietà, anche con mio discapito.
Il potere infatti non è compatibile con la pietà[10].
Il Creonte di Seneca dice: “Etsi repugnat precibus infixus timor,- unus
parando dabitur esilio dies” (294-295)
La mia indole spesso mi è stata dannosa, lo so 1, 26
Creonte teme per la figlia che si sente colpevole verso Medea e conoscendo il
dolore di Medea, ne soffre. Le nozze con Giasone non la rendono felice
Per questo io voglio, disumanamente cacciarti via dalla mia terra.
Medea sviene. Poi chiede alla nutrice di chiamare Giasone
Arriva questo miserabile uomo che deve tutto a me 1, 29 e su cui ho perso
ogni speranza
Giasone dice che deve solo a se stesso la buona riuscita delle sue imprese
Quello di Euripide dice che è stata Cipride a salvare la sua impresa (527-528) e
che Eros costrinse Medea con i suoi dardi infallibili. Del resto se Medea è
diventata famosa, lo deve a lui e se non si è famosi, nessun bene ha valore.
Se hai fatto qualcosa per me, lo hai fatto solo per amore del mio corpo 1,
29, 23
Io ti ho dato più di quello che ho ricevuto
Medea: non vantarti di questo 1 29 36
Medea chiede perdono a Giasone io sono stata ingiusta, e tu hai fatto bene a
comportarti così.
Quella di Euripide quando finge dice a Giasome che lui fa la cosa più utile (drã/
ta; sumforwvtata, v. 876) sposando la principessa di Corinto
Giasone dice con condiscendenza: ma sì, ti perdono.
Addio, addio. Medea di nuovo addio.
Invece i due si ritrovano e fanno l’amore
Poi Medea chiama i bambini
Si ripete la scena dei doni mandati a Glauce in termini psicoanalitici
Medea dice ai figli che ha fatto la pace con Giasone
Poi : ho un oscuro presentimento di dolore 1, 33, 23
Miei bambini, voi vivrete ancora a lungo
Povera me, non faccio altro che piangere e sono piena di timori, proprio ora
che ho finito la mia indegna lite con vostro padre.
Giasone rassicura i figli
Medea dice che piange perché la donna è una creatura debole e facile alle
lacrime e chiede intercessione per i figli
Tornate con la lieta notizia
Giasone va via con i bambini e lancia un bacio a Medea
Vanno via tutti contenti. A Pisa
La ragazzina prende i doni e ringrazia
Giasone e i figli corrono nel Campo dei miracoli di Pisa
Glauce si guarda allo specchio con le lacrime agli occhi
Poi la tragedia: corre via nel campo di Pisa inseguita dalle ancelle, poi dal
padre. Si ferma e guarda il padre, poi corre sulla rocca di Corinto. Fissa
davanti a sé e si getta giù. Il padre la segue 1, 38, 18
Medea fissa anche lei: aspetta gli eventi
Va dai bambini. Ne spoglia uno. Lo lava, lo asciuga, lo culla, poi si vede un
coltello. Quindi va a prendere l’altro bambino, un preadolescente che suonava
con l’aio. Lo spoglia, lo lava, lo asciuga, lo abbraccia, gli dice dormi 1, 42,
31, lo chiama amore poi si vede la mano che prende il coltello
Il giovane pedagogo smette di suonare e chiude gli occhi
Medea stende il bambino nel letto.
Poi guarda la luna. Il pedagogo dorme. Quindi il sole
I bambini sono stesi sui letti
Medea accende un fuoco e dà fuoco al palazzo
La gente scappa, lei li guarda dall’alto. Giasone corre per attraversare il
fuoco ma lei grida “non potrai farlo!” Puoi parlare ma da lontani
Giasone: “Non soffri anche tu come me, ora?
Medea: “purché tu non rida io voglio soffrire”
Dio ti condannerà. Lasciami seppellire i figli e piangerli
Vai a seppellire la tua sposa
Te ne accorgerai nella tua vecchiaia
Ti scongiuro, per il tuo caro dio, lasciami accarezzare quei poveri corpi
innocenti
No, non insistere ancora, niente è più possibile ormai
Finisce tra fuoco e fiamme
Questo lavoro intende mettere in luce i significati della Medea di
Euripide dai punti di vista della precedente letteratura greca e della
successiva letteratura latina.
L’analisi del dramma è preceduto da una lunga introduzione sulle tragedie di
Eschilo, di Sofocle e di Euripide, non senza citazioni e riflessioni che
risalgono fino a Omero, e con l’utilizzo di argomenti critici che vanno da
Aristofane ai giorni nostri. Quindi viene affrontato il testo della Medea
con traduzione, note grammaticali, sintattiche e lessicali, e attraverso schede
di approfondimento che vogliono dare una collocazione europea alle affermazioni
dei personaggi della tragedia. Non mancano i collegamenti con il film di
Pasolini, con altre interpretazioni più o meno innocentiste, in primis quella di
Christa Wolf, e pure con l’attualità, siccome il dramma della madre che
ammazza i propri figlioli si è ripetuto purtroppo non poche volte in tempi
recenti. Un altro tema attuale è quello della “straniera” che arriva in
una terra dai costumi diversi e, sebbene cerchi un adattamento, non ottiene
l’accettazione della sua cultura e della sua umanità. Per giunta Medea
appartiene alla categoria della donna abbandonata, oltretutto da un miserabile
che nella scelta della compagna persegue esclusivamente il proprio utile.
Medea, che è portatrice di una cultura arcaica e ieratica, appare come
figura grandiosa di fronte alla meschinità dei suoi nemici, dal fellone Giasone,
al tiranno timorato Creonte, all’insipida, sciocca rivale. La conclusione
del dramma mostra l’orrendo trionfo della donna tradita, e afferma
l’imprevedibilità degli eventi con l’impossibilità di rendere stabile e sicura
la propria esistenza, come pretenderebbero quanti non capiscono che tutto è
instabile e problematico nella vita dell’uomo.
(v. 5)
Anche Pasolini nel suo film usa la parola “pelle” invece di “vello”. Pelia
dice al nipote: “Esiste un segno della perennità del potere e dell’ordine,
questo segno è la pelle d’oro di un caprone divino, essa si trova in una terra
lontana, oltre il mare, dove nessuno è mai stato. Se tu porterai nella nostra
città quella pelle d’oro io te lo restituirò, il tuo regno”[11].
Il potere del resto è malvagio: quando riceve il vello d’oro, Pelia dice a
Giasone: “penso che oggi dovrai fare un’esperienza inaspettata: comprendere che
i re non sempre sono obbligati a mantenere le loro promesse” (scena 59).
Cfr. Machiavelli Nel XVIII capitolo di Il Principe, Machiavelli
ricorda "come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a
nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li costudissi". E ne
deduce:"Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia et uno
mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l'una e l'altra
natura; e l'una sanza l'altra non è durabile. Sendo dunque uno principe
necessitato sapere usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe
et il lione; perché il lione non si difende da' lacci, la golpe non si difende
da' lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e' lacci, e lione a
sbigottire e' lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne
intendano. Non può, per tanto, uno signore prudente né debbe osservare la
fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente
le cagioni che la feciono promettere".
v. 9.
“Giasone si spoglia, e nasconde la sua pretesa e la sua incertezza dietro un
sorriso di ragazzino, fiero della propria virilità. Medea lo guarda incantata, e
perduta in lui. E’ un vero, completo amore ecc. In questo momento a prevalere è
la virilità di Giasone. Medea ha perso la propria atonia di bestia
disorientata: nell’amore trova, di colpo (umanizzandosi) un sostituto della
religiosità perduta; nell’esperienza sessuale ritrova il perduto rapporto
sacrale con la realtà”[12].
Nella scena 79 Giasone dice a Medea: “E’ ora che tu ti convinca infine,
chiaramente, che io devo soltanto a me stesso la buona riuscita delle mie
imprese. Anche se tu non vorrai riconoscere che, se hai fatto qualcosa per me,
lo hai fatto solo per amore del mio corpo”[13].
Pasolini mette in grande risalto il corpo e la corporeità di Giasone.
v. 101
Pasolini nel “trattamento” del suo film evidenzia gli sguardi che si scambiano
Giasone e Medea senza parlare: “Egli avanza, lento, senza fretta, fin sotto
l’albero: e guarda fisso Medea. La sua ironia (carezzevole) sembra volerla
spogliare, e non solo materialmente: esprimendo qualcosa che a lei sfugge, e che
pure le determina”[14].
v. 303
Pasolini nel suo film mette in rilievo la diversità tra il sapere dei Greci
civilizzati e la sapienza di Medea. Un’ancella le dice: “Ma forse, se tu
volessi, tu potresti ricordarti del tuo Dio…”
E Medea risponde: “…Forse hai ragione. Sono restata quella che ero. Un vaso
pieno di un sapere non mio”
[15](scena 62 D).
Più avanti Creonte le dice: “ E’ noto a tutti in questa città che, come
barbara venuta da una terra straniera, sei molto esperta nei malefici. Sei
diversa da tutti noi: perciò non ti vogliamo tra noi”.
A queste parole Medea replica: “Invece è così povera questa mia sapienza”
(scena 66).
Il culto del sole p. 277 Cappelli.
Medea è nipote del Sole cfr. v. 764
Il sole è, come sappiamo, anche il nonno di Medea ed è un personaggio,
nemmeno muto, del film di Pasolini. Vediamo come ne interpreta il sorgere e il
tramontare l’autore nel “trattamento”: “Il sole, calando, prefigura la discesa
nel Regno dei morti, e, risorgendo, prefigura la resurrezione: inoltre esso crea
il ritmo temporale, e la sacralizzazione del tempo, su cui è fondato il mondo
contadino, ecc. Il sole è insieme il Dio della Fecondazione e della Morte”[16].
Pasolini mostra anche la luna nel suo film (scena 96):, immediatamente di
seguito al tramonto del sole “Il sole sta tramontando: il suo disco splende,
molle, in fondo al dolce orizzonte lagunare, in fondo a pioppeti e vigneti. E,
straordinario, dall’altra parte del cielo, sorge, azzurrino-argentea la falce
sottile della luna. Il sole e la luna sono dunque congiunti, come nelle
tavolette sacre, nei simboli. E’ per essi che l’uomo ha potuto crearsi il senso
del tempo, coi suoi ritorni (il nascere e il tramontare; il calare e il
crescere). E’ per essi che l’uomo ha potuto convincersi della resurrezione
(perché ogni sole cala nel buio-nel regno dei Morti-rinasce. E così la luna).
Tutto ciò costituisce la Scienza di Medea, che rendeva giusta e necessaria la
sua presenza nel mondo. Ora essa ha smarrito questa scienza, come una bestia
strappata al suo pascolo, che non si orizzonta più. Guarda il Sole, guarda la
Luna” (p. 505).
Interpretazione pragmatica p. 292
La lettura pasoliniana del dramma di Euripide[17]
risulta oltre tutto molto attuale in un'epoca di conflitto tra culture diverse.
In un'intervista Pasolini dichiarò di aver
voluto mettere in evidenza
il contrasto tra la cultura pragmatica di
Giasone e quella arcaica e ieratica
di Medea:" Ho riprodotto in Medea tutti i temi dei film
precedenti...Quanto alla pièce di Euripide, mi sono semplicemente
limitato a qualche citazione...Medea è il confronto dell'universo arcaico,
ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e
pragmatico. Giasone è l'eroe attuale (la mens momentanea) che non
solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del
genere. E' il "tecnico" abulico[18],
la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo...Confrontato all'altra
civiltà, alla razza dello "spirito", fa scattare una tragedia spaventosa.
L'intero dramma poggia su questa reciproca contrapposizione di due "culture",
sull'irrudicibilità reciproca delle due civiltà...potrebbe essere benissimo la
storia di un popolo del Terzo Mondo, di un popolo africano, ad esempio[19]".
Agli studenti si devono delle spiegazioni. Una si può ricavare da un altro
lavoro di Pasolini, gli Scritti corsari :" L'interpretazione puramente
pragmatica (senza Carità) delle azione umane deriva dunque in conclusione
da questa assenza di cultura: o perlomeno da questa cultura puramente
formale e pratica"[20].
Pasolini parla del vuoto di Carità dell'Italia
degli anni Settanta. Ma riferiamolo alla Medea di Euripide. Il
pragmatismo di Giasone si manifesta chiaramente quando il seduttore dichiara
a Medea di avere voluto cambiare donna, prendendo la principessa di Corinto non
perché odiasse la madre dei suoi figli, o perché ne volesse altri, ma per la
cosa più importante: vivere bene, lui con la famiglia, o le famiglie, e senza
restrizioni (wJ" , to; men;
mevgiston, oijkoi''men kalw'"-kai; mh; spanizoivmeqa)
sapendo con certezza che il povero tutti lo
sfuggono (vv. 559-560).
Egli insomma "dra'/
ta; sumforwvtata " (v. 876)
fa quello che è più utile, come riconosce Medea, quando finge di sottomettersi
beffeggiandolo. Bisogna pure chiarire che la Medea di Euripide impiega,
strumentalmente, questa cultura dell'utile che la rende infelice, quando
blandisce Creonte per ottenere un giorno di permanenza a Corinto onde compiere
la sua terribile vendetta: credi che avrei blandito costui, chiede alla corifea,
se non per guadagnarci qualcosa o per tramare? (vv. 368-369).
Si può chiamare in causa e inserire in questa
categoria dell'utile anche la Poppea Sabina di Tacito: unde
utilitas ostenderetur, illuc libidinem transferebat (Annales, XIII, 45),
dove si presentasse l'utile, là volgeva la libidine. Si pensi a tante tra le
persone che appaiono nelle trasmissioni televisive.
La cultura ieratica e arcaica della Medea
di Euripide si vede nel fatto che nonostante il tradimento di Giasone, ella
continua a credere nei giuramenti e
negli déi: fa giurare Egeo sulla
Terra e sul Sole, il padre di suo padre (vv. 746)
747) e invoca: "
w\ Zeu' Divkh te Zhno;;;" JHlivou te fw'"
"(v. 764), oh Zeus e
Giustizia di Zeus e luce del Sole. E' una
delle poche battute del dramma di
Euripide utilizzata, e più volte, da Pasolini
nel suo film.
A proposito della diversità delle culture si
può ricordare che già Franz Grillparzer nella sua Medea[21]
mette in rilievo "la storia di una terribile difficoltà o impossibilità di
intendersi fra civiltà diverse, un monito tragicamente attuale su come sia
difficile, per uno straniero, cessare veramente di esserlo per gli altri"[22].
Nel film di Pasolini appare prima il centauro, quale educatore di Giasone
bambino, poi lo stesso attore appare come “un uomo, un semplice uomo, che ha
perso le sue forme favolose. Questo fatale approdo alla razionalità e al
realismo, implica una piega diversa dell’educazione del Centauro al giovane
Giasone: egli comincia a razionalizzare e a sconsacrare quindi, tutto ciò che
aveva dato prima come ontologico e sacro”[23].
Ancora Pasolini: “La parte “negativa” del razionalismo del Centauro è finita:
gli dei sono fole, i culti follie, ecc. E’ solo la civiltà agricola che li ha
inventati ecc. Adesso occorre sostituire qualcosa alla metafisica; questo
qualcosa è il successo terreno. Il successo si ottiene attraverso lo
scetticismo e la tecnica.
Il Centauro ha subìto una ulteriore trasformazione in tecnico: le sue case
sono diventate una officina, in cui ai suoi ordini lavorano gli operai. Sono
pronte le armi. Giasone, prima di tutto, dovrà riconquistare il suo posto di Re,
che gli spetta di diritto: è la sua prima conquista mondana”[24].
Il mitico Centauro, una volta desacralizzato, è assimilabile a Prometeo, il
Titano che rivendica l’invenzione delle tecniche: “
tutte le tecniche ai mortali derivano da Prometeo” (v. 507).
Le tecniche tendono a uno scopo pratico e
non allargano la conoscenza del mondo: la tecnica “funziona” ma non svela la
verità, come nota Galimberti[25].
Lo stesso Prometeo di Eschilo denuncia il limite teoretico delle tecniche:
ammette di avere tolto agli uomini la capacità di prevedere il destino (v. 248)
e riconosce di avere infuso in loro cieche speranze ( Prometeo incatenato,
v. 250).
v. 535 i Calcoli di Giasone.
I calcoli sbagliati di Giasone vengono rilevati dal secondo Chirone (quello non
bimembre) che dalla scena 11 sostituisce il Centauro del quale dice: “Esso non
parla, naturalmente, perché la sua logica è così diversa dalla nostra, che non
si potrebbe intendere…Ma posso parlare io, per lui. E’ sotto il suo segno che
tu-al di fuori dei tuoi calcoli e della tua interpretazione-in realtà ami
Medea”.
Giasone ribatte: “Io amo Medea?
E Chirone: “Sì. E inoltre hai pietà di lei, e comprendi la sua…catastrofe
spirituale, il suo disorientamento di donna antica in un mondo che ignora ciò in
cui lei ha sempre creduto…la poverina ha avuto una conversione alla rovescia, e
non si è più ripresa…[26]”
v. 1049
Medea vive un conflitto interiore lancinante: ella infatti continua ad amare
i suoi bambini. Tuttavia d’altra parte “deve” ucciderli. Pasolini nel suo film
mette in evidenza il lato buono della madre mostrando Medea mentre si prende
cura dei figli lavandoli amorevolmente.
v. 1162
Pasolini nel trattamento del suo film assegna alla Callas un “sorriso che è
come una piaga che le taglia a metà il volto”
katovptrw/ (1161):
Pasolini nel suo film mostra il volto della ragazza riflesso da uno specchio che
lo deforma: “Si fissa. Si siede. Si guarda a lungo. Poi i suoi occhi si perdono
altrove, nel vuoto. Qualcosa di orribile sta succedendo. Ha il pallore della
nevrosi-della ragazza che ha fatto della vita un nodo atroce di colpe e di
doveri, a cui non sa far fronte. Uno sgomento infantile, invincibile le appanna
gli occhi, la segna con precoci occhiaie”[27].
1078-1080
Pasolini evidenzia il conflitto interiore di Medea mostrando la madre che
lava e culla i figli con amore prima di ucciderli: “Ora Medea prende il
bambino più piccolo in braccio, e si siede su una sedia, dal lungo schienale
basso: il bambino è quasi disteso sopra di lei, come un uomo nell’atto di fare
l’amore. Medea lo culla. Per terra, accanto alla sedia, si vede brillare un
coltello…Con lo stesso ritmo pacato e quasi soave, Medea prepara così anche il
secondo figlio ad andare a letto; lo sveste, prende bianchi lini, lo lava nella
tinozza…I gesti, i lievi rumori della madre che prepara il figlio ad andare a
dormire, hanno una lievità e un mistero quasi religiosi: la religione della vita
di ogni giorno, quando qualche Dio, anche terribile, la benedice. Ora la madre
riveste lentamente, come una cerimonia, il figlio più grande di un candido lino,
e, come ha fatto col fratellino più piccolo, se lo prende sul grembo, si
distende sulla lunga, massiccia sede di legno; ed egli sta sopra di lei, come un
uomo che fa l’amore, innocente e affettuoso”[28].
V. 1362
"mi giova il dolore, se tu non ridi"
Nell'ultima scena (97) del film di Pasolini, Giasone, di fronte alla catastrofe
finale dice alla madre dei loro figli assassinati: "Che cosa hai fatto, che cosa
hai fatto? Ora, non soffri anche tu come me?"
E Medea
risponde: "Pur che tu non rida, io voglio soffrire"[29].
La fine
del mito viene messa in rilievo da Pasolini nella dodicesima scena del film
"Medea" dove si vede un Chirone, non più Centauro e non più mitico, bensì in
figura di uomo razionale.
la
ragione però non prevede gli errori cui lei stessa conduce
"Il
mio parere preciso, su questo punto, è che è realista solo chi crede nel mito, e
viceversa. Il "mitico" non è che l'altra faccia del realismo"[30].
Il
mito è un'immagine concentrata del mondo e spiega le origini.
Nel film di Pasolini “Medea, sul carro da corsa, allora uccide Apsirto, ne fa
a pezzi il corpo, e getta a uno a uno (per prima la testa) i pezzi smembrati
nella polvere”[31].
Nell’atroce film “Medea” di Lars von Trier (Danimarca, 1988), il
secondo bambino ucciso, il più grande, dice alla madre: “io so quello che deve
succedere”. La Necessità.
Quindi rincorre il fratello più piccolo che cerca di fuggire, aiuta Medea a
impiccarlo, poi si impicca da solo, con l’aiuto dalla mamma che lo tira verso il
basso mentre lo abbraccia, e geme come se avesse un orgasmo.
Infine si inginocchia davanti al bambino impiccato.
Il letto è la vita: “La mia vita è vuota come questo letto” dice una desolata
Medea.
Giasone: lo Stato è una nave e Creonte il suo capitano. Io sono il nocchiero.
Medea: “E’ meglio sanguinare dietro lo scudo che partorire i figli dell’uomo”
(cfr. vv. 250-251).
Giasone: “Se solo gli uomini potessero avere i figli senza l’aiuto delle
donne!”
Vediamo alcune espressioni della fantasia contraria alla natura di generare
figli senza l'unione tra l'uomo e la donna.
Sentiamo di nuovo Giasone nella Medea :"Crh'n
ga;r a[lloqevn poqen brotou;"-pai'da" teknou'sqai, qh'lu d j oujk ei\nai gevno":
-cou{tw" a]n oujk h\n oujde;n ajnqrwvpoi" kakovn" (vv. 573-575),
bisognerebbe in effetti che gli uomini da qualche altro luogo/generassero i
figli e che la razza delle femmine non esistesse:/e così non esisterebbe nessun
male per gli uomini.
Insomma il male è la femmina.
Nell'Ippolito, il protagonista, sdegnato con la matrigna, è
talmente disgustato e terrorizzato dalle donne, ingannevole male per gli
uomini (" kivbdhlon ajnqrwvpoi" kakovn
", v. 616), male grande ("kako;n mevga",
v. 627), creatura perniciosa, o, più letteralmente, frutto dell'ate[32]
("ajthrovn[33]...futovn",
v. 630), che auspica la loro collocazione presso muti morsi di fiere (vv.
646-647) e la propagazione della razza umana senza la partecipazione delle
femmine umane.
Traduco alcune parole del "puro" folle che dà in escandescenze:
"O Zeus perché ponesti nella luce del sole le donne, ingannevole male per
gli uomini ? Se infatti volevi seminare la stirpe umana, non era
necessario ottenere questo dalle donn , ma bastava che i mortali mettendo in
cambio nei tuoi templi oro e ferro o un peso di bronzo, comprassero discendenza
di figli, ciascuno del valore del dono offerto, e vivessero in case libere,
senza le femmine. Ora invece quando dapprima stiamo per portare in casa quel
malanno, sperperiamo la prosperità della casa" (vv. 616-626).
Medea bacia il ginocchio del bambino piccolo che si è fatto male
Giasone dopo averla baciata la schiaffeggia e le grida puttana!
Medea gli risponde: “hai pagato con il tuo corpo!”.
La corona nuziale, regalo di Medea alla sposa, graffia e fa morire anche un
cavallo.
Medea cammina in un deserto ventoso, sabbioso e nebbioso.
Muoiono la ragazza e il padre.
Medea sale sulla nave di Egeo. Si toglie la cuffia e le si sciolgono al vento
i capelli rossi. Il vento scuote l’erba e i capelli di Medea.
Giasone
si abbatte come fulminato e rimane steso con la spada in mano.
L’Edipo re di Pasolini. Un’autobiografia in panni letterari
Edipo rivendica a sé il ruolo erculeo di
vincitore dei mostri.
Ma questa tenebrosa creatura nata da un
incesto, rappresentante del Caos[34]
è stata solo rimossa, non superata moralmente: P. P. Pasolini nel suo film
Edipo re fa gridare alla Sfinge mentre il figlio di Laio la spinge in un
burrone:"L'abisso in cui mi spingi è dentro di te". Edipo infatti ha
molto della sua Sfinge.
Nel quarto episodio dell’Edipo
re Sofocle contrappone la crudeltà dei genitori alla compassione del
servo tebano che non ha eseguito il loro ordine di uccidere il bambino "katoiktivsa"
" (v. 1178), in quanto ne ho avuto compassione, spiega.
P.P. Pasolini nel suo film Edipo re
sottolinea questa risposta con un primo piano del vecchio tebano che dice di non
averlo fatto morire:"per pietà".
Per lo stesso motivo, e anche lui per grandi
mali, si salvò Cipselo, il bambino che sarebbe diventato tiranno di
Corinto, e padre di Periandro.
Cfr.
Kundera
La Medea di Euripide dunque è, come sostiene B. Snell: “ una donna non
comune, di sinistra potenza, e di fronte ad essa il saggio e benpensante Giasone
non è che un miserabile. Questa raffigurazione che Euripide ci dà dell'eroe
del mito greco e della maga barbara, distribuendo luci ed ombre proprio
all'opposto di come accadeva nella veneranda tradizione, ci permette di capire
perché Aristofane rimproverasse al poeta di aver gettato nel fango le nobili
figure del mito. Ma Euripide non lo fa per l'infame piacere di demolire ogni
grandezza, al contrario (e qui Nietzsche ha visto più a fondo di
Aristofane e di Schlegel) lo fa con un'intenzione morale: le
credenze antiche vengono smascherate e demolite, ma per far posto a un senso di
giustizia più vero e per porre un fondamento a questo nuovo dovere. E chi
potrà sottrarsi all'impressione che questa Medea non abbia davvero la ragione
dalla sua, di fronte a questo Giasone?"[35].
Già Epitteto apprezzava la potenza di Medea: “Egli, personalmente, odiava
le vie di mezzo. Medea, nella sua efferatezza, gli riusciva più simpatica che
non i tiepidi, che non fanno nulla ex abundantia cordis ”[36].
Cfr. Matteo 12, 34 ex abundantia enim cordis os loquitur.
Certo, Medea è famigerata per avere ucciso le proprie creature. Lo ha fatto per
colpire Giasone, l’uomo che l’ha usata, colonizzata e abbandonata, il
padre di quei bambini. Ha voluto annientarlo infliggendogli un colpo nell’unico
punto debole che il pragmatico traditore le ha lasciato incautamente scorgere.
Partiamo da questo punto cruciale, risolutivo. Infatti si trova negli ultimi
versi. Poi torneremo indietro.
Nel dialogo conclusivo tra i due ex amanti, Giasone maledice Medea che gli ha
ucciso i figli carissimi (tevkna fivltata,
v. 1397), sostiene . Medea ribatte che solo a lei, alla madre erano cari,
non a lui. Giasone replica: “Per questo li hai ammazzati?”. E la donna: “Per
infliggere pene a te” ( sev ge phmaivnous j,
v.1399).
La Medea di Seneca decide di colpire Giasone nel punto debole che ha
scoperto: vulneri patuit locus (550): ama i figli.
Altri versi chiave, sono quelli con i quali la donna afferma la coscienza
della propria natura . Ella ha piena intelligenza di se stessa e
individua nel proprio animo un conflitto tra la passione furente e i
ragionamenti, quindi comprende che l'emotività, sebbene sia causa dei massimi
mali per gli uomini, è più forte dei suoi propositi:"
Kai; manqavnw me;n oi\\\a dra'n mevllw
kakav,-qumo;" de; kreivsswn tw'n
ejmw'n bouleumavtwn,-o{sper
megivstwn ai[tio" kakw'n brotoi'""( vv. 1078-1080), capisco quale
abominio sto per compiere, ma più forte dei miei ragionamenti è la passione, che
è causa dei mali più grandi per i mortali, dice a se stessa la furente nel
quinto episodio dopo avere preso la decisione folle di uccidere i figli.
Euripide ha capito molto per tempo che i ragionamenti il più delle volte non
sono che sentimenti travestiti.
Posso fornire alcuni passi che contengono il riuso di questa affermazione
:"Nelle lunghe ore che egli passò là, inerte, ragionò anche una volta sui
motivi che l'avevano indotto a lasciare Annetta, ma come sempre il suo
ragionamento non era altro che il suo sentimento travestito"[37].
Nel
romanzo di Musil leggiamo:"Tutto ciò che si pensa è simpatia o
antipatia, si disse Ulrich"[38].
Luogo simile si trova anche in La noia di Moravia:"Ma tutte le
nostre riflessioni, anche le più razionali, sono originate da un dato oscuro del
sentimento"[39].
Ebbene, Medea non vuole travestire i suoi sentimenti. Sa che questi hanno una
forza superiore. Un ottimo scrittore ungherese ribadisce questa coscienza :“ Sa
che cosa ha fatto? Ha cercato di cancellare il sentimento con la ragione.
Come se qualcuno, con i più svariati artifici, tentasse di convincere un pezzo
di dinamite a non esplodere”[40].
Piuttosto emotiva che razionale è anche la Medea, pur innocente, di Christa
Wolf:"era, come potrei dire, troppo femmina, cosa che ne coloriva anche
il pensiero. Lei pensava, ma perché ne parlo al passato, lei ritiene che
le idee si siano sviluppate dai sensi e che non dovrebbero perdere quel
legame. Antiquata naturalmente, superata"[41].
Buoni o cattivi che siano, i sentimenti non si possono soffocare:"Di
nient'altro viviamo se non dei nostri sentimenti, poveri o belli o splendidi che
siano, e ognuno di essi a cui facciamo torto è una stella che noi spengiamo"[42].
Possiamo però indirizzarli, come fa l’auriga della biga alata del Fedro
di Platone.
Alla fine dell’Orestea di Eschilo,
le Erinni diventano Eumenidi: “
Dopo l’intervento razionale di Atena, le Erinni-forze scatenate, arcaiche,
istintive, della natura-sopravvivono: e sono dee, sono immortali. Non si possono
eliminare, non si possono uccidere. Si devono trasformare, lasciando intatta
la loro sostanziale irrazionalità: mutarle cioè da “Maledizioni” in
“Benedizioni”. I marxisti italiani non si sono posti, ripeto, questo problema”[43].
Leopardi:
“Ma la ragione non è mai efficace come la passione.
La ragione non è forza viva.
Non bisogna estinguere la passione colla
ragione, ma convertire la ragione in passione. (Zibaldone, 293-294).
Euripide viene considerato da alcuni il filosofo della scena, il portavoce della
sofistica, "il poeta dell'illuminismo greco"[44].
Nietzsche,
sulla scia di Aristofane e di A. W. Schlegel, lo denuncia quale complice di
Socrate nell’annientare la grandezza eroica, il mito, il dionisiaco e
l’apollineo: “ Se abbiamo dunque riconosciuto che Euripide non riuscì
in genere a fondare il dramma soltanto sull’apollineo, che anzi la sua
tendenza antidionisiaca si sviò in una tendenza naturalistica e non artistica,
potremo ormai avvicinarci all’essenza del socratismo estetico, la cui
legge suprema suona a un dipresso: “Tutto deve essere razionale per essere bello”,
come proposizione parallela al socratico: “solo chi sa è virtuoso”….Per
conseguenza Euripide può essere da noi considerato come il poeta del
socratismo estetico. Ma Socrate era quel secondo spettatore che non
capiva la tragedia antica e perciò non l’apprezzava; in lega con lui Euripide
osò essere l’araldo di una nuova creazione artistica. Se a causa di essa
la tragedia antica perì, il principio micidiale fu dunque il socratismo estetico;
in quanto peraltro la lotta era rivolta contro il dionisiaco dell’arte antica,
riconosciamo in Socrate l’avversario di Dioniso… e, sebbene destinato a essere
dilaniato dalle Menadi del tribunale ateniese, costringe alla fuga lo stesso
potentissimo dio.”[45]
Dodds viceversa considera Euripide
addirittura “il principale rappresentante dell’irrazionalismo del V secolo
: “Euripides remains for us the chief representative of fifth-century
irrationalism; and herein, quite apart from his greatness as a dramatist, lies
his importance for the history of Greek thought ”[46],
e in questo, del tutto a parte dalla sua grandezza come drammaturgo, sta la sua
importanza per il pensiero greco. Indubbiamente questa posizione può essere
sostenuta citando passi della Medea, delle Baccanti e dell’Ippolito.
“As the “moral” of the Hippolytus is that sex is a thing about which
you cannot afford to make mistakes, so the ‘moral’ of the Bacchae is that
we ignore at our peril the demand of the human spirit for Dionysiac experience”
[47],
come la ‘morale’ dell’Ippolito è che il sesso è una cosa sulla quale
non ci si può permettere di fare errori, così la ‘morale’ delle
Baccanti è che noi ignoriamo a nostro pericolo l’esigenza dello spirito
umano di esperienza dionisiaca[48].
Nell’Ippolito
[49],
Fedra, la matrigna innamorata del figliastro, è dilaniata da un
conflitto interno che le suggerisce tale considerazione: " il bene lo
conosciamo e riconosciamo,/ma non lo costruiamo nella fatica (oujk
ejkponou'men), alcuni per infingardaggine
ajrgivaς
u[po,/alcuni anteponendogli qualche altro piacere./ E sono
molti i piaceri della vita:/lunghe conversazioni (makraiv
te levscai), l'ozio (scolhv)
, diletto cattivo, e l'irrisolutezza (aijdwvς)"(vv.
380-385).
E’
esattamente l’opposto di quanto sostiene il Socrate di Platone.
“Ciò che rende caratteristici gli eroi
euripidei è la tensione tra gli estremi della ragione e quelli dell’emozione.
“Se il razionalismo di Socrate, e poi di
Platone, affermavano che il male ha la sua radice nell’ignoranza, dato che
chi conosce ciò che sia bene non può fare altro che ricercarlo, per gli eroi
euripidei vale invece ciò che ha scritto Tucidide (III, 45): “è impossibile che
la natura umana, quando si slancia con avidità su qualche progetto (th'~
ajnqrwpeiva~ fuvsew~
oJrmwmevnh~ proquvmw~ ti pra'xai),
trovi un freno nella forza delle leggi (novmwn
ijscuvi)
o in qualche altra minaccia”[50].
Nel film di Pasolini, Giasone attraversa due fasi: “All’inizio, quando
era bambino, Giasone vedeva nel centauro un animale favoloso, pieno di poesia.
Poi, man mano che passava il tempo, il centauro è divenuto ragionatore e saggio,
ed è finito col divenire un uomo uguale a Giasone. Alla fine, i due centauri si
sovrappongono, ma non per questo si aboliscono. Il superamento è un’illusione.
Nulla si perde”[51].
Questo pragmatismo è messo in luce chiaramente da Euripide quando Giasone
dichiara di avere voluto cambiare donna, prendendo la principessa di Corinto,
non perché odiasse la madre dei suoi figli, o perché ne volesse altri, ma per
la cosa più importante: vivere bene, lui con la famiglia (o le famiglie) e senza
restrizioni (ajll j wJ", to; men; mevgiston,
oijkoi''men kalw'"-kai; mh; spanizoivmeqa" (vv. 559-560) sapendo con
certezza che il povero tutti lo sfuggono, anche se amico.
Egli insomma "dra'/ ta; sumforwvtata
" (v. 876) fa quello che è più utile, come riconosce la donna abbandonata,
quando finge di sottomettersi, beffeggiandolo.
Giasone non cambia donna per il fatto di averne trovata una più buona o più
bella, in quanto egli non è capace di giudicare eticamente o “esteticamente,
cioè disinteressatamente”[52].
Medea ammazza i figli, ma tra i due amanti-antagonisti il personaggio odioso è
senz'altro Giasone.
Ma torniamo all’inizio, anzi all’antefatto della tragedia. Medea, principessa
della Colchide, figlia del re Eeta e di Idea, nipote del Sole, di Oceano e di
Circe, maga e allieva di Ecate, ha aiutato Giasone a impadronirsi del vello
d’oro, impresa che sarebbe stata irrealizzabile dal figlio di Esone senza
l’aiuto della ragazza innamorata.
Medea è ancora una ragazza innocente e piena di mistero.
Dopo la conquista del prezioso manto i due fuggono. Inseguiti dai Colchi guidati
dal fratello di Medea, Apsirto[53],
lo uccidono, lo fanno a pezzi e ne spargono il corpo nel mare per ritardare
l’inseguimento. Dopo varie vicissitudini raccontate da Apollonio Rodio
nelle Argonautiche, arrivano in Tessaglia da dove la spedizione
era partita “quando Giason dal Pelio/ spinse nel mar gli abeti”[54].
Qui il perfido Pelia, l’usurpatore zio di Giasone, non sta ai patti e non gli
consegna il regno che gli aveva promesso e gli spettava. Allora le ragazze
figlie del re vengono convinte da Medea a cuocere il padre in una caldaia per
ringiovanirlo. Il vecchio invece, naturalmente, ci lascia la pelle. Soltanto
Alcesti, che nel catalogo delle navi e degli eroi dell’Iliade è ricordata
come madre di Eumelo, e come la più bella delle figlie di Pelia (II, 715) ed
è la protagonista eponima di un’altra cara tragedia[55]
di Euripide, non cadde nel tranello e non partecipò al misfatto.
Ovidio racconta la storia dello scempio nelle Metamorfosi (VII, vv.
297-363). Medea ingannò e convinse le figlie ringiovanendo un montone disfatto
da innumerevoli anni (innumeris effetus laniger annis, v. 311).
Tira fuori dalla caldaia un agnellino che bela teneramente, saltella e cerca le
poppe materne.
Dopo il nuovo delitto, i due amanti devono fuggire un’altra volta e si rifugiano
a Corinto dove Giasone conosce la figlia del re, Creonte, e da seduttore
incallito qual è, la fa innamorare, e, da pragmatico, vuole sposarla per
migliorare la propria posizione socio economica e quella dei figli che Medea nel
frattempo gli ha dato. La donna abbandonata, come già Ipsipile dallo stesso
Giasone nel viaggio di andata a Lemno, o Arianna piantata in asso da Teseo a Dia[56],
si riempie di disperazione.
A questo punto inizia la tragedia di Euripide. (Prologo, vv. 1-130)
La nutrice della donna abbandonata esecra la nave Argo con i suoi “nobili
eroi” che hanno rapito Medea: “ Oh se lo scafo di Argo non fosse passato a volo
attraverso-le cupe Simplegadi fino alla terra dei Colchi,
(vv. 1-2).
Sulla maledizione di Argo e del navigare in generale insisterà la Medea
di Seneca che considera l’invenzione delle navi quale portatrice di caos
per il fatto che ha creato confusione mettendo a contatto popoli che dovevano
restare separati. Gli Argonauti hanno fatto una brutta fine. Vediamo alcune
parole del terzo coro :"Quisquis
audacis tetigit carinae/nobiles remos nemorisque sacri/Pelion densa spoliavit
umbra,/ quisquis intravit scopulos vagantes/et tot emensus pelagi labores/barbara
funem religavit ora/raptor externi rediturus auri,/exitu diro temerata
ponti/iura piavit./Exigit poenas mare provocatum " ( Medea,
vv. 607-616), tutti quelli che toccarono i remi famosi della nave audace, e
spogliarono il Pelio dell'ombra densa della foresta sacra[57];
chiunque passò tra gli scogli vaganti e, attraversati tanti travagli del mare,
gettò l'ancora su una barbara spiaggia, per tornare impossessatosi dell'oro
straniero, con morte orribile espiò le violate leggi del mare.
Fa pagare il fio il mare provocato.
Alla fine del coro, i Corinzi chiedono agli dèi di graziare Giasone, di
risparmiargli l’exitus dirus, (cfr. v. 614), la morte orribile
degli altri Argonauti, dato che egli è partito iussus: “Iam satis,
divi, mare vindicastis:/parcite iusso” ( Medea, v. 668- 669).
Seneca è più innocentista di Euripide nei confronti di Giasone, e più
colpevolista nei confronti di Medea che nella tragedia latina incarna il
furor. “ Il risultato del caos cosmico provocato dalla prima nave è
Medea, emblema del caos etico ", sostiene Biondi[58].
Ma torniamo alla nutrice Euripidea. La donna racconta che Medea è fallita
nell’amore e non si è ambientata tra i Greci nonostante abbia cercato di
piacere (ajndavnousa, v. 11) a
Giasone e ai Corinzi. Ora la fantastica donna oltraggiata[59]
(hjtimasmevnh, v. 20) è infuriata e
odia i figli (stugei' paivda~,
v. 36). Ella è deinhv (v.
44), tremenda e certamente prepara qualche cosa di terribile. Ma pure nella sua
furia, sotto il colpo della sciagura, ha compreso quale bene significhi non
essere privi della patria terra.
Arriva quindi il pedagogo portando la brutta notizia che il re Creonte,
nuovo suocero di Giasone, ha deciso di cacciare Medea e i figli dalla terra
corinzia. Il vecchio aio lamenta pure il generale egoismo dovuto al lucro (kevrdou~
cavrin, v.87 ) e la totale inimicizia vigente tra gli uomini (v. 86).
Intanto cominciano a sentirsi le urla di Medea dall’interno. Sono grida
di maledizione contro se stessa, contro Giasone e i loro figli: “:o
maledetti-figli (w\ katavratoi pai'de~
stugera'~ matrov~) di madre odiosa, possiate morire-con il padre, e tutta
la casa vada in malora” (vv. 112-114). La nutrice commenta con queste
parole: “, Terribili sono le volontà dei potenti (deina;
turavnnwn lhvmata) poiché di rado- come che sia, sottostanno, spesso
spadroneggiano,- e difficilmente elaborano le ire (calepw'~
ojrga;~ metabavllousin ) v. 119- 121.
Nella Parodo (vv. 131-212) c’è uno scambio di lamenti fra il Coro, la
nutrice, e Medea ancora chiusa nelle sue stanze da dove giungono le sue grida.
La donna della Colchide maledice ancora Giasone (to;
katavroton-kataravomai)
il maledetto traditore che aveva giurato, e che l’aveva spinta ad ammazzare
il fratello. Le donne corinzie del coro le manifestano solidarietà. La nutrice
ha già notato gli sguardi furibondi e feroci della donna: “Certo è che ella
lancia sui servi sguardi bestiali-di leonessa appena sgravata” (
tokavdoς
devrgma leaivnhς, vv. 186-187).
“Bipede leonessa” era Clitennestra nell’Orestea di Eschilo[60].
La nutrice poi dice alcune parole che possono costituire la poetica di
Euripide: la poesia dovrebbe alleviare le angosce degli uomini, non
allietare i banchetti, già allegri per conto loro: “ Questo sì sarebbe un
guadagno (kevrdo~[61]):
guarire-con le melodie i mortali; ma dove ci sono lauti banchetti-imbanditi,
perché elevano invano la voce?- Infatti l'abbondanza che c'è della
mensa-contiene gioia da sé per i mortali” (vv. 199- 203).
Funzione terapeutica della poesia dunque.
Questa polemica può applicarsi a quanto afferma Telemaco nel primo canto dell'Odissea:
il cantore deve dilettare ("tevrpein",
v. 347) gli uomini che già godono (v. 369) del banchetto, ed essi apprezzano
maggiormente il canto che suoni più nuovo a chi ascolta (vv. 351-352).
All’inizio del
primo episodio (vv. 214-409)
entra in scena Medea con
una tirata di femminismo antico. Si rivolge alle donne di Corinto (v. 214) che
la ascoltano e la comprendono. La donna abbandonata lamenta l’ingiustizia subita
e quella generale: “divkh
ga;r ouj e[nest j ejn ojfqalmoi'~ brotw'n”
(v. 219).
Lei si sente finita poiché
aveva puntato tutto sul marito che si è
rivelato
kavkisto~
ajndrw'n
(v. 229), il
peggiore degli uomini.
Ma è
la condizione generale della donna, soprattutto
se straniera, a essere infelice.
Le femmine umane prima di tutto con una grossa dote devono
comprarsi lo sposo,
un padrone del corpo per giunta (povsin
privasqai, despovthn te swvmato~,
v.
233). Poi non è
detto che quel padrone sia buono. Il
matrimonio è
ajgw;n mevgisto~
(v. 235), la gara massima.
Se va male, è una
tragedia: infatti non danno
buona fama le separazioni alle donne (ouj
ga;r eujkleei'~ ajpallagai;-gunaixivn),
e non è possibile ripudiare lo sposo (vv. 236-237).
Questo già per le Greche.
L’ immigrata
poi ha il problema aggiunto di comprendere nuove usanze e si trova del tutto
isolata da ogni altra relazione sociale: se il matrimonio non funziona, il
marito esce e si cerca altre compagnie, mentre lei rimane murata tra le pareti
domestiche a disperarsi.
Anche per le Ateniesi non era facile uscire di casa.
Nella Lisistra[62]
Aristofane fa dire all'ateniese Cleonice:"caleph;
toi gunaikw'n e[xodo" "(v. 16), è difficile per noi donne uscire.
Infatti, spiega questa sposa, una di noi deve attendere il marito, l'altra deve
svegliare lo schiavo, l'altra mettere a letto il bambino, l’altra lavarlo,
l'altra imboccarlo (vv. 17-20).
I maschi possono
replicare che loro fanno la guerra, ma, controbatte Medea, io preferirei stare
tre volte accanto a uno scudo che partorire una volta sola (ma'llon
h] tekei'n a{pax”
v. 250- 251).
Ma lei non subirà l’oltraggio senza reagire e la farà pagare a Giasone, al suo
suocero e alla sua fidanzata.
“La donna infatti per il resto è piena di paura- sostiene-e vile davanti a un
atto di forza e a guardare un'arma;-ma quando venga offesa nel letto,-non
c'è non c'è altro cuore più sanguinario. (
o[tan d j ej~ eujnh;n hjdikhmevnh kurh'/-ouj
e[stin a[llh frhvn miaifonwtevra)vv. 263- 266).
Il letto
Nelle tragedie di Euripide, particolarmente in questa e nell'Alcesti,
il letto è il locus sacer della casa. "Nella casa di Alcesti e di Admeto,
come nel loro dramma, è il letto il mobile più importante"[63].
Nell'Alcesti la sposa che muore per
salvare il marito si commuove soprattutto davanti al letto : "Poi, gettatasi
nel talamo (qavlamon) e sul letto (levco")/
qui scoppiò a piangere e disse così:/o letto (levktron)
dove io ebbi sciolta la verginità/da quest'uomo per il quale muoio/addio:
infatti non ti odio, poiché tu hai mandato in rovina me/sola: io muoio non
volendo tradire te e/lo sposo. Un' altra donna ti possederà,/più casta no,
più fortunata forse"(vv.175-182)[64].
Alcesti procede gettandosi sopra il letto e baciandolo (kunei'
de; prospivtnousa , pa'n de; devmnion,
v. 183.).
Un gesto ripetuto da Didone morente (os impressa toro,
Eneide , IV, 659, imprimendo le labbra sul letto). Sicché il bacio al
letto, anzi al letto della propria morte per amore, è un topos gestuale.
Anche tra gli dèi, e le dèe dell'Olimpo il
levktron è un mobile assai importante: infatti nell'Eracle
di Euripide, l'eroe dorico critica i numi in generale, ed Era
in particolare la quale, gunaiko;"
ou{neka-levktrwn, per i letti di una donna, ossia di Alcmena,
ha mandato in rovina i benefattori della Grecia che non erano in nessun modo
colpevoli (vv. 1308-1310). “Chi potrebbe pregare una dea del genere dunque?”
Torniamo a Medea.
Arriva Creonte che ordina alla donna di andare in esilio con i figli. Alla
richiesta di una spiegazione, il re di Corinto risponde
devdoikav s j (282), ho paura di
te. Teme Medea per sé e per la figlia in quanto ritiene la straniera
sofhv kai; kakw'n pollw'n i[dri~
(v. 285), sapiente ed esperta di molti malefici, e pronta a metterli in atto
siccome privata del letto dell'uomo
levktrwn ajndro;~ ejsterhmevnh (v. 286).
Di nuovo il letto, poi la paura della donna che suggerisce diverse
espressioni letterarie e no agli uomini.
Catone proclama la necessità della sottomissione della femina al
fine di tenere sotto controllo una natura altrimenti riottosa e sfrenata .
Così si esprime il Censore quando parla, nel 195 a. C., contro l'abrogazione
della lex Oppia che, dal 215, imponeva un limite al lusso delle matrone[65]
le quali erano scese in piazza proprio per manifestare a favore
dell'annullamento della legge:" Maiores nostri nullam, ne privatam quidem rem
agere feminas sine tutore auctore voluerunt, in manu esse parentum, fratrum,
virorum...date frenos impotenti naturae et indomito animali et sperate ipsas
modum licentiae facturas...omnium rerum libertatem, immo licentiam , si vere
dicere volumus, desiderant… Extemplo simul pares esse coeperint,
superiores erunt "[66],
( Livio, Storie, XXXIV, 2, 11-14; 3, 2) i nostri antenati non vollero che
le donne trattassero alcun affare, nemmeno privato senza un tutore garante, e
che stessero sotto il controllo dei padri, dei fratelli, dei mariti...allentate
il freno a una natura così intemperante, a una creatura riottosa e sperate pure
che si daranno da sole un limite alla licenza...desiderano la libertà, anzi, se
vogliamo chiamarla con il giusto nome, la licenza in tutti i campi…. appena
cominceranno a esserci pari, saranno superiori.
“le carte vanno prima truccate, l'uomo deve ricevere un vantaggio"[67].
Come in una corsa a handicap dove l'handicappato è l'uomo. Lo afferma
apertamente Marziale[68]
nella clausula di un suo epigramma:" Inferior matrona suo sit,
Prisce, marito:/non aliter fiunt femina virque pares " (VIII, 12, 3-4),
la moglie, Prisco, stia sotto il marito: non altrimenti l'uomo e la donna
diventano pari.
Sentiamo una ripresa dostoevskijana di questo
topos: “Ma non è forse vero che voi,” lo[69]
interruppe di nuovo Raskolnikov, con una voce tremante d’ira in cui si
sentiva il gusto di offendere, “non è forse vero che alla vostra
fidanzata…proprio nel momento in cui ricevevate il suo consenso…voi avete
detto che più di tutto eravate lieto che fosse povera…perché è più vantaggioso
togliere la moglie dalla miseria in cui vive, per poi poterla dominare…e
poterle rinfacciare d’averla beneficata?”[70].
Medea
ribatte dicendo che la sua fama di sapiente
le ha procurato solo invidia; del resto, aggiunge,
eimi; d j oujk a[gan sofhv
(v. 305), non sono troppo sapiente.
Quindi supplica Creonte di non cacciarla
poiché non ha cattive intenzioni. Ma il re di Corinto continua ad avere paura,
anzi terrore (ojrrwdiva,
v. 317). Creonte vacilla e Medea impreca contro l’amore chè è un
kako;n mevga
(v. 330), un male grande per i
mortali.
La fobia dell'amore e del sesso. Apollonio Rodio e Virgilio.
Le
Argonautiche, che descrivono la fase iniziale dell'amore di Medea per
Giasone, sono piene di anatemi di Eros: il dio, quando arriva, mandato
dalla madre Afrodite, per costringere Medea ad amare e aiutare Giasone, è
invisibile, sconvolgente (tetrhcwv~,
Argonautiche, 3, 276), come l’assillo (oi\stro~)
che si scaglia sulle giovani vacche[71].
Rapidamente questo dio del dolor prese una freccia dolorosa: “poluvstonon
ejxevlet j ijovn” (v. 279). La freccia ardeva profonda nel cuore della
ragazza, come una fiamma (flogi; ei[kelon,
v. 287), ed ella consumava l’anima in una dolce afflizione: “glukerh'/
de; kateivbeto qumo;n ajnivh/” (v. 290).
Quindi ardeva in segreto Eros funesto: “ai[qeto
lavqrh/ ou\lo~ [Erw~ ” (vv. 296-297).
Come Giasone appare splendidissimo al desiderio di Medea, il giovane
prestante viene paragonato a Sirio che si leva alto sopra l'Oceano, bello e
splendente però reca sciagure infinite alle greggi: così il figlio di Esone
portava il travaglio di un amore angoscioso (Argonautiche, 3, vv.
957-961).
L'infelicità è connessa all'amore prima ancora che questo si realizzi: quando la
ragazza si avvia incontro a Giasone, che è stato salvato da lei e le ha promesso
le nozze, la Luna la osserva e, con parole ambigue tra la simpatia e il
dispetto, le dice: il dio del dolore ("daivmwn
ajlginovei"", 4, v. 64) ti ha dato il penoso Giasone per la tua
sofferenza. Va' allora e preparati in ogni modo a sopportare, per quanto
sapiente tu sia, il dolore luttuoso.
Questo presunto amore di Medea e Giasone non dona gioia ai due amanti, anzi
produce orrori: dopo che i due scellerati hanno concordato l’assassinio del
fratello di lei, lo stesso autore del poema rivolge un'apostrofe ad Eros
quale latore di infiniti dolori: “ Eros atroce, grande sciagura, grande
abominio per gli uomini ("Scevtli j [Erw",
mevga ph'ma, mevga stuvgo" ajnqrwvpoisin") da te provengono maledette
contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si agitano per giunta. Ármati
contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti l'accecamento odioso
nell'animo di Medea (oi|o"
Mhdeivh/ stugerh;n fresi;n e{mbale" a[thn)",
Argonautiche, 4, vv. 445- 449).
L'amore sembra legato alla pena da un vincolo di necessità. Si ricorderà che
anche Virgilio apostrofa l’amore come un dio malvagio : “Improbe Amor,
quid non mortalia pectora cogis!” (Eneide, IV, 412).
Ma torniamo alla tragedia di Euripide. Alla fine Medea chiede un sol giorno (mivan…hJmevran,
v. 340) e Creonte glielo concede perché, dice, la mia natura non è tirannica
e provo pietà, anche con mio discapito.
Il potere infatti non è compatibile con la pietà[72].
Quindi concede un giorno. Rimasta sola, Medea esulta. Ella non avrebbe mai
blandito uno sciocco del genere se non per il proprio vantaggio (eij
mh; ti kerdaivnousan, v. 369). E’
entrata nel campo del pragmatico Giasone, quello del
kevrdo~ ed è più brava dei suoi
nemici.
Una Medea che ricusa il criterio unico e assoluto dell'utile, siccome
conosce la generosità, è quella di Christa Wolf[73].
Si vede bene dal monologo[74]
di Acamante, l'astronomo di corte del re di Corinto. "Giacché tutto dipende
da che cosa si vuole davvero e da che cosa si considera utile, dunque buono e
giusto. Questa frase Medea non la contestò del tutto, respinse solo
quell'importante e centrale "dunque". Ciò che era utile non doveva
necessariamente essere buono. Dèi! Come ha tormentato me e soprattutto se stessa
con quella parolina "buono"! Si affannava a spiegarmi quel che, a quanto
pare, intendevano con buono in Colchide. Buono era ciò che favoriva il
dispiegamento di tutto l'esistente. Dunque la fertilità, dissi. Anche, disse
Medea, e cominciò a parlare di certe forze che legavano noi umani a tutti gli
altri esseri viventi e che dovevano fluire liberamente perché la vita non
ristagnasse"[75].
Ma questa di Euripide è un’altra persona. Se non annienterà i suoi nemici,
verrà derisa. Questo è il terrore dell’eroe tragico: di Aiace e anche di
Antigone che si uccidono.
Ma Ecate sarà la collaboratrice Di Medea .
Ecate
Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, Argo, figlio di Calciope,
la donna “dalla faccia di bronzo”, sorella di Medea, propone ai compagni di
cercare l'aiuto di sua zia, una ragazza che la dea Ecate[76]
ha particolarmente istruito a preparare farmaci, quanti ne produce la terra
e il mare copioso. Con questi, ella mitiga la vampa del fuoco instancabile, e
ferma in un attimo i fiumi che scorrono strepitosamente e inceppa gli astri e le
sacre vie della luna (III, 528-533). Medea, secondo Apollonio, era
sacerdotessa di Ecate e tutto il giorno si prendeva cura del suo tempio (vv.
250-251).
Ecate compare anche nel Macbeth:
si rivolge alle streghe rimproverandole di non averla consultata, dato il suo
ruolo:"And I, the mistress of your charms,/the close
contriver of all harms,/was never called to bear my part,/or show the glory of
our art?" (III, 5), e io, la signora dei vostri incantesimi,
la segreta progettatrice di tutti i mali, non sono mai stata chiamata a fare la
mia parte, o a mostrare la gloria dell'arte nostra?.
Ecate, come le Erinni, appartiene “a quella “mitologia inferiore”, che
raramente penetra in Omero; essa vorrebbe conoscere molte cose che stanno fra
cielo e terra, di cui l’epos aristocratico non ha notizia alcuna”[77].
Il primo episodio si chiude con una sentenza antifemminista di Medea: “Poi lo
sai: oltretutto noi donne siamo- per natura assolutamente incapaci di nobili
imprese, -ma le artefici più sapienti di tutti i mali. (
kakw'n de; pavntwn tevktone~ sofwvtatai
vv. 407- 409.
Il primo stasimo (v. 410-445) lamenta la malafede, in particolare
quella degli uomini. E’ un grido di rivolta contro la malevola
considerazione delle donne diffusa dai poeti: “le Muse degli antichi
poeti smetteranno-di celebrare la mia infedeltà (vv. 421-422).
Muse degli antichi poeti
Già Omero nell'XI dell'Odissea aveva fatto dire ad Agamennone, finito
nell'Ade dopo essere stato trucidato dalla moglie:"
oujk aijnovteron kai; kuvnteron a[llo
gunaikov~”, non c’è niente di più atroce e cane di una donna (v.
427). L’Atride racconta come venne massacrato con i compagni: come si uccide un
bue alla greppia (v. 411). Quindi consiglia a Odisseo di approdare di nascosto:
Penelope è saggia, ma non si sa mai: “
ejpei; oujkevti pista; gunaixivn"
(v. 456), poiché non c'è più credibilità riguardo alle donne. La maldicenza
letteraria, nata dalla malevolenza, nei confronti di questo "popolo nemico"[78],
diviene sistematica con Esiodo che nelle Opere afferma : chi si
fida di una donna, si fida dei ladri (v. 375). Di lì procede fino ai giorni
nostri.
Ma, obietta il coro della Medea, se Apollo avesse concesso anche a noi il
dono della poesia, avrei intonato un inno di risposta alla razza dei maschi
(vv. 426-427). Il canto si chiude con la desolata constatazione che il
rispetto dei giuramenti (o[rkwn cavri~)
, e il pudore (aijdwv~, v.
439) sono spariti dall’Ellade.
L’ingresso di Giasone apre il secondo episodio (vv. 446-626). Il
perfido seduttore sgrida Medea per i suoi capricci, senza prendersela troppo per
le maledizioni che riceve. Medea lo aggredisce subito, apostrofandolo con un:
“w\
pagkavkiste” (v. 465), O
scelleratissimo! Poi procede con e[cqisto~
(v. 467),
odiosissimo, e altri impropèri. Inoltre gli rinfaccia tutti gli aiuti che gli ha
dato, contro i tori, contro il drago, contro i propri familiari, in primis il
proprio padre Eeta.
Eppure la o[rkwn pivsti~, la fede
dei suoi giuramenti è sparita (frouvdh,
v. 492). Dovrebbe vergognarsi di abbandonare nella desolazione lei e i loro
figlioli.
La Corifea commenta che deinhv ti~
ojrghv, (520) un’ira tremenda interviene quando una cattiva
e[ri~ si insinua tra amanti.
La cattiva competizione tra amanti
In Anna Karenina, nell'amore di Anna e Vronskij a un certo punto entra
la cattiva Eris, ossia lo spirito della lotta distruttiva dovuta al fatto che
l'uomo si allarma per la propria autonomia minacciata dall'amante; ella a sua
volta:" sentì che, a fianco dell'amore che li univa, fra loro si era
insediato un certo malvagio spirito di dissidio e che lei non poteva
scacciarlo dal cuore di lui, né, ancor meno, dal proprio"[79].
Perfino le espressioni di approvazione diventano sospette e allarmanti quando
l'amore, in uno solo dei due, è in fase calante:" C'era qualcosa di offensivo
nel fatto che egli avesse detto ‘Questo sì che va bene’, come si dice ai bambini
quando smettono di fare i capricci; e ancor più offensivo era quel contrasto
fra il tono di colpa che aveva lei e quello sicuro di sé di lui: e per un
istante Anna sentì sollevarsi dentro di sé il desiderio di lotta; ma, fatto
uno sforzo su se stessa, lo soffocò e accolse Vrònskij con la stessa allegria di
prima" (p. 746). Tuttavia la dissimulazione non regge:" anche sapendo che si
rovinava, non poté non fargli vedere quanto lui avesse torto, non poteva
sottomettersi" (p. 747).
Giasone risponde in maniera impudente. L’aiuto lui lo ha ricevuto solo da
Cipride che ha inviato Eros con le frecce. Comunque Medea ci ha
guadagnato dalla vicenda poiché ora, grazie a lui, vive nell’Ellade. Poi è
diventata famosa per la sua sapienza. Del resto anche io sono
sofov~ (548), sostiene, sono stato
abile a fidanzarmi con la figlia del re, e questo ridonderà a vantaggio dei
nostri figli e anche tuo. Il povero, ciascuno lo sfugge: non lo vuole tra i
piedi neppure l'amico (v. 561). E tu te la prendi per uno sgarbo sessuale!
Le ultime parole sono assai dure e menzionano ancora una volta il letto: “Ma a
tanto giungete, che, quando vi va dritta-nell'alcova (ojrqoumenvh~[80]-eujnh`~),
voi donne pensate di avere tutto,-se invece capita qualche congiuntura
nel letto,-anche i rapporti migliori e più belli rendete- atti di guerra feroce.
Bisognerebbe in effetti che gli uomini da qualche altro luogo-generassero i
figli e che la razza delle femmine non esistesse:- e così non esisterebbe nessun
male per gli uomini. (vv. 569-575).
E’ la fantasia contro natura di generare figli senza le donne. Parole
simili dice Ippolito. Poi altri personaggi della letteratura: Rodomonte
scartato da Doralice nell’Orlando Furioso, Postumo che si crede
tradito da Imogene nel Cimbelino di Shakespeare, Adamo nel Paradiso
perduto di Milton, puritano d’incrollabile fede.
Medea, come Antigone, rivendica la propria diversità dai mortali (eijmi
diavforo~ brotw'n, v. 579).
Quindi dà del sofista a Giasone che parla in maniera ingannevole.
La lingua e le azioni
Nel Filottete di Sofocle Odisseo, la consumata volpe, chiarisce al
giovane Neottolemo il percorso che l'ha portato a prediligere la
glw'ssa rispetto agli
e[rga, le azioni:"
ejsqlou' patro;" pai', kaujto;" w]n nevo"
pote;- glw'ssan me;n ajrgo;n, cei'ra d j ei\con ejrgavtin:-nu'n d j eij"
e[legcon ejxiw;n oJrw' brotoi'"-th;n glw'ssan, oujci; ta[rga, panq j
hJgoumevnhn" (vv. 96-99), figlio di nobile padre, anche io da giovane
un tempo, avevo la lingua incapace di agire, la mano invece operosa; ora
però, giunto alla prova, vedo che per gli uomini la lingua ha la supremazia
su tutto, non le azioni. Quindi suggerisce la frode al giovane figlio di
Achille cui giustamente ripugna ta; yeudh'
levgein (v. 108), dire le menzogne.
Infatti la parola è un'arma potentissima, dal doppio taglio.
La lingua può essere un fuoco che trae la sua fiamma dalla Geenna, sostiene
l’apostolo Giacomo (kai;
flogizomevnh uJpo; th'" geevnnh")
[81].
I due continuano a litigare, ma Giasone offre un aiuto in denaro (611).
Medea non lo accetta e lo allontana con uno spòsati! (nuvmfeu
j ) Ma un giorno te ne pentirai! (v. 625).
Nel secondo Stasimo (vv.627-662) il Coro delle Corinzie invoca
Cipride perché non invii amori smodati ma si avvicini con leggerezza e misura:
castità le protegga e preservi da talami vietati regolando con accortezza i
letti delle donne.
“Mi abbia cara castità (swfrosuvna),
il più bel dono degli dèi” (vv. 635-636), pregano. Il male più grande è
essere privato della patria, con la casa e il letto.
Nel terzo Episodio (vv. 663-823) Medea riceve promessa giurata di
ospitalità da Egeo, quindi rivela al Coro i suoi progetti omicidi.
Entra in
scena il re di Atene al ritorno da Delfi dove è andato poiché non ha
avuto figli. Sta recandosi a Trezene per interrogare Pitteo, un figlio di
Pelope. Il dio gli ha detto che non deve sciogliere il piede sporgente
dall’otre (ajskou` me to;n prouvconta mh;
lu`sai povdan. 679). Un modo enigmatico per suggerirgli di non fare
sesso[82].
Medea gli
chiede di darle ospitalità.
Atene
viene rappresentata dai tre tragici come la città che aiuta i supplici e gli
esuli (Eumenidi,- Eraclidi e Supplici, di Euripide -Edipo
a Colono).
Medea contraccambierà Egeo con dei
favrmaka (v. 718) che vincono la sterilità. Il re le promette ospitalità,
ma Medea dovrà recarsi ad Atene da sola. Egli vuole essere privo di colpa (ajnaivtio~
v. 730) verso il suoi ospiti. Medea lo fa giurare per la terra, per il Sole
padre di suo padre e per tutti gli dèi.
L’utilitarismo di Giasone è miope: ha fatto torto alla nipote del Sole per
sposare una principessotta di provincia!
Egeo si allontana, e Medea esulta invocando: “
w\
Zeu', Divkh te Zhno;~ , J Hlivou te fw'~”(v.
764), Zeus, Giustizia figlia di Zeus e la luce del Sole.
Nel film di Pasolini che impiega, verbum de verbo, solo questo
verso della tragedia di Euripide, e per tre volte lo fa pronunciare a Medea per
giunta echeggiata dal Coro[83],
il Centauro maestro di Giasone mette in rilievo " il suo disorientamento di
donna antica in un mondo che ignora ciò in cui lei ha sempre creduto"[84].
Il culto del Sole è un tratto arcaico che attraversa molti autori della
letteratura europea[85].
Il sole invitto esorta Medea a tornare nelle sue "vecchie spoglie"[86].
Questo arcaismo differenzia la donna dal popolo civilizzato di Corinto, e il re
Creonte[87]
si fa portavoce dell’ intolleranza nei confronti di tale diversità :"E' noto a
tutti in questa città che, come barbara, venuta da una terra straniera, sei
molto esperta nei malefici. Sei diversa da tutti noi: perciò non ti
vogliamo tra noi"[88].
A queste parole Medea replica: “Invece è così povera questa mia sapienza”
(scena 66).
E' l'eterno rifiuto della diversità da parte dell'uomo civilizzato e incolto,
del borghese razzista insomma. Cfr. Leopardi sulla diversità.
Quindi la Medea di Euripide comunica alla corifea il suo progetto: mandare i
figli dalla fidanzata sciocca con doni letali: un peplo e una corona d’oro.
La faranno morire in modo orribile.
Secondo Christa Wolf invece Medea è addirittura protettiva nei
confronti della ragazza di Corinto. Ecco quanto Giasone nel suo monologo
ricorda di avere sentito dalla madre dei suoi figli, la quale gli parlava senza
essere stata corrotta dal rancore:"Ma tu, ascolta bene quello che ti dico,
non fare del male a Glauce. Perché ti ama, ed è fragile, molto fragile…Non
ne proverai gioia. Non proverai mai più molta gioia. Le cose si stanno
mettendo in un modo che non solo quelli che sono costretti a subire un torto, ma
anche quelli che il torto lo fanno saranno scontenti della loro vita. Del
resto mi domando se il piacere di distruggere la vita degli altri non dipenda
dal fatto che si ricava pochissimo piacere e pochissima gioia dalla propria"[89].
Questa Medea di Euripide invece vuole fare una strage: ucciderà Glauce, Creonte
e i propri i figli. Ouj ga;r gela'sqai
tlhto;n ejx ejcqrw'n, fivlai (v. 797), infatti non è sopportabile essere
derisa dai nemici, amiche. E’ la morale arcaica, per non trasgredire la
quale Aiace si uccide. Segue un’espressione di civiltà di vergogna: la
reputazione conta più della propria coscienza: “ Nessuno mi creda una donna
ordinaria e debole-né mite, ma di tutt’altra indole,- violenta con i nemici e
benevola con gli amici;- infatti la vita di tali persone è piena di gloria.
(vv. 807- 810).
Il terzo stasimo (vv. 824-865) contiene il mito di Stato, ossia
della polis ateniese.
Il Coro intona un canto che celebra Atene, l’Attica e i suoi abitanti.
Una regione felice per la sua civiltà nobile e antica, rigogliosa e vergine, e
per l’atmosfera luminosa dove sono fiorite le arti. L’amenità del clima e del
paesaggio contribuiscono allo sviluppo di una cultura che rende bella la vita.
Atene per tradizione accoglie generosamente gli ospiti e concede rifugio ai
supplici, ma come potrà proteggere una madre che ha assassinato i propri
figlioli? Le donne del coro dunque pregano Medea di astenersi dall’empio
delitto per il quale del resto sarebbe necessaria un’audacia disumana che
segnerebbe l’inizio di una vita piena di pianto.
Quarto Episodio (vv. 866-975).
Entra Giasone con atteggiamento conciliante:
ascolterà quanto l’ex moglie vuole dirgli. Pure Medea assume toni civili, quasi
amichevoli: recita, fingendo, la parte della donna che dal dolore è stata
portata a eccessi dei quali poi però, ragionando, si è pentita. Dopo tutto è
vero che Giasone ha fatto la scelta più vantaggiosa per tutti (o}~
hJmi'n dra'/ ta; sumforwvtata, v. 876):
perché biasimarlo?
Il
qumov",
la passionalità l’ha fatta sragionare, ma ora capisce: non c’è motivo di
prendersela quando gli dèi provvedono bene. La colpa dunque è tutta sua, di lei:
avrebbe dovuto aiutare Giasone a realizzare i progetti nuziali. Le donne sono
creature misere, neanche buone: Giasone casomai ha avuto il torto di entrare in
competizione con tanta pochezza e insignificanza. Ora però Medea ha capito,
la collera è passata, quindi invita i figli ad abbracciare il padre.
Tuttavia la moglie abbandonata non riesce a trattenere le lacrime, ed è subito
imitata dalle donne del coro, solidali con lei.
Giasone elogia la pur tardiva comprensione
della madre dei suoi figli: in fondo ella ha subìto, se non un torto, un grosso
dolore.
Fa la figura dell’imbecille quando dice: “e hai compreso, anche se non subito,
la decisione-vincente (nikw'san boulhvn):
questo è un agire da donna saggia vv. 912-913)..
Quindi l’Esonide dice ai due bambini che
dalle nuove nozze del padre loro riceveranno grossi vantaggi. Medea però
continua a piangere e Giasone le domanda per quale motivo lo faccia. E’ il
pensiero preoccupato dei bambini, risponde la donna, e la propensione al pianto
delle femmine. Quindi la madre cerca di indurre il padre a intercedere per i
figli, affinché possano restare a Corinto, evitando l’esilio. Giasone
può influire molto sulla nuova sposa. L’uomo accoglie il suggerimento e non
mette in dubbio che ci riuscirà: quella è una donna, e lui con le donne ci sa
fare. Fa ancora la figura dell’imbecille: “ “Certo. E credo che
la convincerò,-Se davvero è una donna come le altre”.vv. 944- 945.
Medea assicura che collaborerà mandando alla
sposina, per mezzo dei figli, magnifici doni d’oro di provenienza solare. La
principessa sarà contenta di avere un marito e dei regali tanto meravigliosi.
Giasone non crede che possa essere impressionata da doni, pur splendidi, una
femmina umana che ha ottenuto un marito splendidissimo come lui. Se
davvero mi stima degno di qualche considerazione,- la sposa mi metterà davanti
alle ricchezze (proqhvsei crhmavtwn),
lo so bene (962-963).
Medea allora afferma che l’oro è
l’argomento più persuasivo che ci sia.“Non dire questo a me proprio tu:
si dice che i doni persuadano anche gli dèi-e l'oro è più forte di infiniti
discorsi per i mortali”. (964-965) gli fa.
Quindi dà istruzione ai figli perché portino
i gioielli alla nuova moglie del padre loro e la preghino di non cacciarli in
esilio.
Nel quarto Stasimo (vv.
976-1001) il Coro compiange le vittime della trama omicida e pure
l'autrice, inoltre commisera i disgraziati i bambini, che muovono i passi verso
la strage, Glauce, sventurata sposa, Giasone sciagurato sposo, e Medea, madre
snaturata.
Il quinto Episodio (vv. 1002-1250) è formato da due scene e da un
intervento del Coro in anapesti che le separa. La prima scena (vv. 1002-1080)
contiene un colloquio tra il Pedagogo e Medea, e un monologo della
protagonista che prima vacilla, poi però conferma la sentenza di morte nei
confronti dei figli (tolmhtevon tavd
' , v. 1051, bisogna osare questo!) per non essere derisa lasciando impuniti
i nemici. Medea è combattuta tra i
bouleuvmata e lo qumov~
maledetto ma prevalente. Conclude la sua tirata con le parole già citate
(vv. 1078-1080).
L'intermezzo del Coro (vv. 1081-1115) nega che sia bene generare dei figli.
“E affermo che tra i mortali quelli che sono-del tutto inesperti di figli -e
non ne hanno generati, superano nella fortuna- coloro che li generarono” (vv.
1091-1094).
Nella seconda scena (vv. 1116-1250) un messo racconta la morte di Glauce e
quella di Creonte concludendo che le cose mortali sono un'ombra (ta;
qnhtav…hJgou'mai skiavn,
v. 1224) e che nessuno tra gli uomini è felice (eujdaivmwn):
quando passa un'ondata di prosperità, uno può diventare più fortunato di un
altro (eujtucevstero~ a[llou), ma
felice nessuno (vv. 1228-1230).
Sogno di ombra è l’uomo. Pulvis et umbra sumus. Pindaro,
Sofocle, Orazio, Shakespeare, Pirandello.
Pindaro chiama l'uomo "sogno di ombra" (skia'"
o[nar/a[nqrwpo"", Pitica
VIII, vv. 95-96 ).
Nell'Aiace di Sofocle,
Odisseo esprime la convinzione che l'ombra sia la quintessenza dell'uomo
e manifesta la compassione del poeta per tutte le creature umane cadute sulle
spine della vita:"oJrw' ga;r hJma'"
oujde;n o[nta" a[llo plh;n--ei[dwl j o{soiper zw'men h] kouvfhn skiavn",
io infatti vedo che non siamo se non immagini quanti viviamo, o inconsistente
ombra (Aiace, vv.125-126).
“Pulvis et umbra sumus”, polvere e ombra siamo, secondo Orazio (Odi,
IV, 7, v. 16).
Nel Seicento questa idea va di moda, tanto che Calderòn de la Barca
intitola il suo capolavoro (del 1635) La vita è sogno, e, nel
corso del dramma (I, 2), scrive:" il delitto maggiore dell'uomo è essere nato",
mentre Prospero in La tempesta
[90] afferma:"Noi
siamo fatti con la materia dei sogni, e la nostra breve vita è circondata dal
sonno"(IV, 1). Quindi il duca si avvia con la mente alla sua Milano "dove
un pensiero su tre, sarà la tomba" (V, 1).
Nel Macbeth il protagonista afferma:"Life's but a walking
shadow " (V, 5), la vita non è che un'ombra che cammina.
Mattia Pascal/Adriano Meis passeggiando per Roma riflette sulla propria
ombra: “Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per via
Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi
gli occhi mi s’affissarono su l’ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a
contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, non
potevo calpestarla, l’ombra mia. Chi era più ombra di noi due? Io o lei? Due
ombre! Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la
testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto, l’ombra, zitta. L’ombra d’un
morto: ecco la mia vita…Ma sì! Così era! Il simbolo, lo spettro della mia
vita era quell’ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercè dei piedi
altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua
ombra per le vie di Roma”[91].
Concludo con Proust:"Ci si accanisce a cercare i rottami inconsistenti
d'un sogno, e intanto la nostra vita con la creatura amata continua: la nostra
vita, distratta dinanzi a cose di cui ignoriamo l'importanza per noi, attenta a
quelle che forse non ne hanno, succube di esseri senza nessun rapporto reale con
noi, piena di oblii, di lacune, di ansietà vane; la nostra vita simile a un
sogno" (La prigioniera, p. 147).
Quinto Stasimo (vv.1251-1292).
Nella prima parte di questo canto corale le donne corinzie invocano la
terra e più a lungo il Sole, avo paterno di Medea, perché fermi la mano della
nipote pronta a fare scempio della sua discendenza. Ammazzare i propri figli
significa colpire la stirpe. Contraccambiare il male con il male vuol dire
raddoppiarlo. Uccidere i consanguinei è il più efferato dei delitti.
Nella seconda parte dello stasimo si sentono le grida e le parole piene di
terrore dei bambini che subiscono la micidiale violenza materna. Il coro cerca
inutilmente di aiutare le piccole vittime deplorando l’immane sciagura.
Quindi le donne corinzie ricordano il precedente di Ino, la madre che, resa
pazza dalla gelosia di Era, si gettò da una rupe marina con un figlio.
Funzione dell’esempio mitico
“The death-cry is no longer a shriek heard in the next room.
It is the echo of many cries of children from the beginning of the world,
children who are now at peace and whose ancient pain has become part mistery and
part music. Memory- that Memory who was mother of the Muses-has done her work
upon it. We see here the justification of the high formalism and convention of
Greek tragedy”[92].
Il pianto di morte non è più un grido udito nella stanza accanto. E’ l’eco di
molti pianti di bambini dall’inizio del mondo, bambini che ora sono in pace e la
cui sofferenza antica è diventata in parte mistero, in parte musica. La
Memoria-quella Memoria che era la madre delle Muse- ha compiuto la sua opera.
Noi vediamo qui la giustificazione dell’alto formalismo e delle convenzione
della tragedia greca.
La conclusione del Coro è che la causa di questi fatti terribili è sempre il
letto delle donne. (gunaikw'n
levco~-poluvponon, o{sa brotoi'~ e[rexa~ h[dh kakav
(vv. 1251-1252).
Esodo (vv. 1293-1419)
L’esodo consta di due scene. Nella prima entra Giasone chiedendo
alla corifea notizie sulla donna tremenda che ha ucciso Glauce e Creonte. Se
Medea è fuggita senza avere le ali per volare via, o un meccanismo per scavarsi
un rifugio sotto la terra, verrà presa e punita per avere ucciso i signori del
paese tanto atrocemente. Ma i morti oramai sono morti e i loro consanguinei
sopravvissuti li puniranno; a Giasone ora interessa solo proteggere i propri
figli da non impossibili rappresaglie dei Corinzi che hanno subito torti enormi
dalla loro madre. La corifea capisce che l’uomo è all’oscuro dell’ultimo delitto
di Medea, il più efferato, e glielo rivela. Quindi il padre dei bambini uccisi,
straziato, vuole conoscere i particolari e vedere i corpi dei figli.
Con l’ingresso di Medea comincia la seconda scena. La donna
appare, con i cadaveri, alta su un carro trainato da draghi alati che le ha
fornito il Sole, padre del padre suo. Giasone maledice la madre assassina che lo
ha annientato attraverso le creature avute da lui.
“Oh abominio (w\ mi'so~), o donna
odiosissima al massimo- agli dèi e a me e a tutto il genere umano,-tu che
hai avuto l'ardire di gettare la spada sulle tue-creature dopo averle partorite
e hai annientato me nei miei figli”.(vv. 1323- 1326)
All’uomo tornano in mente i crimini compiuti precedentemente dalla
femmina obbrobriosa che non dovrebbe avere più il coraggio di guardare il cielo
né la terra così brutalmente contaminati da delitti tanto orrendi. Nessuna donna
greca avrebbe osato compiere misfatti altrettanto atroci; del resto Medea non
è una donna, ma una belva sanguinaria (levainan,
ouj gunai'ka, 1342), anzi un raccapricciante mostro infernale, con una
natura-più crudele della Tirrenia Scilla. 1342-1343
“Nella mitologia greca la figura ibrida è, in generale, un contrassegno di
appartenenza a un mondo primitivo"[93].
Ma parlarle e maledirla è inutile: tanto proterva e disumana è la sua
spudoratezza. A Giasone dunque non rimane che il pianto.
Medea risponde proclamando ancora una volta le proprie ragioni: il disonore del
letto e la derisione
“Tu non dovevi, dopo avere disonorato il mio letto (ta[m
j ajtimavsa~ levch),-passare una vita piacevole deridendomi (
eggelw'n ejmoiv)-né la
principessa, né quello che ti aveva messo davanti le nozze,-Creonte, doveva
cacciarmi impunemente da questa terra.- Di fronte a questo chiamami pure
leonessa, se vuoi,-<e Scilla che abitò la landa Tirrenica:>-infatti io ho
contrattaccato il tuo cuore come si deve. (vv. 1354- 1360).
Concludo traducendo gli ultimi versi, dei due disgraziati che si riempiono di
insulti dando uno spettacolo osceno.
E’ una fortuna per i loro figlioli non esserci più
(vv. 1361-1419)
Giasone
Ma anche tu soffri e sei partecipe delle sciagure.
Medea
Sappilo bene: mi giova il dolore se tu non ridi (h}n
su; mh; jggela`~ )
Giasone
O figli, che madre malvagia vi è capitata!
Medea
O figli, come siete morti per la follia del padre!
Giasone
Invero non è stata certo la mia mano destra a ucciderli.
Medea
Ma l’oltraggio (u{bri~) e le
tue nozze appena contratte.
Giasone
E per il letto (levcou~…ou{neka)
hai ritenuto giusto ucciderli ?
Medea
Pensi che questa sia una sofferenza piccola (smikro;n
gunaiki; ph`ma) per una donna? 1368
Giasone
Se una è giudiziosa (swvfrwn);
ma per te tutto è male.
Medea
Questi qui non ci sono più: questo di
fatto ti roderà.
Giasone
Sono questi, ahimé, i vendicatori sulla tua testa. 1371
Medea
Sanno gli dèi chi ha dato inizio alla sciagura.
Giasone
Sanno certamente che il tuo animo è ributtante (ajpovptuston[94]
frevna).
Medea
Odiami: io detesto la tua voce sgradevole (pikravn).
Giasone
E io la tua: facile sarà separarsi l’uno dall’altra.
Medea
E come ? Che cosa devo fare? Stai certo che lo voglio anche io. 1377
Giasone
Lasciami seppellire e piangere questi morti.
Medea
No davvero, poiché li seppellirò io con questa mano,
portandoli al santuario della dea Era Acraia[95]
affinché nessuno dei nemici li oltraggi
rovesciando le tombe; e a questa terra di Sisifo
attribuiremo una festa solenne e riti
per il futuro in cambio di questa empia strage. 1383
E io andrò alla terra di Eretteo,
a convivere con Egeo, figlio di Pandione.
E tu, come è naturale, vigliacco morirai da vigliacco (katqanh`/
kako;~ kakw`~),
colpito al capo kavra peplhgmevno~
da un rottame di Argo,
vedendo l'amaro esito delle nozze con me.
Il contrappasso: Medea preconizza che Giasone morrà
kavra
peplhgmevno~ (1387) percosso
nel capo da un rottame della nave Argo. La nutrice in uno dei primi versi (v. 8)
dice che Medea è stata colpita nel cuore dall’amore di Giasone (e[rwti
qumo;n ejkplagei`s j
jIavsono~) che si è fatto aiutare, l’ha presa con sé nella nave
Argo, poi l’ha tradita.
Anapesti di uscita 1389-1419.
Giasone
Ma ti uccida l'Erinni dei figli ajlla s
j jErinu;;ς ojlevseie tevknwn
(cfr. le Erinni della madre, del padre)
e la Giustizia degli ammazzati. 1391
Medea
Quale dio o demone ascolta te,
lo spergiuro, e ingannatore degli ospiti? (tou`
yeudovrkou kai; xeinapavtou)
Giasone
Ahi, ahi, abominevole e assassina dei figli. (musara;[96]
kai; paidolevtor)
Medea
Vai a casa e seppellisci la tua compagna di letto. 1394
Giasone
Vado, privato dei due figli.
Medea
Ancora non piangi: aspetta un po' la vecchiaia.
Giasone
O figli carissimi.
Medea
Alla madre solo, a te no.
Giasone
Per questo li hai ammazzati?
Medea.
Per infliggere pene a te (sev ge
phmaivnous j) 1398
Nella Medea di Seneca, la madre furente dice: “ Bene est, tenetur,
vulneri patuit locus” (v. 549)
Giasone
Ahimé infelice voglio baciare
la cara bocca dei figli. 1400
Medea
Ora li chiami, ora vuoi baciarli,
dopo averli respinti allora.
Giasone
Concedimi in nome degli dèi
di toccare la tenera carne dei figli.
Medea
Non è possibile. Invano le tue parole sono buttate via (mavthn
e[po~ e[rriptai). 1404
Giasone
Zeus tu senti questo: come vengo respinto
e quali ferite subisco da questa femmina abominevole (
ejk
th`~ musara`~)
e leonessa assassina dei figli?
Ma per quanto almeno è possibile, e ce la faccio,
piango questo scempio e invoco gli dèi
chiamando a testimonio la potenza divina che tu,
dopo avermi ammazzato i figli, mi impedisci
di toccarli con le mani e seppellirne i cadaveri,
che io non avrei voluto vedere mai,
dopo averli generati, ammazzati da te.
Le parole di chiusura sono del Coro che con cinque anapesti constata la
imprevedibilità degli eventi.
Coro
Di molti casi Zeus è dispensatore sull’Olimpo (pollw`n
tamiva~ Zeu;~ ejn jOluvmpw/)
e molti eventi in modo non sperato (ajevlptw`~)
compiono gli dèi;
e i fatti aspettati (ta; dokhqevnt j
) non vennero portati a compimento,
mentre per quelli inaspettati (tw`n
ajdokhvtwn) un dio trovò la via.
Così è andata a finire questa azione 1419.
Questo
finale è topico. La conclusione dell'Alcesti, dell'Andromaca ,
dell'Elena e delle Baccanti è uguale a questa qui della
Medea, tranne che per il primo di questi versi : "
pollai; morfai; tw'n daimonivwn"
(Alcesti , v. 1159; Andromaca, v. 1284; Elena, v. 1688;
Baccanti, v. 1388), molte sono le forme della divinità".
L'Ippolito
si conclude con la constatazione, da parte della Corifea che su Trezene è caduto
un dolore comune, che, in modo imprevedibile
ajevlptw~ (v. 1463) che provocherà
un fluire continuo di lacrime.
Imprevedibilità degli eventi .
L'affermazione dell'imprevedibilità della vita umana in effetti costituisce uno
dei tovpoi della letteratura.
Si tratta
di un motivo sapienziale arcaico già presente in Archiloco (fr. 58D.):"toi'"
qeoi'" tiqei'n a{panta...pollavki" d j ajnatrevpousi kai; mavl j eu\ bebhkovta"/uJptivou"
klivnous j ", bisogna attribuire ogni cosa agli dei...spesso rovesciano e
stendono supini anche quelli ben saldi.
Anche Sofocle denuncia questa
insicurezza: nei suoi drammi si trova più
volte l'immagine dell' altalena fatale:" nell'esodo dell'Antigone
il messo sentenzia:"tuvch ga;r
ojrqoi' kai; tuvch katarrevpei-to;n eujtucou'nta to;n te dustucou'nt j ajeiv
(vv.1157-1158), la sorte infatti
raddrizza e la sorte butta giù/ il fortunato e il disgraziato via via.
Nell'Edipo re il coro chiede ad
Apollo:"intorno a te ho sacro timore: che cosa, o di nuovo/o con il volgere
delle stagioni ("peritellomevnai"
w{rai"") un'altra volta/effettuerai per
me?"(vv. 155-157). In questo scorrere rapido dei giorni, nel girare vorticoso
delle stagioni, avvengono mutamenti continui e alcune cose si ripetono, ma altre
accadono inopinatamente.
Gli ultimi versi del dramma contengono questa
sentenza : sicché, uno che sia nato mortale, non ritenga felice nessuno,/considerando
quell'ultimo giorno a vedersi, prima che/abbia passato il termine della vita
senza avere sofferto nulla di doloroso ("pri;n
aj;n /tevrma
tou' bivou peravsh/ mhde;n ajlgeino;n paqwvn",
Edipo re, vv.1528-1530).
L'imprevedibilità del futuro è denunciata
anche da Deianira all'inizio delle Trachinie (vv. 1-3) :" esiste un
antico detto ("Lovgo" me;n e[st
j ajrcai'o"") diffuso tra gli uomini:
che non puoi conoscere la vita di un uomo prima che uno sia defunto, né se per
lui sia stata buona o cattiva".
Più avanti la Nutrice afferma addirittura che
è sconsiderato (mavtaiovv" ejstin),
v. 945 chi conta su due giorni o anche più: infatti non c'è il domani se
prima uno non ha passato l'oggi.
Giovanni Ghiselli.
[1] P. P. Pasolini, Dialoghi definitivi di “Medea”,
scena 7. In op. cit., p. 544 e p. 545.
[2] P. P. Pasolini, Medea in Il vangelo secondo
Matteo, Edipo re, Medea, p. 545-
[3] Su Edipo a[go~
, cfr. 1426; ed anche 1121, 656, 921; coi commenti di Kamerbeeck, op.
cit., a questi passi.
[4] Erodoto, V, 70-71; Tucidide I, 126-127.
[5] Fozio, Biblioteca, p. 534 (Bekker); cfr.
Esichio, s. v. farmakoiv.
Fozio (IX sec. d. C.) è autore di un Lessico e di una Biblioteca,
raccolta di recensioni e impressioni di opere in gran parte
perdute.Esichio di Alessandria (V sec. d. C.9 è autore del più esteso
lessico greco a noi pervenuto.
[6] Il 6 di Targhelione, giorno della nascita di
Socrate, è, ci dice Diogene Laerzio (II 44), quello in cui gli Ateniesi
“purificano la città”. Era verso la fine di aprile.
[7] Fozio, op. cit; Esichio, s. v.
kradivh~ novmo~; Tzetze,
Chiliadi V 729; Ipponatte, fr. 4 e 5, Bergk.
[8] Scolio a Aristofane, Rane, 730; Cavalieri, 1133;
Suda s. v. farmakouv~
; Arpocrazione, citando Istro, s. v. farmakov~; Tzetze ChiliadiV
736.
[9] P. P. Pasolini, Il vangelo secondo Matteo,
Edipo re, Medea, Dialoghi definitivi di “Medea”, scena 20., p. 546.
[10] Cfr. Sofocle, Aiace, 1350. Agamennone
dice: “to;n toi tuvrannon eujsebei`n
ouj ra/dion”, non è facile che un tiranno sia pietoso.
[11] P. P. Pasolini, Il vangelo secondo Matteo,
Edipo re, Medea, Dialoghi definitivi di “Medea”, scena 20., p. 546.
[12] P. P. Pasolini, Il vangelo secondo Matteo,
Edipo re, Medea, “visioni della Medea” di P. P. Pasolini
(trattamento), p. 507.
[13] Op. cit., p. 557
[14] P. P. Pasolini, Il vangelo secondo Matteo,
Edipo re, Medea, “visioni della Medea” di P. P. Pasolini
(trattamento), p. 497.
[15] Op. cit., p. 552.
[16] P. P. Pasolini, Il vangelo secondo Matteo,
Edipo re, Medea, “visioni della Medea” di P. P. Pasolini
(trattamento), p. 483.
trattamento
[17] Per quello di Sofocle cfr. il mio Edipo re,
Loffredo, Napoli, 1998.
[18] Questo aggettivo si addice piuttosto, come
vedremo, al Giasone delle Argonautiche di Apollonio Rodio.
[19]J. Duflot, Pier Paolo Pasolini. Il sogno del
centauro, Roma 1983, in Naldini, Pasolini, una vita , Einaudi,
Torino 1989.
[20] P.P. Pasolini, Scritti corsari, p. 49.
[21] Che compone e
conclude la trilogia Il vello d'oro con L'ospite e Gli
argonauti del 1821.
[22]C. Magris in Euripide, Grillparzer, Alvaro,
Medea Variazioni sul mito a cura di M. G. Ciani, p. 17.
[23] P. P. Pasolini, Il vangelo secondo Matteo,
Edipo re, Medea, “visioni della Medea” di P. P. Pasolini
(trattamento), p. 483.
[24] P. P. Pasolini, Il vangelo secondo Matteo,
Edipo re, Medea, “visioni della Medea” di P. P. Pasolini
(trattamento), p. 484.
[25] U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il
nichilismo e i giovani, p. 21. Si veda a questo proposito U.
Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica,
Feltrinelli, Milano, 1999.
[26] Op. cit., pp. 550-551.
[27] P. P. Pasolini, Il vangelo secondo Matteo,
Edipo re, Medea, “visioni della Medea” di P. P. Pasolini
(trattamento), p. 534
[28] P. P. Pasolini, Il vangelo secondo Matteo,
Edipo re, Medea, “visioni della Medea” di P. P. Pasolini
(trattamento), p. 537.
[29] Op. cit., p. 559.
[30] Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società,
p. 1463.
[31] P. P. Pasolini, Il vangelo secondo Matteo,
Edipo re, Medea, “visioni della Medea” di P. P. Pasolini
(trattamento), p. 501.
[32] L'accecamento mentale, una smisurata forza
irrazionale.
[33] La protagonista dell'Andromaca fa l'ipotesi:"
eij gunaikev~ ejsmen ajthro;n
kakovn "(Andromaca,
v. 353), se noi donne siamo un male pernicioso.
[34]
Secondo Esiodo che usa la forma
beotica Fivx (Fi'k&(a)
in Teogonia
326), costei era un
mostro femminile, nata da Orto e dalla luttuosa Echidna, e costituiva
una rovina esiziale per i Cadmei. Essa era dunque sorella del leone
nemeo, e sorellastra (oltre che figlia) di Orto, il cane bicefalo di
Gerione, di Cerbero, il cane di Ades dal ringhio metallico, dell'Idra di
Lerna, consapevole solo di atroci azioni, e della Chimera tricipite,
spirante indomabile fiamma; nati tutti da Echidna e Tifone. Un bel
guazzabuglio di ibridi mostruosi. La Sfinge aveva volto di donna, petto,
zampe e coda di leone, e ali di
uccello.
[35] B.
Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , pp.
178-179. L'opera uscì, in Germania, originariamente, nel 1963 (Claassen
Verlag, Hamburg), col titolo di Die Entedeckung des Geistes. Studien
Zur Enstehung des europaischen Denkens bei den Griechen.
La scoperta dello spirito. Studi della nascita del pensare
europeo dai
Greci.
Greci.
[36] Pohlenz, La Stoa, 2, 109.
[37]Svevo, Una Vita , p. 239. Il soggetto è
Alfonso Nitti.
[38]Musil, L'uomo senza qualità , p. 210.
[39]Moravia, La Noia , p. 19.
[40]Sàndor Màrai, La donna giusta (del 1941),
p. 78.
[41] Medea, p. 117.
[42] H. Hesse, L'ultima estate di Klingsor,
p.55.
[43] P. P. Pasolini, Le belle bandiere, p. 54.
[44] W.
Jaeger, Paideia 1, p. 565. A proposito di critica contrastiva,
più avanti vedremo che M. Pholenz confuta questa affermazione.
All'interno del percorso troveremo la confutazione di B. Snell. Intanto
riferisco questa affermazione di Nietzsche che riconosce in Euripide
interpretazioni nuove del mito derivate da Anassagora : “Nella chiusa
comunità dei seguaci ateniesi d’Anassagora la mitologia del volgo era
ancora consentita come un linguaggio simbolico; tutti i miti, tutti gli
dèi, tutti gli eroi erano quivi considerati unicamente come geroglifici
di un’interpretazione della natura, e persino l’epos omerico doveva
essere il canto canonico dell’imperio del nus e delle battaglie e
leggi della physis. Qualche voce di questa società d’eminenti
spiriti liberi penetrò qua e là nel popolo; e particolarmente il grande
e sempre ardimentoso Euripide, teso nei suoi pensieri al nuovo, osò far
sentire in vari modi la sua parola attraverso la maschera tragica,
dicendo cose che come frecce trapassavano i sensi della massa” La
filosofia nell’età tragica dei Greci, del 1876, p. 109.
[45] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, pp.
85 e sgg.
[46] Dodds, Euripides the
irrationalist in The ancient concept of progress, p. 90.
[47]
E. R. Dodds, Euripides Bacchae, pp. xlv-xlvii.
[48] La componente
istintiva, prima repressa, poi scatenata verso la distruzione, mai
applicata all'incremento della vita, porta Gustav Aschenbach alla
morte, preannunciata da una fantasia onirica memore dei riti orgiastici
delle Baccanti:" Al ritmo dei timpani si squassava il suo cuore,
il cervello vorticava; ira accecamento, stordimento voluttuoso
invadevano la sua anima, smaniosa di accordarsi al tripudio del dio. Ed
ecco, enorme, ligneo, scoprirsi e innalzarsi l'osceno simbolo; a quella
vista tra sfrenati clamori, tutti gridarono la formula rituale e con la
schiuma alle labbra si precipitarono in un'orgia pazzesca. Ridenti,
singhiozzanti, si eccitavano a vicenda con gesti sconci e carezze
lubriche, e si cacciavano l'un l'altro i pungoli nelle carni, leccando
il sangue che colava sulle membra". T. Mann, La morte a Venezia
(del 1913) p. 139. Ndr.
[49] Del 428 a. C.
[50] Guidorizzi, Euripide Baccanti, p. 37.
[51] Pisolini, Saggi sulla politica e sulla società,
p. 1506.
[52] P. P. Pasolini, Il caos, p. 178.
[53] Secondo Apollonio Rodio Apsirto era figlio di
Eeta e di Asterodea, una ninfa del Caucaso (Argonautiche, 3,
242), Medea di Eeta e Idea, la figlia più giovane di Oceano e di Teti
(v. 244). I due dunque erano fratellastri.
[54] V. Monti, Ode Al signor di Montgolfier (vv.
1-2), 1784
[55] Del 438 a. C.
[56] O a
Nasso. Apollonio Rodio (III sec. a. C.) rappresenta, non senza ironia,
la perfidia ottusa dell' "eroe" greco quando Giasone, bisognoso del
soccorso della ragazza barbara per la sua
ajmhcaniva, le promette
gratitudine (cavrin, Le
Argonautiche , III, v. 990): egli darà gloria (klevo~,
v. 992) al suo nome; quindi fa l'esempio del tutto inopportuno di
Arianna la quale, per benevolenza, liberò Teseo dai cattivi travagli;
quindi gli stessi dèi le vollero bene (vv. 1001-1002).
Dante mette Iasòn tra i seduttori ricordando probabilmente le parole di
Ipsipile nella Tebaide di Stazio: “blandus Iason/virginibus
dare vincla novis” (5, 456-457), Giasone, seduttore capace di
aggiogare le vergini inesperte.
[57] Si
noti l’oltraggio all’ambiente. Anche
nella Tebaide di Stazio la terra soffre il disboscamento dovuto
alla costruzione di una pira colossale per il piccolo Ofelte, figlio di
Ipsipile e di Licurgo: “ dat gemitum tellus”(VI, 107), ne
piange la terra. Pale, dea dei campi e Silvano signore dell’ombra della
foresta (arbiter umbrae, v. 111) abbandonano piangendo i cari
luoghi del loro riposo (linquunt flentes dilecta locorum/otia, vv.
110-111), mentre le Ninfe abbracciate ai tronchi degli alberi e non
vogliono lasciarli: “nec amplexae dimittunt robora Nymphae” (v.
113).
Nell’Achilleide, Stazio ricorda
che la costruzione della flotta necessaria alla guerra contro Troia
spogliò delle loro ombre i monti e li rimpicciolì: “Nusquam umbrae
veteres: minor Othrys et ardua sidunt/ Taygeta, exūti
viderunt aëra
montes./Iam natat
omne nemus” (I, 426-428),
in nessun luogo le antiche ombre: è più piccolo l’Otris e si abbassa
l’erto Taigeto, e i monti spogliati videro l’aria. Oramai ogni
bosco galleggia.
L’Otris è una catena montuosa della
Tessaglia; il Taigeto, si sa, è la montagna che sovrasta Sparta. Chi
scrive l’ha scalata da Kalamata alla cima (km 33, 12) in bicicletta in 2
ore, 14 minuti e 27 secondi, alla media di 14, 7 Km all’ora, con il
vento contrario. All’età di 62 anni e 8 mesi.
[58]G. Biondi, Il mito argonautico nella Medea. Lo
stile 'filosofico' del drammatico Seneca, "Dioniso" 1981, p. 428-429
e 435.
[59] Dostoevskij nell'Idiota (1868-1869)
definisce Nastasja Filippovna "quell'oltraggiata e fantastica donna" (p.
55). La nutrice di Medea la chiama "hJ
duvsthno" hjtimasmevnh" (v. 20), l'infelice oltraggiata.
L’argomento “Donne oltraggiate” è sviluppato nella scheda successiva al
v. 20.
[60] nell'Agamennone
Cassandra individua in Clitennestra, la moglie adultera e assassina, la
mostruosità ibrida chiamandola "divpou"
levaina" (v. 1258), bipede leonessa. Ricordo che nella
letteratura greca l'ibrido rimanda spesso al caos primordiale
[61] Un vero guadagno, contrapposto al lucro (kevrdo~
del v. 87) che suscita inimicizia tra gli uomini.
[62] Del
411 a. C.
[63]J. Kott, Mangiare Dio , , p. 120.
[64] Gli
ultimi due versi citati si ritrovano parodiati nei Cavalieri
di Aristofane (del 424 a. C.) dove Paflagone, cedendo la corona,
simbolo del potere, al salsicciaio che lo ha battuto nella volgarità e
nell'impudenza dice:"ti lascio: un altro ti avrà dopo averti
presa,/ladro non più di me, ma forse più fortunato"(vv. 1251-1252).
[65] Vietava tra l'altro di indossare vesti
multicolori o di girare per Roma su un cocchio a doppio traino di
cavalli.
[66]Tito Livio, Storie , XXXIV, 3, 2.
[67]. Ph. E. Slater, The glory of Hera , in
La tragedia greca. Guida storica e critica , p. 162.
[68] 40 ca-104 d.C.
[69] Si tratta di Lùžin
[70] F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p. 171.
Raskolnikov parla al fidanzato della
sorella, Lužin.
[71] Si
pensi a Io la fanciulla trasfigurata in mucca del Prometeo incatenato,
tormentata da un assillo appunto (oi\stro~
, v. 566) e fissata dallo sguardo del pastore Argo dai diecimila occhi:
“ E subito l'aspetto e la mente furono/stravolti: divenni cornigera,
come vedete, e punta/da un assillo dall'acuto morso, con salti
furibondi/balzai verso la corrente Cercnea dolce da bere/e alla fonte di
Lerna: e il bovaro nato dalla terra/Argo violento nell'ira mi scortava/
spiando i miei passi con occhi fitti” (vv. 673-679).
[72] Cfr. Sofocle, Aiace, 1350. Agamennone
dice: “to;n toi tuvrannon eujsebei`n
ouj ra/dion”, non è facile che un tiranno sia pietoso.
[73] Del 1996.
[74] Il quinto degli undici che costituiscono il
libro.
[75]
Medea, p. 116. Piuttosto emotiva che razionale è anche la Medea, pur
innocente, di Christa Wolf:"era, come potrei dire, troppo
femmina, cosa che ne coloriva anche il pensiero. Lei pensava, ma
perché ne parlo al passato, lei ritiene che le idee si siano
sviluppate dai sensi e che non dovrebbero perdere quel legame.
Antiquata naturalmente, superata"[75].
E' ancora Acamante che parla.
[76] Secondo Diodoro (4, 45) Medea era figlia di
Ecate e sorella di Circa.
[77] E. Rohde, Psiche, p. 76.
[78]Cfr. C. Pavese:"Sono un popolo nemico, le donne,
come il popolo tedesco. Il mestiere di vivere , 9 settembre,
1946.
[79]L. Tolstoj, Anna Karenina (del 1877) , p.
711.
[80] Da ojrqovw,
“raddrizzo”. Parole non ci appulcro.
[81] Epistola di Giacomo, 3, 1 sgg.
[82]
ajskou' (V. 679): significa
“otre” ma indica il ventre, e to;n
prouvconta…povda
sostituisce simbolicamente il membro maschile.
[83]P. P. Pasolini, Il vangelo secondo Matteo,
Edipo re, Medea, scena 72, pp. 552-553.
[84] P. P. Pasolini, Il vangelo secondo Matteo,
Edipo re, Medea, scena 69, p. 550.
[85] Ho preparato un'ampia scheda sul culto del sole
nella mia Antigone (Loffredo, 2001, pp. 48-51). Ne utilizzerò una
parte più avanti.
[86] P. P. Pasolini, Il vangelo secondo Matteo,
Edipo re, Medea, scena 81, p. 553.
[87] Interpretato dall’attore Massimo Girotti.
[88]P. P. Pasolini, Il vangelo secondo Matteo,
Edipo re, Medea, Scena 66, p. 511.
[89] Medea, p. 203.
[90] Del 1612.
[91] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, pp.
234-325.
[92] G. Murray, Euripides and his
age, pp. 242-243.
[93]K. Kerényi, Miti e misteri , p. 45.
[94] da ajpoptuvw,
sputo via
[95]
Santuario sull’acropoli di Corinto
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