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Presentazione del
libro di Gherardo Colombo
Il perdono
responsabile. Perché il carcere non serve a nulla
PONTE ALLE
GRAZIE, Milano 2013
Prima parte
L’autore già
nella copertina pone un interrogativo: “si può educare al bene
attraverso il male?”
Evidentemente si
tratta di una domanda retorica. Il motivo della risposta “no”,
suggerita dalla domanda, viene chiarito dal libro con argomenti
lucidi e precisi.
La Premessa
spiega “Di che cosa si parla” (pp. 7-10).
Colombo mette
subito in chiaro1
che il perdono associato al peccato pertiene alla sfera privata e non
riguarda il libro che deve partire piuttosto dalle “regole
attraverso le quali si vive insieme” (p. 8).
Si tratta allora
di vedere quale sia l’essenza della regola il cui concetto “è
spesso approssimato e frainteso (…) La regola soprattutto viene
confusa con la punizione (…) Non è così. La regola consiste in
una indicazione, indotta “ dalla reale o presunta costanza dei
fenomeni” 2.
La regola è ciò che ti dice come comportarti nelle situazioni che
incontri nella vita” (p. 9).
Non trasgredire
la regola non è un dovere religioso, né una norma giuridica né un
imperativo morale, ma una necessità suggerita all’intelligenza
dalla necessaria3,
o molto probabile, successione dei fatti, identificabile in qualche
modo con il destino4.
“La regola,
dunque, non coincide con la punizione: quest’ultima può essere
prevista in caso di trasgressione (“se non ti lavi i denti, questa
sera non mangi il gelato”), ma può anche mancare (a un ragazzo
particolarmente recalcitrante, la madre potrebbe dire: “io non ti
dico niente, ma non venire a lamentarti se prendi quattro, perché se
oggi non studi domani l’interrogazione ti andrà senz’altro
male”)” (p. 10)
Dunque la regola
discende dai fatti, da come questi sono stati disposti dalla natura
oppure organizzati e diversamente interpretati dalle varie culture.
Passiamo quindi
al primo capitolo: “La cultura e la regole” (pp. 10-14)
Colombo racconta
la reazione della madre di un ragazzo ucciso da un altro ragazzo e la
confronta con la reazione del tutto diversa di un amico della
vittima. La madre orbata del figlio esclude dal suo animo l’odio
per l’uccisore e dice di essere sicura che non voleva uccidere,
mentre l’amico manifesta desiderio di vendetta: “Quell’individuo
deve crepare in carcere” (p. 11).
Si tratta “di
due culture diverse, si potrebbe dire opposte: la prima ha come
fondamento la proiezione verso l’altro, la comprensione dell’altro,
la condivisione dei suoi problemi e dei suoi drammi; la seconda ha
per base la negazione, l’esclusione, l’allontanamento.” (p. 12)
Diversità delle
culture significa diversità delle regole normative dello stare
insieme. Tali regole, differentemente da quelle scritte nella natura,
sono fatte dagli uomini, talora da un popolo intero, talvolta da un
gruppo ristretto di uomini o addirittura dal singolo uomo per sé
solo5,
anche se le regole seguite dalla maggioranza che vive in uno stesso
ambito culturale e in un periodo definito sono determinate dal modo
di pensare collettivo. “Alle mutazioni della cultura muta il senso
di giustizia, cambia l’accettabilità del contenuto delle regole e,
di conseguenza, queste vengono modificate” (p. 14).
Queste sono
precariamente situate su un palinsesto via via cancellato e
riscritto6
dunque non sono fisse, ma cambiano con il mutare dei gusti, degli
eventi, addirittura delle mode.
In un certo senso
le regole corrispondono ai mores
dei Romani.
Vediamone la
mutevolezza.
Orazio nell' Ars
poetica nota
che in ciascuno di noi i costumi si trasformano con il variare
dell’età nella pur breve e scoscesa vita umana.
Il poeta augusteo
distingue le quattro diverse parti che assumiamo e recitiamo durante
il passare degli anni: "aetatis
cuiusque notandi sunt tibi mores"
(156), si deve badare bene ai costumi specifici di ciascuna età.
Segue una descrizione dei mores
dei periodi della vita: il puer
gestit paribus colludere (159),
smania di giocare con i suoi pari, e cambia umore spesso: et
mutatur in horas (160).
Gli succede l'
imberbus iuvenis il giovinetto
imberbe il quale gaudet equis
canibusque,
ed è cereus in vitium flecti,
facile come la cera a prendere l'impronta del vizio, prodigus
aeris, prodigo di denaro.
Poi, conversis
studiis aetas animusque virilis/,
quaerit opes et amicitias, inservit
honori (vv. 166-167), cambiate le
inclinazioni, l'età e la mente adulta cerca ricchezze e aderenze, si
dedica alla conquista del potere.
Poi c'è il
vecchio: "difficilis, querulus,
laudator temporis acti/se puero, castigator censorque minorum"
(vv. 173-174), difficile, lamentoso, elogiatore del tempo trascorso
da ragazzo, critico e censore dei giovani. Sono dunque quattro atti
che recitiamo in quattro parti diverse, con quattro aspetti diversi.
Una recita della quale d’altra parte siamo gli attori, non i
registi7.
Tali mores
del resto variano anche secondo le classi sociali, le epoche, le
situazioni politiche, le condizioni economiche.
Sallustio nel
Bellum Catilinae
, rimpiange i boni mores
dell'antica Repubblica, quando cives
cum civibus de virtute certabant , i
cittadini gareggiavano per il valore con i cittadini, e ricorda che:
"ius bonumque apud eos non
legibus magis quam natura valebat "
(9), il diritto e l'onestà da loro aveva forza non più per le
leggi8
che per natura. Lo storiografo cesariano nota che questi costumi
decaddero con la fine del metus
hostilis (Bellum
Iugurthinum 41, 2) cioè la paura
del nemico Cartaginese terminata con la distruzione della città
punica nel 146 a. C. Gli antiqui
mores tanto celebrati e rimpianti
dai tradizionalisti erano tenuti vivi dal metus9.
Quello che non
muta è il fas
Maurizio Bettini
chiarisce bene la differenza di significato tra fas
e mos.”Il
mos
collettivo si configura come una decisione presa da un "gruppo",
il quale raggiunge un consensus
su un certo comportamento: dopo di che, il medesimo gruppo ha la
capacità di affermare nel tempo questo tipo di comportamento,
trasformandolo così in mos
o mores
12".
Il mos
allora nasce dal consensus.
"Secondo
Servio, infatti, Varrone definiva il mos
in questo modo: "Varro vult
morem esse communem consensum omnium simul habitantium, qui
inveteratus consuetudinem facit "13
(Varrone vuole che il mos
sia costituito dal consenso di tutti coloro che vivono insieme: una
volta che si sia affermato nel tempo, questo consenso crea la
consuetudine). Ulpiano riprendeva certo Varrone quando affermava:
"Mores sunt tacitus consensus
populi longa consuetudine inveteratus"14
(…) Questo significa che il mos
o i mores
non sono percepiti come qualcosa di assoluto,
che si impone per sua natura: al contrario, sono il frutto di un
accordo collettivo su qualcosa che inizialmente dipende da un
iudicium animi,
e questo accordo deve superare la prova del tempo.
In questo senso
il mos
si presenta profondamente diverso da ciò che i Romani definivano
fas:
la parola divina15,
simile a quella che si esprime nel fatum
o "destino"; quella "parola" impersonale che solo
esistendo manifesta la volontà degli dèi e si realizza nella forma
di un "diritto divino" che è appunto nefas
violare16.
Nella rappresentazione culturale romana, il fas
è qualche cosa che si impone da solo, indipendentemente dal iudicium
individuale della persona.. Il fas
sta scritto direttamente nella natura. Esso costituisce la regola che
prescrive di non commettere certe azioni di particolare gravità, la
cui mostruosità è fuori discussione. Perché il fas
agisca come norma di comportamento, non c'è dunque bisogno di un
gruppo che su di esso ha raggiunto un consensus,
né di una consuetudo
che si afferma nel tempo”17.
Risalendo ai
Greci, si può fare una distinzione del genere a proposito di novmoς
e divkh.
“La parola
novmoς
reca in sé, dalla sua origine, un’impronta regionale: indica
dapprima l’usanza che si è formata in un dato paese nell’ambito
di una data comunità e che vale solo per essa, alla stessa stregua
della moneta, in greco novmisma,
che ha corso soltanto in un determinato territorio”18.
Il novmoς
in effetti presenta tanta variabilità che nell’Antigone
di Sofocle ha addirittura significati opposti tra quanto intende
Creonte con questa parola e quello che sostiene la protagonista
eponima. Se i novmoi
sono mutevoli e soggetti alle
opinioni, la divkh
è invece l’idea etica della giustizia.
“La dike
stessa stava al di sopra del diritto formale e, come concetto morale
e non giuridico, era affatto indipendente da quello”19.
Esiodo, Solone e
pure Eschilo sono i profeti di Divkh
presentata come una dea o un’assistente della divinità: a lei
nulla sfugge e prima o poi, ma sempre, arriva.
Ma torniamo al
libro di Colombo e concludiamo questa prima parte.
L’inizio di
questo capitolo ci ha mostrato due culture diverse con regole
differenti originate da un senso della giustizia diverso.
“Il primo, come
si è detto, è caratterizzato dalla preoccupazione per l’altro,
dall’accoglimento, dal perdono. Il secondo è informato a un
criterio di esclusione dell’altro, di rifiuto, di separazione, di
retribuzione del male con il male” (p. 14)
Continua
giovanni ghiselli
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1
Insisto sulla chiarezza e su chiaro (cfr. il greco ajrgovς
, splendente, la cui radice si ritrova in argentum,
argumentum latino, to
argue inglese) poiché la chiarezza
è uno dei pregi di questo libro.
2
Devoto Oli on line.
3
Ecuba nelle Troiane
di Euripide invoca uno Zeus non mitologico con queste parole :
chiunque tu sia, difficile da conoscere, sia necessità di natura
(ajnavgkh
fuvseo~,),
sia intelligenza dei mortali (nou`~
brotw`n, v.
886).
4
Seneca De
beneficiis
afferma che Giove può essere chiamato anche fatum
"cum
fatum nihil
aliud sit quam series implexa causarum"
(IV, 7), dal momento che il Fato non è altro che la serie
concatenata delle cause.
5
Cfr. p. e. il Dyskolos
di Menandro (IV sec. a. C.) che del resto arriva a comprendere
l’impossibilità della totale aujtavrkeia.
6
Come la storia secondo Orwell (1984).
7
Shakespeare ne enumera sette: "All
the world's a stage-And all the men and women merely players"
(As you like it,
II, 7), tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le
donne non sono che attori. Essi, continua il malinconico Jaques,
hanno le loro uscite e le loro entrate. Una stessa persona, nella
sua vita, rappresenta parecchie parti, poiché sette età
costituiscono gli atti della vita umana". Segue la descrizione
dei sette atti. Ci interessa il secondo: quello dello "scolaro
piagnucoloso che, con la sua cartella e col suo mattutino viso, si
trascina come una lumaca malvolentieri alla scuola"; poi il
terzo quello dell' innamorato "che sospira come una fornace,
con una triste ballata composta per le sopracciglia dell'amata".
Infine "l'ultima scena, che chiude questa storia strana e piena
di eventi, è seconda fanciullezza e completo oblio, senza denti,
senza vista, senza gusto, senza nulla".
8
Tacito nel XIX capitolo della Germania
(del 98 d. C.) contrappone la corruzione dei Romani alla sanità
morale dei Germani: "paucissima
in tam numerosa gente adulteria
", quindi aggiunge: "nemo
enim illic vitia ridet, nec corrumpere et corrumpi saeculum vocatur
" (19), e conclude il capitolo con questa sentenza: "plusque
ibi boni mores valent quam alibi bonae leges
".
9
Terenzio (II sec. a. C.) invece sostiene che l’autorità deve
fondarsi sulla stima e sull’affetto. L’autoritarismo è
irrazionale ed è basato sulla paura. Il problema è posto da
Micione negli Adelphoe
"Pudore
et liberalitate liberos/retinere satius esse credo quam metu: /hoc
pater ac dominus interest"
( vv. 57-58), credo che sia meglio tenere a freno i figli con il
rispetto e con la generosità che con la paura. In questo differisce
un padre da un padrone.
10
Tacito applica ai costumi l’idea del ciclo : "Nisi
forte rebus cunctis inest quidam velut orbis, ut quem ad modum
temporum vices ita morum vertantur
"(Annales
, III, 55), a meno che per caso in tutte le cose ci sia una specie
di ciclo, in modo che, come le stagioni, così si volgono le vicende
alterne dei costumi.
11
Su quanto influiscano le mode sui costumi sentiamo Musil: "se
Arnheim avesse potuto figger lo sguardo negli anni futuri, avrebbe
visto che millenovecentovent'anni di morale cristiana, milioni di
morti in una guerra sconvolgente e una selva poetica tedesca che
aveva cantato il pudore della donna non aveva potuto ritardare di
un'ora il momento in cui gli abiti femminili si erano accorciati e
le fanciulle d'Europa per un certo tempo s'erano sbucciate nude come
banane da millenari divieti. Anche altri cambiamenti avrebbe veduto,
che mai gli sarebbero parsi possibili, e non importa sapere che cosa
rimarrà e che cosa tornerà a sparire, quando si pensa agli sforzi
enormi e probabilmente vani che sarebbero occorsi a promuovere un
simile rivolgimento delle condizioni di vita scegliendo la via
cosciente e responsabile del progresso spirituale attraverso i
filosofi, i pittori e i poeti, invece di quella che passa attraverso
gli avvenimenti della moda, i grandi sarti e il caso; perché se ne
può dedurre quanto sia grande la forza creativa della superficie,
paragonata alla sterile pervicacia del cervello" R. Musil,
L'uomo senza
qualità ,
trad. it. Einaudi, Torino, 1972, p. 395.
12
M. Bettini, Le orecchie di Hermes,
p. 257.
13
Servius in
Aeneidem,
VII, 601.
14
Ulpiano, Regulae,
I, 4. Ulpiano è uno dei più celebri giuristi del III sec. d. C.
15
Cfr. P. Cipriano, Fas e nefas,
Università degli Studi di Roma, Istituto di Glottologia, Roma 1978.
16
E. Benveniste, Il vocabolario delle
istituzioni indoeuropee, Einaudi,
Torino, 1976, II, pp. 348-349. Per la differenza tra fas
e ius
cfr. Servio in Georgica, I, 269: " (…) ad
religionem fas, ad homines iura pertinent".
17
M. Bettini, Le orecchie di Hermes,
p. 258.
18
Max Pohlenz, L’uomo greco,
trad. it. “La nuova Italia” editrice, Firenze, 1976 (2)
19
Pohlenz, ibid,, p. 193
Credo che il perdono non debba escludere,comunque,una giusta punizione.Giovanna Tocco
RispondiEliminaal di là del perdono da parte delle vittime,
RispondiEliminaio penso che per chi ruba, rapina, spaccia - per quanto siano reati gravi - occorra assolutamente il recupero e il reinserimento, perché spesso sono persone disperate che hanno solo bisogno di aiuto e di un lavoro.
ma per chi uccide - non per legittima difesa - stupra, tortura, distrugge, no, per quelli non esiste recupero, perché il male ce l'hanno dentro. per quelli prigione a vita e basta. una persona che stupra una donna non è recuperabile e lo rifà tutte le volte che può. una persona che uccide i bambini non è recuperabile e deve essere messa in condizioni di non farlo più
maddalena
Il problema è: chi giudicherà chi giudica? è realmente possibile una giustizia gestita in modo tale da assicurare pene diverse per lo stesso reato giudicando non il reato ,ma la condizione sociale e psicologica di chi lo commette?E se anche fosse possibile ,questo non determinerà una catena di reati impunibili perchè non giudicabili? Il reato punito risolve gli strascichi fisici e morali sulla vittima e sulla società? Considerato che la risposta è negativa, rimane la punizione come prevenzione del crimine. Quindi se di colpa trattasi è quella educativa della società non in grado di trasmettere i giusti valori e dare ai suoi membri pari opportunità. Insomma è sempre colpa della maestra. Giovanna Tocco
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