L’amore come ferita, guerra, pazzia.
Ennio e la sofferenza di Medea. Plauto (Persa)
Eros si associa a Eris. Sofocle. Terenzio.
Afrodite e Marte in Lucrezio. Virgilio. Orazio. Properzio.
Tibullo.
Ovidio. Il Pervigilium
Veneris (e Pavese). Tolstoj, Le nozze di Figaro, D’Annunzio, Endre Ady,
Pavese (Seneca e Menandro), Kundera.
La ferita d'amore
appare nella Medea exul di Ennio[1]
che traduce questo verso della Medea[2]
di Euripide:" e[rwti qumo;n
ejkplagei's’jIavsono""
(v. 8), colpita nel cuore dall'amore di Giasone[3],
accentuandone il pathos con l'allitterazione:"Medea animo aegro amore saevo saucia[4]
", (v. 9), Medea dall'animo sofferente, ferita da un amore crudele.
Nel Persa di Plauto[5]
troviamo il motivo letterario dell’Amore-guerra
che infligge ferite, dell'amore- malattia, e dell'amore-pazzia.
Tossilo, il servo innamorato di questa commedia
"persiana", mette in rilievo la fatica più che erculea dell’amans
egens (v. 1), l'innamorato senza quattrini, com'è lui stesso che non ha il
denaro per riscattare la cortigiana amata. E dice:"Nam cum leone, cum
excĕtra, cum cervo, cum apro Aetolico,/cum avibus Stymphalicis, cum Antaeo
deluctari mavelim/quam cum Amore " (vv. 3-5), infatti preferirei
lottare duramente con il leone[6],
con il serpente[7],
con il cervo[8],
con il cinghiale Etolico[9],
con gli uccelli di Stinfalo[10],
con Anteo[11],
che con Amore.
Subito dopo entra in
scena il conservo Sagaristione che gli fa: "Satin tu usque valuisti?
", sei stato bene finora? , e Tossilo:" hau probe ", non
bene; "ergo edepol palles " , infatti per Polluce sei pallido,
conferma il compare, evocando il tovpo"
saffico "sono più verde dell'erba" ( fr.2 D.); quindi, nella risposta
di Tossilo, interviene il motivo della ferita:"Saucius factus sum in
Veneris proelio: sagittā Cupido cor meum transfixit " (v. 25), sono
rimasto ferito nella battaglia di Venere: con una freccia Cupido ha trapassato
il mio cuore.
Alla fine di questo colloquio fa capolino la follia (mwriva) dell'amore in un grecismo di
Tossilo che cerca di giustificare le richieste eccessive[12]
fatte all'amico per riscattare la ragazza amata:"Amoris vitio, non meo,
nunc tibi morologus fio " (v. 49), per colpa dell'amore, non mia, ora
ti divento uno che parla da pazzo.
Nella Cistellaria[13]
un amico avverte il giovane innamorato Alcesimarco:"Cave sis cum Amore
tu umquam bellum sumpseris" (v. 300), guardati bene dal fare la guerra
con amore.
"Eros si
associa a Eris, Lotta, quella Eris che Esiodo, nelle Opere e Giorni, colloca "alle
radici della terra" (v. 19)"[14].
Nell'incipit del terzo Stasimo dell'Antigone[15]
Eros viene invocato come "ajnivkate
mavcan" (v. 781), invincibile in battaglia. Lo stesso Sofocle nelle
Trachinie [16],
fa dire a Deianira che chiunque si alzi come un pugile per combattere Eros, non
ha la testa a posto ("ouj kalw'"
fronei'", v. 442).
Infatti, spiega la moglie desolata,
questo dio domina sugli dèi come vuole, figurarsi su una povera donna come me.
L'amore come guerra, fuoco che arde, e squilibrio, è
affermato pure da Terenzio[17]
nell'Eunuco: "In amore haec omnia insunt vitia : iniuriae,/suspiciones, inimicitiae,
indutiae,/ bellum, pax rursum: incertă haec si tu postules/ratione certă
facere, nihilo plus agas/quam si des operam ut cum ratione insanias "
(vv. 59-63), nell'amore ci sono tutti questi difetti: offese, sospetti, litigi,
una tregua, la guerra, di nuovo la pace: se tu cerchi di rendere sicure con la
ragione queste cose insicure, non fai di meglio che se ti adoperassi per fare
il pazzo ragionevolmente, dice lo schiavo Parmenione al giovane Fedria
innamorato, il quale risponde:"et
taedet et amore ardeo, et prudens sciens,/vivos[18] vidensque pereo, nec quid agam scio
" (vv. 72-73), non ne posso più e brucio d'amore, lo so e capisco e sono
vivo e vedo e muoio, e non so che fare.
Secondo Lucrezio[19]
perfino Marte "armipotens "
viene vinto aeterno… vulnere amoris,
dall'eterna ferita dell'amore.
"Marte armipotens è debellato e 'ferito’dalla
dea dell'amore e della pace… anche se l'immagine della "ferita
d'amore" era già abbastanza convenzionale , qui il contesto la rivitalizza
, sottolineando l'aspetto paradossale della situazione"[20].
In effetti questo dio vinto dalle ferite è rinnovato con un
rovesciamento rispetto al Marte usuale che le infligge, e su questo
rovesciamento insistono i termini scelti dall'autore.
Vediamo alcuni versi
dell'inno a Venere:" Nam tu sola potes tranquilla pace iuvare/mortalis[21],
quoniam belli fera moenera[22]
Mavors/armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se/reicit aeterno devictus vulnere amoris ,/ atque ita suspiciens tereti cervice reposta[23]
/pascit amore avidos inhians in te, dea, visus,/eque tuo pendet resupini
spiritus ore" (De rerum natura, I, vv. 31-37), infatti tu sola
puoi con una pace tranquilla aiutare/i mortali, poiché le feroci funzioni della
guerra governa/Marte, signore delle armi, che spesso si abbandona nel
tuo/grembo, vinto dall'eterna ferita dell'amore,/e così guardando da sotto, con
la liscia cervice rovesciata,/pasce d'amore gli avidi occhi agognandoti, o dea
/e il respiro di lui resupino dipende dalla tua bocca.
Insomma make love, not war, come si diceva una volta.
Ma il proemio è in qualche modo contraddittorio rispetto al
resto del De rerum natura dove l'amore è pena, dolore e angoscia.
La personificazione
del tormento amoroso dei mortali è costituita da Tizio:"Sed Tityos nobis hic est, in amore
iacentem/quem volucres lacerant atque exest anxius angor " (III,
992-993), ma Tizio ci è qui , quello che, prostrato nell'amore, gli uccelli
dilaniano e un angoscioso affanno divora. "La pena di Tizio-il gigante
ucciso da Apollo per aver insidiato Latona, e disteso nel Tartaro col fegato
continuamente roso dagli avvoltoi- è per Lucrezio, come sarà pure per Orazio (carm.
3, 4, 77-79; cfr. Servio, ad Aen. 6, 596), allegoria dell'angosciosa
passione amorosa, la cupido"[24].
Nell'Eneide[25]
l'amore non solo è associato alla guerra, una guerra tra popoli, ma la fa pure
perdere a chi ne è troppo implicato: Turno, prima di affrontare lo scontro
decisivo, viene confuso e abbagliato dall'amore:"Illum turbat amor figitque in virgine voltus " (Eneide , XII, 70), lo turba amore e
fissa lo sguardo sulla ragazza[26].
Orazio nell'Ode 26 del terzo libro[27],
nello stesso tempo scherzosa e malinconica, impiega la metafora della milizia d'amore dichiarando il suo addio alle
armi che, come la lira usata per sedurre, saranno appese alla parete del tempio
di Venere. Leggiamo la prima delle tre strofe alcaiche:"Vixi puellis nuper idoneus/et militavi non
sine gloria;/nunc arma defunctumque bello/barbiton hic paries habebit "
(26, 1-4) sono vissuto fino a poco fa idoneo alle ragazze, e ho fatto il
servizio militare non senza gloria: ora questa parete avrà le armi e la lira
che ha compiuto la guerra.
Più tardi, nella prima Ode del quarto libro[28]
Orazio arrivato intorno alla cinquantina (circa
lustra decem , v. 6) chiede a Venere di risparmiargli la guerra:"Intermissa, Venus, diu/rursus bella moves? Parce,
precor, precor " (vv. 1-2), dopo lunga tregua, Venere, mi fai di nuovo
guerra? Risparmiami, ti prego, ti prego. Il secondo verso "si configura
come una ajpopomphv, cioè come una
preghiera destinata ad allontanare da chi prega il pericolo proveniente da una
divinità"[29].
Il pericolo è costituito dai dardi dell'amore.
Orazio è contemporaneo dei poeti elegiaci, ossia scrive nei
decenni durante i quali va definendosi, nella poesia, il modo di considerare il
rapporto dell'uomo con la donna. Nel poeta di Venosa, a differenza che in
Catullo[30],
Properzio[31]
e Tibullo[32],
non c'è una donna che accentri l'attenzione: egli, come scrisse Pasquali, vola
di fiamma in fiamma senza bruciarsi le ali.
In Properzio troviamo il tovpo"
del rapporto rischioso con un Eros crudele e ostile. Il poeta dipinge Amore
come un nemico armato da cui nessuno può allontanarsi senza ricevere ferite:"
Et merito hamatis manus est armata sagittis,/ et pharetra ex umero Gnosia
utroque iacet,/Ante ferit quoniam, tuti quam cernimus hostem, /nec quisquam ex illo vulnere sanus abit
" (II, 12, 9-12), giustamente la mano è armata di frecce uncinate, e dai
due omeri pende una faretra cretese, poiché ferisce prima che noi al riparo
vediamo il nemico, né alcuno scampa immune da quella ferita [33].
L'autore ne è già
stato colpito, al punto che il dio fa una guerra continua dentro il suo
sangue:" Assiduusque meo sanguine bella gerit" (II, 12, v.
16). Amore dovrebbe vergognarsi di tanto accanimento e scagliare i suoi dardi
altrove:" Si pudor est, alio
traice tela tua " (v. 18). Oramai è l'ombra sottile di Properzio, non
più la persona che busca bastonate:"non ego, sed tenuis vapulat umbra
mea" (20). Se il canto deve continuare dunque bisogna che almeno l'umbra
non vada perduta e Amore smetta di menare colpi.
La differenza tra
Orazio e gli elegiaci è che questi non cercano di attenuare la violenza di
Eros, anzi accettano tutti gli aspetti dolorosi della passione. Tuttavia talora
pure loro lamentano la stanchezza della guerra amorosa. Sentiamo ancora
Properzio che desidera ricanonizzare il dio Amore come deus pacis
:"Pacis Amor deus est, pacem veneramur amantes:/sat mihi cum domina
proelia dura mea" (III, 5, 1-2), Amore è dio della pace, noi amanti
veneriamo la pace: bastano le aspre guerre con la mia signora.
Tibullo è "più attaccato al modello femminile arcaico"[34].
E’esemplare di tale propensione "il famoso quadro di vita domestica che
egli sogna mentre giace malato a Corcira e che fa da chiusa all'elegia I 3 (83
sgg.) : Delia, rimasta fedele al poeta lontano, ha accanto a sé la vecchia
madre, "sancti pudoris custos
" (custode del sacro pudore); al lume della lucerna la madre fila e
racconta favole; una giovane schiava fila anche lei" In effetti questo del
poeta nato nel Lazio rurale sembra il quadro presentato da Tito Livio per illustrare la virtù di Lucrezia :
i giovani parenti del re Tarquinio la trovarono:"nocte sera deditam lanae inter lucubrantes ancillas in medio aedium
sedentem " (I, 57, 9), a notte inoltrata, intenta alla lana, tra le
ancelle che lavoravano a lume di candela, seduta in mezzo alla casa. Il
desiderio di Tibullo insomma sarebbe che Delia fosse come questa sposa
esemplare. Però " da altre elegie del I libro sappiamo che la cortigiana
Delia si adatta poco al modello; da altre del II libro sappiamo che ancora meno
vi si adatta la volubile Nemesi" (p. 185). Tibullo dunque si trova a disagio
nella metropoli, eppure " una parte notevole della sua poesia è radicata
nella vita galante di Roma".
Walter Pater nel primo capitolo[35]
del suo Mario l'epicureo (del 1885) mette in rilievo la sussistenza, nel
poeta di Delia e Nemesi, della "primitiva e più semplice religione
patriarcale, la religione di Numa…Tracce di tale sopravvivenza si possono
cogliere, al di là degli atteggiamenti meramente artificiosi della poesia
pastorale latina, in Tibullo, che ci ha conservato molti particolari poetici
delle antiche consuetudini religiose di Roma:"At mihi contingat patrios
celebrare Penates/reddereque antiquo menstrua thura Lari"[36]
così invoca con serietà non simulata. Qualcosa di liturgico, nella ripetizione
di una formula consacrata, come parte del rito sacrificale per il compleanno,
si può rintracciare in una delle sue elegie. Il focolare, da una scintilla del
quale, secondo una versione dell'antica leggenda, sarebbe miracolosamente nato
il bimbo Romolo, era ancora propriamente un altare"[37].
Chi si intende non poco di schermaglie e
battaglie amorose è Ovidio[38].
Negli Amores[39] scrive:"Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido;/Attice, crede mihi,
militat omnis amans "(I, 9, 1-2), è un soldato ogni amante; anche
Cupido ha il suo campo di guerra; Attico, credimi, ogni amante è un soldato. "La
ripetizione del primo emistichio dell'esametro nel secondo emistichio del
pentametro, che ha qui lo scopo di dare enfasi alla sententia sottolineando il concetto, è un tratto tipico dello stile
ovidiano...la sua frequenza in Ovidio è forse da attribuire all'influenza della
figura retorica della conduplicatio e
all'effetto musicale che tutte le figure di ripetizione donano al testo"[40].
Ovidio, fa pure notare il Conte, opera un
"rovesciamento della tradizione elegiaca precedente" nella quale
"l'amore con la sua forza irresistibile sottrae il poeta ai negotia della vita civica chiudendolo in
uno spazio sostitutivo dei valori della comunità". Gli elegiaci infatti
"dichiarano il loro essere prigionieri (e prigionieri consapevoli) della nequitia , dunque il loro non essere
buoni cittadini, e propongono un sistema di valori alternativo a quello
socialmente approvato".
Ebbene, il Sulmonese ribalta tale tradizione affermando che
l'amore "riscatta il poeta dall'ignavia
e dalla segnities perché l'amore è guerra, e richiede e
sviluppa nell'innamorato le stesse qualità fisiche e psicologiche che
l'esercizio della guerra richiede e sviluppa nel soldato. L'amante-questo l'assunto dell'elegia,
paradossale se si pensa all'antimilitarismo dei primi elegiaci-è perfettamente uguale al soldato e come
quello dotato di forza, intraprendenza, attivismo”[41].
Ricordo del resto che
nei Remedia amoris (i quali appartengono all'ultimo periodo della prima
parte della produzione ovidiana, quella elegiaco- amorosa che arriva al 2 d. C.
) l'amore verrà collegato alla desidia:"Quaeritis Aegisthus quare sit factus adulter;/in promptu causa est;
desidiosus erat " (vv. 161-162), volete sapere perché Egisto divenne
adultero? il motivo è a portata di mano: non aveva nulla da fare. Gli altri
Greci infatti facevano la guerra e ad Argo non c'erano processi a impegnarlo.
Dunque:"Quod potuit, ne nil illic
ageretur, amavit " (v. 167), fece quello che poté per non stare là
senza far niente: fece l'amore.
Quella erotica è una
guerra nella quale al poeta peligno non dispiacerebbe morire:"Felix, quem Veneris certamina mutua
perdunt;/di faciant, leti causa sit ista mei " (Amores, II, 11,
29-30), fortunato quello che mandano in rovina le reciproche lotte di Venere,
gli dèi facciano che sia questa la causa della mia morte!
Nell’Ars amatoria [42]
il magister di erotismo insegna che
Amore è ferus , selvaggio (I, 9),
crudele come Achille, saevus [43] uterque puer[44] (I, 18), e chi gli si accosta deve
accettare di armarsi come per una battaglia (miles in arma venis , I, 36) o almeno come per una giornata di
caccia. L'uomo al pari del cacciatore che sa bene dove tendere le reti ai
cervi, (scit bene venator, cervis ubi retia tendat, I, 45) deve
imparare a conoscere i luoghi frequentati dalle donne: portici, templi, fori,
fontane, ma soprattutto i teatri ( sed tu
praecipue curvis venare theatris , I, 89, ma tu soprattutto vai a caccia
nei curvi teatri ) dove il figlio di Venere fa spesso le sue battaglie, e chi
ha osservato lo spettacolo di ferite, ha una ferita:"Illa saepe puer Veneris pugnavit arena /et, qui spectavit vulnera, vulnus habet " I, 165-166.
L'anfiteatro dunque è un luogo di scontri cruenti
raccomandato per gli incontri erotici che hanno una componente conflittuale
come i ludi del circo. Le donne raffinate si precipitano ai giochi più
frequentati:"Spectatum veniunt, veniunt spectentur ut ipsae/; ille
locus casti damna pudoris habet" (Ars
amatoria I, vv. 99-100), vengono per osservare, vengono per essere loro
stesse osservate; quel luogo contiene perdite del casto pudore.
Nel Pervigilium
Veneris [45]
che celebra l'inizio della primavera e la potenza di Afrodite, Amore è in
vacanza ("feriatus est amor ",
v. 31) perciò gli è stato ordinato di andare inerme, di andare nudo:"neu quid arcu, neu sagitta, neu quid igne
laederet " (v. 33), per non ferire qualche creatura con l'arco, con la
saetta, con il fuoco. Eppure, avverte l'autore, o l'autrice, "Nymphae, cavete, quod Cupido pulcher est:/
totus est in armis idem quando nudus est amor " (vv. 34-35),
guardatevene o Ninfe, poiché Cupido è bello: ed è tutto armato anche quando è
nudo Amore.
Cesare Pavese ribalta la posizione del vulnus : per lui è la vita che infligge ferite e l'amore
anestetizza il dolore :"Perché il veramente innamorato chiede la
continuità, la vitalità (lifelongness
) dei rapporti? Perché la vita è dolore e l'amore goduto è un anestetico e chi
vorrebbe svegliarsi a metà operazione?" [46].
La componente combattiva, o almeno agonistica, che dai ludi
circensi si riflette nei venatores erotici, sembra riguardare ogni
rapporto erotico.
Anche nel grande amore adultero di Anna Karenina a un certo punto entra la cattiva Eris, ossia lo
spirito della competizione distruttiva dovuta al fatto che Vronskij era in
allarme per la propria autonomia minacciata dall'amante. Ella a sua
volta:" sentì che, a fianco dell'amore che li univa, fra loro si era
insediato un certo malvagio spirito di dissidio e che lei non poteva scacciarlo
dal cuore di lui, né, ancor meno, dal proprio"[47].
Perfino le espressioni di approvazione diventano sospette e allarmanti quando
l'amore, in uno solo dei due, è in fase calante:" C'era qualcosa di
offensivo nel fatto che egli avesse detto:"Questo sì che va bene",
come si dice ai bambini quando smettono di fare i capricci; e ancor più
offensivo era quel contrasto fra il tono di colpa che aveva lei e quello sicuro
di sé di lui: e per un istante Anna sentì sollevarsi dentro di sé il desiderio
di lotta; ma, fatto uno sforzo su se stessa, lo soffocò e accolse Vrònskij con
la stessa allegria di prima" (p. 746). Tuttavia la simulazione non regge a
lungo:" anche sapendo che si rovinava, non poté non fargli vedere quanto
lui avesse torto, non poteva sottomettersi" (p. 747),
Capita spesso, quasi sempre purtroppo, che gli amanti
diventino nemici.
Ne Le nozze di figaro di Mozart-Da Ponte[48],
Marcellina in un'aria (IV, 5) lamenta l'ostilità degli uomini verso le donne.
Sono gli unici maschi del mondo a odiare le femmine della loro specie:" Il
capro e la capretta/son sempre in amistà./L'agnello all'agnelletta/ la guerra
mai non fa./ Le più feroci belve/per selve e per campagne/lascian le lor
compagne/in pace e in libertà./ Sol noi, povere femmine,/che tanto amiam
quest'uomini/trattate siam dai perfidi/ognor con crudeltà".
In D'Annunzio gli amanti non poche volte sono nemici
mortali: tali sono Ippolita Sanzio e Giorgio Aurispa nel Trionfo della morte[49]
di cui cito la conclusione :" Fu una lotta breve e feroce come tra nemici
implacabili che avessero covato fino a quell'ora nel profondo dell'anima un
odio supremo. E precipitarono nella morte avvinti".
Per dare un esempio meno noto cito anche alcuni versi di uno
dei massimi poeti ungheresi del Novecento, Endre Ady [50]:"
Sono le nostre ultime nozze:/Ci strappiamo la carne a colpi di becco/e cadiamo
sul fogliame d'autunno" ( Nozze di
falchi sul fogliame secco).
In greco c'è una serie di termini che "sottolinea in
modo convergente l'incrociarsi delle immagini del combattimento mortale e del
corpo a corpo erotico:"Meignumi
"unirsi sessualmente", significa anche mescolarsi, incontrarsi in
battaglia. Quando Diomede "si mescola ai Troiani", vuol dire che
viene alle mani, a distanza ravvicinata, con loro (...) Stessa cosa per damazo, damnemi : soggiogare, domare.
Uno doma una donna che fa sua, come doma il nemico cui dà la morte"[51].
Fa rabbrividire, forse perché non è del tutto falsa, una
sentenza tragica del misogino suicida C. Pavese"Sono un popolo nemico, le
donne, come il popolo tedesco"[52].
E pure, con un pessimismo meno esteso ma più personalizzato:"Sono tuo
amante, perciò tuo nemico"[53].
Più avanti c'è invece
una riflessione cosmica che può spiegare questa ostilità interna alla
coppia:" Il mito greco insegna che si combatte sempre contro una parte di
sé, quella che si è superata, Zeus contro Tifone, Apollo contro il Pitone.
Inversamente, ciò contro cui si combatte è sempre una parte di sé, un antico se
stesso. Si combatte soprattutto per non essere qualcosa, per liberarsi. Chi non
ha grandi ripugnanze, non combatte"[54].
Il suicidio è la
conseguenza di tale impostazione contro natura, poiché gli umani, ma
soprattutto le femmine e i maschi umani, dovrebbero provare simpatia e amore
reciproci, come affermava Seneca: " Natura
nos cognatos edidit cum ex isdem et in eadem gigneret. Haec nobis amorem
indidit mutuum et sociabiles fecit "[55],
la Natura ci ha messi al mondo come parenti, siccome ci ha fatti nascere con
gli stessi elementi e per gli stessi fini. Questa ci ha ispirato un amore
reciproco e ci ha fatti socievoli.
L'inimicizia delle donne nei confronti degli uomini ha
avuto, almeno in passato, la genesi che Seneca attribuisce a quella degli
schiavi per i padroni:"non habemus
illos hostes, sed facimus” [56]
(Epist. ad Luc. , 47, 5), non li
abbiamo nemici, ma li rendiamo tali.
Un bel frammento di Menandro[57]
ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, che in natura "niente è tanto
congeniale come l'uomo e la donna, a guardarci bene". Come poeta d'amore,
il massimo autore della commedia nuova non può trascurare o biasimare tale
inclinazione reciproca.
C'è un romanzo di M. Kundera, non uno dei più conosciuti,
che ha un breve capitolo intitolato "La lotta"; ed è lotta tra i
sessi che viene presentata così:" Neanche lei pensava al piacere e
all'eccitazione. Si diceva: non ti lascerò, non mi scaccerai, lotterò per
tenerti. E il suo sesso che si muoveva su e giù si era trasformato in una
macchina da guerra che lei aveva messo in moto e guidava. Si diceva che quella
era la sua ultima arma, l'unica che le era rimasta, ma onnipotente. Al ritmo
dei suoi movimenti ripeteva fra sé, come il basso ostinato in una composizione
musicale: lotterò, lotterò, lotterò, e credeva di vincere...Il sesso di Laura
si muoveva con forza su e giù. Laura lottava. Lottava per Bernard. Ma contro
chi? Contro colui che stringeva a sé e poi di nuovo respingeva, per
costringerlo ad assumere un'altra posizione. Questa ginnastica estenuante sul
divano e sul tappeto, che li bagnava di sudore, che li lasciava senza fiato,
assomigliava alla pantomima di una lotta spietata: lei lottava e lui si
difendeva, lei dava ordini e lui ubbidiva"[58].
giovanni ghiselli
p. s.
Ieri pomeriggio ho esposto questo percorso con un seguito
che poi a mano a mano pubblicherò. La conferenza organizzata dalla AICC è stata
a Verona, dalle 17, 30 nella Caffetteria del Duomo (piazza Duomo, 4A).
Intanto il blog è arrivato a 197761
[3]
Parla la nutrice nei primi versi del prologo
11 Gigante libico che
uccideva i viandanti e acquisiva forza dal contatto con sua madre, la Terra
dalla quale Ercole lo sollevò per strozzarlo. Il contatto con la terra è
benefico e necessario:"La civilizzazione e l'intellettualità son belle
cose, son grandi cose, non vogliamo certo negarlo. Ma senza quella che noi un
giorno definiremo la compensazione di Anteo, sono rovinose per l'uomo e creano
la malattia" (T. Mann. Carlotta a Weimar, p. 403).
31. Nell'elegia
proemiale del secondo libro il poeta umbro dichiara la sua recusatio della poesia epica affermando che la sua intera Iliade sarà riempita dalle lotte tra lui
e la sua puella che lo ispira. Egli è
poeta d’amore e potrà comporre poeti lunghi come l’Iliade se la ragazza, sua Musa,
tra le altre cose, suona la lira, o lotta nuda con lui, strappata la tunica:"
Seu nuda erepto mecum luctatur
amictu,/tum vero longas condimus Iliadas " (II, 1, 13-14).
Properzio nacque ad Assisi
nel 49 a. C. circa, morì Roma intorno al 15a. C. Ha lasciato quattro libri di
elegie. Il primo fu pubblicato nel 28, il secondo e il terzo nel 22, il quarto
nel 16 a. C. I primi tre cantano l'amore per Cinzia, il IV, quello delle elegie
romane, racconta per lo più miti, riti della tradizione, episodi della storia
di Roma e italica.
32. Nato a Gabii o a
Pedum , nel Lazio rurale fra il 55 e il 50 a. C., morto tra il 19 e il 18 a. C.
Sotto il suo nome ci è giunto il Corpus
tibullianum , tre libri di elegie. Sono sicuramente e autenticamente
tibulliani i primi due che cantano l'amore per due donne, Delia e Nemesi. Il
terzo libro che gli umanisti divisero in due parti è un’antologia di vari
autori, compreso Tibullo. Quintiliano lo definisce tersus atque elegans maxime…auctor (Institutio oratoria , X, 93), l'autore più elegante e raffinato,
nel campo dell'elegia dove i latini possono sfidare i Greci.
[34] A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana , p.
185).
[35]
Intitolato La religione di Numa.
[36]
I, 3, 33-34. A me tocchi di celebrare i Penati patrii e di offrire incensi
mensili all'antico Lare.
[37]
W. Pater, Mario l'epicureo , pp. 1-2.
[38]
43 a. C.-18 d. C.
41. L'Ars amatoria (in distici elegiaci)
costituisce una precettistica erotica in tre libri: nei primi due il poeta fa
il maestro d'amore agli uomini, nel terzo alle donne. Questa raccolta a sfondo
didascalico fu completata nell'1 o nel 2 d. C, come i Remedia amoris e i Medicamina faciei femineae. Ovidio, nato a
Sulmona, e morto in esilio a Tomi sul Mar Nero, visse tra il 43 a. C. e il
17/18 d. C.
[45] La veglia di
Venere, un carme anonimo, compreso nell'Anthologia
latina , di novantatré versi (tetrametri trocaici catalettici), di età e
attribuzione incerta, dal II secolo d. C. , al IV, al VI; da Floro, a
Tiberiano, a un'Autrice anonima.
Il
poemetto celebra il ritorno della primavera e la potenza di Venere con
l'esaltazione dell'amore, della natura e del piacere, non senza però un'ombra
di malinconia
[46]Il
mestiere di vivere,
19 gennaio 1938.
[47]L. Tolstoj, Anna Karenina , p. 711.
[48]
Del 1786.
[49] Del 1894.
[50]
1877-1919.
[51]J.
P. Vernant, L'individuo, la morte,
l'amore , p. 118.
[52]Il
mestiere di vivere
, 9 settembre 1946.
[53] Il mestiere di vivere ,18 novembre 1945.
[54]Il
mestiere di vivere, 28 dicembre 1947.
[55] Epist. ad Luc. 95, 52
[56] Epist. ad Luc. , 47, 5
[57]
342-291 a. C.
[58]M. Kundera, L'immortalità , p. 169.
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