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lunedì 22 dicembre 2014

La storia di Didone. V parte

Władysław Podkowiński, Follia, 1893

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Amore è infamia e follia. Può diventare anche crudeltà, nel caso che la donna frustrata abbia a portata di mano creature deboli con cui prendersela: "Saevus Amor docuit natorum sanguine matrem/commaculare manus. Crudelis tu quoque, mater./Crudelis mater magis, an puer improbus ille? ", il crudele Amore insegnò alle madri a contaminare le mani col sangue dei figli. Crudele anche tu madre. Crudele la madre di più o quel figlio malvagio?, canta Damone nell ecloga VIII (vv. 47-49) con riferimento a Medea, a Venere e a Cupido.
L'amore, in quanto connotato per natura da furor e improbitas , non dovrebbe riguardare la "razza padrona" degli optimates quali vengono definiti da Cicerone nel Pro Sestio[1]: " Omnes optimates sunt qui neque nocentes sunt, nec natura improbi nec furiosi, nec malis domesticis impediti ", 45, sono ottimati tutti quelli che non fanno del male, né sono malvagi né squilibrati per natura, né impacciati da difficoltà domestiche.
Anche Giunone, benevola e protettiva verso la regina di Cartagine, individua l'amore di lei come ardore e furore: "ardet amans Dido traxitque per ossa furorem " ( Eneide, IV, 101), arde d'amore Didone e ha contratto nelle ossa il furore.

La follia erotica è assimilabile a quella religiosa.
Furens nell'Eneide è pure Cassandra della quale Corebo era acceso da folle amore: "insano Cassandrae incensus amore "(II, 343), cosa che gli costò la vita poiché si trovava a Troia la notte dell'incendio avendo voluto portare aiuto a Priamo in quanto aspirava a diventare suo genero: " infelix, qui non sponsae furentis praecepta /audierit "( II, 345-346)), infelice che non aveva dato ascolto alle profezie della fidanzata fatidica. La profetessa di sventura ricompare un poco più avanti (II, 405): "ad caelum tendens ardentia lumina frustra ", drizzando al cielo gli occhi ardenti invano.
Anche in questo caso ardore e pazzia vanno insieme, senza che riescano a congiungersi peraltro, in quella profetica come in quella amorosa.
Altra furens è la Sibilla cumana: "ea frena furenti /concutit et stimulos sub pectore vertit Apollo " (Eneide, VI, vv. 100-101), quei morsi alla furente li scuote Apollo e sferra sotto il petto colpi di sperone.
La pazzia amorosa con ira e rabies secondo Giovenale rendono meno esecrabili i crimini di Medea e Procne, rispetto ai delitti delle matrone romane perpetrati per denaro o per il potere,: "et illae/grandia monstra suis audebant temporibus, sed/non propter nummos. minor admiratio summis/ debetur monstris, quotiens facit ira nocentem /hunc sexum et rabie iecur incendente feruntur/praecipites… (VI, 644-649), anche quelle famose ai loro tempi osavano grandi mostruosità, ma non per denaro. Meno stupore si deve alle mostruosità somme, tutte le volte che è l'ira a rendere assassino questo sesso ed esse sono trascinate a precipizio dalla rabbia furiosa che brucia il fegato.
 Platone nel Fedro ricorda che il tema dell'irrazionalità della passione amorosa è stato già trattato da Saffo e Anacreonte ed elenca quattro modi di essere fuori di sé: quello dei profeti come la Pizia di Delfi, quello dei fondatori di religione, quello dei poeti, e quello degli innamorati.
Il filosofo tuttavia non considera negativamente questa "frenesia divina che è molto più saggia della saggezza del mondo"[2].
Platone nel Fedro sostiene che agli uomini i beni più grandi derivano da una mania data dagli dèi (244a): infatti la profetessa di Delfi, quella di Dodona e la Sibilla procurano benefici agli uomini quando si trovano in stato di mania, mentre in stato di senno non ne procurano alcuno. Infatti gli antichi che hanno coniato i nomi hanno chiamato manikhv la più bella delle arti che prevede il futuro. Sono stati i moderni, ajpeirokavlw~, con ignoranza del bello, che mettendoci dentro una tau, mantikh;n ejkavlesan (244c), l’hanno chiamata mantica
Socrate vuole dimostrare: "wj" ejp j eujtuciva/ th'/ megivsth/ para; qew'n hJ toiauvth/ maniva devdotai" (Fedro, 245c) che tale follia è concessa dagli dèi per la nostra più grande fortuna.
C'è da notare che maivnomai, "sono pazzo", maniva, "follia" e mavnti" , profeta, hanno la radice comune man(t) -/mhn-.
Il fuoco, amoroso o no, non brucia sempre in maniera punitiva e dolorosa: anzi talora significa beatitudine.
Nella Storia del genere umano di Leopardi l'ardore amoroso non è un fatto negativo: "rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l'uno e l'altro a un medesimo tempo e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue".

Nell'Eneide il bruciare della regina innamorata, prima ancora che l'amore venga consumato e che fallisca, rende la donna miserrima (IV, v. 117) secondo la qualificazione della stessa dea che la protegge.

Il desiderio amoroso della donna viene realizzato durante la tempesta e a questo punto il male diviene irreversibile e letale: "Ille dies primus leti primusque malorum/ causa fuit "(v. 169-170), quel giorno fu il primo della morte e il primo dei mali, e ne fu la causa; anche perché Didone non si preoccupa della fama , ossia dell'infamia che gliene deriverà, in quanto pensa a un amore coniugale, senza contare che quel sant'uomo di Enea non aveva tempo per stare a lungo con lei.
Il desiderio non trova un limite nella vergogna che viene momentaneamente repressa, ma non superata dalla regina: il conflitto tra queste due forze contrastanti è drammaticamente sentito dalla Medea vergine di Apollonio Rodio che il pudore (aijdwv") tratteneva , mentre un desiderio possente (qrasu;" i{mero" ) la spingeva (Argonautiche , III, 653). "Apollonio non è interessato agli sviluppi pragmatici della storia, e privilegia invece la dinamica psichica"[3].
La Medea di Apollonio ondeggia a lungo in preda alle contraddizioni: prima impreca contro Giasone (III, 466), quindi contro il pudore e la fama ("ejrrevtw aijdwv" , ejrrevtw ajglai?h", III, 785-786). Poi però pensa di nuovo a cosa dirà la gente, a quale sarà la sua vergogna (ai\sco", v. 797), quale la sua disgrazia (a[th, v. 798). Sballottata tra il desiderio e il terrore, la fanciulla arriva ad augurarsi di morire. "I tre monologhi raffigurano, con una rete di rispondenze interne, i momenti cruciali di questo iter psichico, e si basano su un'intensa dialettica tra forze della repressione e forze del represso; non si tratta però, semplicisticamente, di una dialettica fra mondo esterno e mondo interno, ma di uno scontro tutto interiore. E' questa forse la maggiore novità della psicologia apolloniana, rappresentare cioè la repressione come componente imprescindibile del campo psichico, una componente interiorizzata che dà all'eros una potenza ancora maggiore. Se il primo monologo contiene all'inizio un "vada alla malora" (ejrrevtw: v. 466) riferito a Giasone, il terzo usa la stessa espressione rivolta invece al pudore e alla fama (III 785-786): si tratta in entrambi i casi di negazioni freudiane, che affermano con violenza espressiva la violenza delle due forze che angosciano Medea, il desiderio e il pudore, cioè l'amore per Giasone e la fedeltà al padre"[4].
Questo turbamento è naturale in una ragazza senza esperienza.
Assai meno naturali sono turbe del genere in una donna matura e non inesperta.
Se poi la Fama è un monstrum horrendum pieno zeppo di occhi, piume, lingue, bocche, orecchie (Eneide, IV, vv. 181-183), se è una dea foeda (v. 195), una divinità oscena, non è retta, nobile e meritevole di un premio, o almeno di un encomio, Didone che per un momento pensa di averla neutralizzata?
Invece la disgraziata verrà punita.
"Se gli dèi olimpici non sono certo accusati e condannati si manifesta nel libro IV...un'altra presenza divina, che è, invece, tanto ripugnante quanto terribile, la presenza di un mondo demoniaco inferiore che, anche se talora asservito a quello celeste, ne è diverso per natura: da questo mondo proviene la Fama, divinità maligna e sinistra (173-195), il cui fascino demoniaco si avverte, anche se l'abilità letteraria di Virgilio l'abbia un pò sciupato"[5].

La lussuria della regina scatena l'ira di Iarba, pretendente respinto, e la complicità di Enea provoca la collera di Giove che considera legittimo e santo l'ardore sacro della gloria ("si nulla accendit tantarum gloria rerum ", v. 232); impuro e deleterio (ancora una volta!) quello dell'amore. Il figlio di Venere dunque "naviget " (v. 237), navighi, non ami! Quindi il re degli dèi manda Mercurio per rinfocolare i sensi di colpa.

Quanto diverso è questo Iuppiter dallo Zeus utilizzato da Aristofane![6].
 E da Ovidio[7] per avallare gli adultèri!


Giovanni ghiselli

p.s.
Il blog è arrivato a 201997



[1] Del 56 a. C.
[2]A. Taylor, Platone , p. 475.
[3] M. Fusillo, Lo spazio letterario della Grecia antica , I, 2, p. 124.
[4] M. Fusillo, Lo spazio letterario della Grecia antica , I, 2, p. 122.
[5]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 361.
[6] Il Discorso Ingiusto nelle Nuvole[6] (del 423 a. C.) di Aristofane consiglia a Fidippide: se ti sorprendono in adulterio, rispondi al marito che non hai fatto niente di male, poi fai ricadere l'accusa su Zeus, di' che anche lui è più debole di amore e delle donne ( "kajkei'no" wJ" h{ttwn e[rwtov" ejsti kai; gunaikw'n", v.1081).
[7] Fedra nelle Heroides interpreta a suo modo il passaggio dal regno di Saturno al regno di Giove: quello fu il regno della pietas e della rusticitas , questo il regno della libertà e del piacere (Her. 4. 131 sgg.): Ista vetus pietas, aevo moritura futuro,/rustica Saturno regna tenente fuit;/Iuppiter esse pium statuit quodcumque iuvaret/et fas omne facit fratre marita soror " (p. 187), questa vecchia bontà destinata a morire in futuro, c'era quando Saturno governava rozzi regni; Giove stabilì che fosse buono tutto quanto piaceva e rende del tutto naturale che la sorella sia sposata al fratello

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