Giampietrino, Didone, c. 1520 |
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La storia di Didone
III parte
L’amore come colpa o come
distrazione
Didone parla con la sorella Anna
dicendole quanto l’ha colpita l’eroico troiano accolto come ospite
“…heu quibus ille/iactatus fatis! quae bella exhausta
canebat!/ Si mihi non animo fixum immotumque sederet,/ne cui me vinclo vellem
sociare iugali,/postquam primus amor deceptam morte fefellit;/si non pertaesum
thalami taedaeque fuisset,/huic uni forsan potui succumbere culpae" ( Eneide,
IV, vv. 14-20), ahi da quali destini è stato agitato! Quali guerre sostenute
narrava! Se nel mio cuore non ci fosse ferma e incrollabile la decisione di non
volermi unire ad alcuno con vincolo coniugale, dopo che il primo amore mi
ingannò e deluse con la morte; se non mi fossero venute in odio il talamo e le
fiaccole nuziali, per questo soltanto forse avrei potuto soggiacere alla colpa.
Commento ai versi 14-20
Heu: quibus ille iactatus fatis: cfr. Otello[1] di Shakespeare:"My story being done,/she gave me for my pains a world of sighs:…She loved
me for the dangers I had pass'd, And I loved her that she did pity them " (I, 3), finita la mia storia, ella mi diede per le mie pene un
mondo di sospiri…ella mi amò per i pericoli che io avevo passato, ed io l'amai
perché ella ne aveva avuto pietà.
"iactatus : cfr. Eneide
I, 4:"multum ille et terris iactatus et alto ", egli molto fu
sbattuto tra le terre e in alto mare.
-exhausta: da exhaurio che significa "vuotare",
"portare a termine con affanno".-Si mihi non animo fixum[2] immotumque sederet:
protasi di un periodo ipotetico della irrealtà.-
taedaeque[3]: la fiaccola è
latrice di significato simbolico ambivalente: evoca le nozze ma anche i
funerali, come risulta da questo verso di Properzio dove Cornelia dice :"viximus
insignes inter utramque facem" (IV, 11, 46), sono vissuta nella luce
tra l'una e l'altra fiaccola (quella delle nozze e quella del rogo funebre).
Tale fax ambigua si ritrova nei Remedia amoris[4] di Ovidio dove il poeta dice al dio Amore:"non tua
fax avidos digna subire rogos (v. 38), la tua fiaccola non si merita di
stare sotto i roghi ingordi. Talora la mancanza della fax crea dolore: nel Satyricon
Circe spera di avere una relazione con Encolpio soprannominandolo Polieno, come
le Sirene avevano chiamato Odisseo (Odissea, XII, 184) per facilitare l'unione con l'espediente
scaramantico del nomen omen:"nec sine causa Polyaenon Circe amat: semper inter haec nomina magna fax surgit " (127, 7), non senza motivo Circe ama Polieno: sempre tra questi
nomi guizzi una grande scia di fuoco. Invece il povero Encolpio verrà colpito
dall'ira di Priapo con grande scorno e dolore degli amanti mancati.
"Nel
teatro shakespeariano una fiaccola in scena serve da didascalia, indica che
l'azione si svolge di notte (Romeo e Giulietta, atto I, scena 4 "io
reggo il candelabro e me ne sto a vedere"). Nel teatro greco la fiaccola
contrassegna la festa solenne, il rito, come nelle Eumenidi, v. 1005, nell'Elena, v. 865, nell'Ifigenia in Tauride, v. 1224: e sarà tenuta ben
ferma, in alto. Ma può anche essere mossa, venir agitata, connotare uno stato
di turbamento e di furore, come nelle Troiane, vv. 308 sgg., quando Cassandra irrompe in scena
come una pazza, con tede rituali di nozze"[5].
-pertaesum…fuisset (sottinteso me).
Il piuccheperfetto indica la lunghezza del tempo passato dalla lontananza del
talamo nuziale che comunque rimane sempre il mobile più importante della
dimora.-culpae: c'è da notare che da Virgilio non viene altrettanto
gravato da senso di colpa l'amore omosessuale: Niso ardeva per il bell' Eurialo
"amore pio " (Eneide , V, 296) di un amore santo.
Didone era una donna libera, non
stava scivolando verso un adulterio, ma "Le vedove in Roma, pur essendo
loro concesso dalla legge un nuovo matrimonio, ritenevano degno d'onore
mantenersi univirae, cioè donne che
avevano un solo marito"[6].
Il fatto che, uomini e donne, si accontentino di un solo coniuge
corrisponde al costume antico dei Romani
secondo quanto racconta Valerio Massimo[7]:"Quae uno contentae matrimonio fuerant, corona
pudicitiae honorabantur. Existimabant enim eum praecipue matronae sincera fide
incorruptum esse animum , qui, depositae virginitatis cubile egredi nesciret,
multorum matrimoniorum experientiam quasi legitimae cuiusdam intemperantiae
signum esse credentes. Repudium inter uxorem et virum a condita urbe usque ad
centesimum et quinquagesimum annum nullum fuit " (Factorum et
dictorum memorabilium, II, 1, 3), quelle che si erano accontentate di un
solo matrimonio venivano onorate con la corona della pudicizia. Consideravano
infatti che fosse in particolare puro per schietta fedeltà l'animo di una
matrona che non sapesse uscire dal letto dove aveva lasciato la verginità,
poiché credevano che l'esperienza di molti matrimoni fosse segno di una per
così dire legittima sfrenatezza. Non ci fu nessun divorzio tra moglie e marito
dalla fondazione di Roma per centocinquant'anni.
Anche per gli uomini romani unum
matrimonium è motivo di lode: Tacito fa l'elogio funebre di Germanico,
morto avvelenato in Siria da Pisone nel 19 d. C., riportando l'opinione di chi lo anteponeva ad
Alessandro Magno: avevano in comune il bell'aspetto, la stirpe nobile, la morte
precoce tra genti straniere dovuta a insidie familiari, "sed hunc mitem
erga amicos, modicum voluptatum, uno matrimonio, certis liberis egisse
" (Annales , II, 73), ma questo era stato gentile con gli amici,
temperante nei piaceri, sposato con una sola donna, con figli legittimi.
Questi dunque erano gli antiqui
mores al cui ripristino Virgilio voleva
contribuire.
Fine commento vv. 14-19
Didone aggiunge che dopo
l'assassinio di Sicheo, perpetrato da Pigmalione, solo Enea ha scosso i suoi
sensi e ha colpito l'animo in modo da farlo vacillare:"Adgnosco veteris vestigia flammae "
(v. 23), riconosco i segni dell'antica fiamma.
Se ne ricorderà Seneca nella Medea, la cui nutrice, vedendo la furia
della moglie tradita, fa:"irae
novimus veteris notae " (v. 394), conosco i segni dell'antica ira;
quindi Dante mettendone una traduzione letterale nel Purgatorio: "conosco i segni dell'antica fiamma" (XXX,
48).
Ogni autore conosce la tradizione
e se ne avvale come base aggiungendo del suo. Così l'edificio cresce.
Dare retta a un impulso amoroso
viene vissuto dalla regina come una
violazione del pudore (Pudor, v. 27) considerato al pari di una divinità
la cui offesa sarebbe meritevole di morte: una punizione che la
"spudorata" si infliggerà da sola.
"Sed mihi vel tellus optem
prius ima dehiscat,/vel pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras,/pallentis
umbras Erebi noctemque profundam,/ante, Pudor, quam te violo aut tua iura
resolvo./Ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores/abstulit; ille habeat
secum servetque sepulcro". Sic effata sinum lacrimis implevit obortis
" (vv. 24-30), "ma vorrei che
la terra mi si spalancasse dal fondo, o che il padre onnipotente mi precipitasse
con il fulmine tra le ombre, le pallide ombre dell'Erebo e nella notte
profonda, prima che io ti profani Pudore o che sciolga le tue leggi. Quello che
per primo mi congiunse a sé, portò via i miei amori; quello li abbia con sé e
li conservi nella tomba". Così avendo detto riempì il seno di lacrime
sgorgate.
-Pudor:"Pudor
(è) senso morale per cui si prova scrupolo e ripugnanza davanti a tutto
ciò che nega i valori morali e religiosi. E' affine all' aijdwv" dei Greci, ma ha vitalità molto maggiore: la Pudicitia era una divinità oggetto di un culto
importante; al culto della Pudicitia
patricia la plebe aveva affiancato e
contrapposto un culto della Pudicitia
plebeia "[8]. Orazio nel Carmen saeculare [9] celebra il nuovo secolo
di prosperità e virtù morali ritrovate:"Iam Fides et Pax et Honor
Pudorque/priscus et neglecta redire Virtus/audet, apparetque beata pleno/Copia
cornu"[10], già la Fede e la Pace e
l'Onore e il Pudore antico e la Virtù messa da parte osa tornare, e appare
felice l'Abbondanza con il corno pieno.
Valerio
Massimo nel proemio del VI libro invoca la Pudicitia:"virorum
pariter ac feminarum praecipuum firmamentum ", solido fondamento nello
stesso tempo per donne e uomini. Ella appunto è stata onorata come una
dea:"Tu enim prisca religione consecratos Vestae focos incolis, tu
Capitolinae Iunonis pulvinaribus incubas…[11]", tu infatti abiti i focolari consacrati a Vesta
dall'antico culti, tu giaci sui cuscini di Giunone Capitolina.
Viceversa
Ovidio, in polemica libertina con il regime augusteo vuole scacciare il pudore
che deve cedere il posto all'audacia suadente:" Conloqui iam tempus
adest; fuge rustice longe/hinc Pudor: audentem Forsque Venusque iuvat "(Ars amatoria I,
605-606), è già tempo di parlarle; fuggi lontano di qui, rozzo Pudore, la Sorte
e Venere aiutano chi osa.
L'ultimo verso viene citato in funzione
esortativa e con effetto parodico nella fabula
Milesia[13] del Satyricon dall'ancella della matrona di Efeso
quando vuole minare l'ostinazione della padrona che nelle prime ore della
vedovanza si rifiuta di prendere perfino il cibo. L'ancilla dunque cita
l'Eneide :" "id cinerem aut manes credis sentire sepultos?"
vis tu reviviscere? vis discusso muliebri errore, quam diu licuerit,
lucis commodis frui? ipsum te iacentis corpus admonere debet ut vivas" (111, 12), tu
credi tu che di ciò si curino il cenere o i mani sepolti? vuoi tu tornare alla
vita? vuoi, dissipato lo smarrimento da femmina, godere delle gioie della luce
il più a lungo possibile? lo stesso corpo del morto deve avvertirti di vivere.
La
signora si lasciò convincere abbastanza
presto e anzi si ingozzò di cibo.
Virgilio dunque dà voce agli
scrupoli sessuali che trattengono la regina, e alle direttive augustee, mentre
la sorella Anna mossa dal buon senso le
consiglia di non opporsi anche a un amore gradito ("placitone etiam pugnabis amori? ", v. 38) e dunque naturale.
Nella fabula Milesia del Satyricon,
dove la bella vedova è corteggiata da un soldato, la parodia, il controcanto,
procede con l'utilizzazione di quest'altra espressione virgiliana: Nec
deformis aut infacundus iuvenis castae videbatur, conciliante gratiam ancilla
ac subinde dicente:"placitone etiam pugnabis amori?” (112, 2),
né il giovane appariva brutto o impacciato nell'eloquio alla casta
signora, tanto più che l'ancella conciliava l'inclinazione e sovente
diceva:" ti opporrai persino a un amore gradito? Sicchè:"
ne hanc quidem partem
corporis mulier abstinuit, victorque miles utrumque persuasit" (112, 2), neppure questa parte del corpo la donna tenne
in astinenza, e il soldato la persuase, vincitore da una parte e dall'altra.
Simile a quello di Anna è il consiglio della
nutrice a Fedra[14] :" ouj lovgwn eujschmovnwn-dei' s j, ajlla; tajndrov""[15], tu non hai bisogno di discorsi speciosi ma di quell'uomo,
le dice.
Così il tenente Mahler del film Senso
di Visconti:"è molto meglio
prendersi il piacere dove si trova".
Le proposte delle nutrici spesso
sono convincenti quanto quelle dei seduttori di professione:"nutrīcum
et paedagogorum rettulēre mox in adulescentiam mores "[16], ben presto i ragazzi riproducono nella giovinezza i
costumi di nutrici e pedagoghi.
"Dal teatro attico, più che da Apollonio,
proviene il personaggio di Anna, la sorella della regina, che tiene accanto a
lei il posto, press'a poco, di confidente: più che al personaggio, molto
scialbo, di Calciope, la sorella di Medea, in Apollonio, Anna fa pensare a
Ismene, la sorella di Antigone ,
nella tragedia di Sofocle o a Crisotemi, la sorella di Elettra , nella tragedia di Euripide: come questi personaggi, ella,
pur con tutto il suo affetto e la sua dedizione, resta in fondo estranea al
pathos e ai tormenti della sorella e si muove, quindi, in un'atmosfera di
umanità più comune e banale che, pur non potendosi dire meschina, resta
nettamente al di sotto della sublimità tragica. E' tuttavia significativo che
la parte della confidente sia affidata alla sorella della regina, non ad una
nutrice, personaggio ben noto al teatro attico"[17].
La nutrice di Fedra e Anna interpretano eros
in maniera metodicamente realistica, un
metodo che del resto viene smontato dal poeta.
giovanni ghiselli
p. s. il blog è arrivato a 200642
[1] Del 1604-1605.
[2] Ci sono parole e sentimenti
sprofondati nella mente da dove vanno stanati come un cervo dal suo covo (cfr. Elettra di Sofocle, vv.567-568:"ejxekivnhsen...e[lafon",
di Agamennone che stanò la cerva in Aulide). Freud parla di fissazioni al
trauma, per le quali esistono appunto persone "fissate a un determinato
periodo del loro passato" tanto da "non sapersene liberare" e da
essere "perciò estraniate dal presente e dal futuro. Esse sono rinchiuse
nella loro malattia". La terapia psicoanalitica "opera trasformando
in conscio ciò che è inconscio...la nostra tesi, che i sintomi svaniscono con
la conoscenza del loro significato, rimane comunque esatta. Bisogna solo
aggiungere che la conoscenza deve basarsi su un cambiamento interiore
dell'ammalato" Introduzione alla
psicoanalisi, in Freud Opere , vol.VIII, p.435 e ss.
Il Tiresia di Sofocle, al pari di uno psicoanalista moderno,
sblocca queste fissazioni (ajkivnhta), anche se è doloroso farlo: nell'Edipo a Colono il
cieco dice:"ajll j ouj ga;r aujda'n hJdu; tajkivnht j e[ph" (v. 624), ma infatti non è
piacevole dire le parole immote.
[3] Cfr. greco daivw, "accendo"
e da/v" ,
"fiaccola".
[4] I Remedia amoris, un
poemetto di 814 versi (412 distici elegiaci), appartengono all'ultimo periodo della prima parte della produzione
ovidiana, quella elegiaco- amorosa che
arriva al 2 d. C.
[5] U. Albini, Nel nome di Dioniso, p. 112.
[6] Giordano, Piazzi,
Tumscitz, Integros accedere fontis ,
p. 105.
[7] I sec. d. C.
[8]A. La Penna-C.
Grassi, op. cit., p. 373.
[9] Del 17 a. C.
[10] Vv. 57-60. E' una strofe saffica formata da tre
endecasillabi saffici e da un adonio.
[11] Factorum et
dictorum memorabilium libri IX , VI, 1.
[12] Storia Dei Romani, vol. I, p. 303.
[13] La novella
licenziosa introdotta nelle lettere latine in età sillana da Cornelio
Sisenna che tradusse i Milhsiakavvv di Aristide di Mileto (II sec. a. C.). Appartiene a questo
genere la storia della "Matrona di Efeso" ( Satyricon,
111-112).
[14] Che, con ragioni del resto assai diverse da quelle della
regina vedova, lotta contro la propria passione.
[15] Euripide, Ippolito (del 428 a. C.), vv. 490-491.
[16] Seneca, De ira
(del 41 a. C.) II, 21.
[17]A. La Penna-C.
Grassi, op. cit., p. 358.
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