con Fulvio ad Atene, 2005 |
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Debrecen 66
X capitolo
Riprendo il racconto di quell’estate lontana. Cercherò di
elevare l’elemento personale e anche personalissimo all’eternamente umano. Come
sanno fare pochi tra i tanti che scrivono dei fatti loro.
Saffo, Catullo, Orazio, Leopardi e non molti altri. I più,
anche certi poeti insigniti dal Nobel, accozzano parole in libertà, spesso
prive di senso, sganciate dalla vita e tali che non riguardano nessuno, perciò nessuno
le legge.
I personaggi di cui sto per scrivere sono tipi eternamente
umani.
Quanto scrivo sarà utile agli infelici e spassoso per i
felici.
L’inserimento nell’allegra brigata dei compagni di camera mi
era riuscito e mi curava l’anima dalla tristezza accumulata colpevolmente negli
ultimi sciagurati tre anni di vita, una vita da anacoreta piuttosto sordido che
santo. Ricordo quei ragazzi ancora con gratitudine, siccome il bene ricevuto
sopravvive nei decenni se sappiamo apprezzarlo, e continua ad agire. Se lo
dimentichiamo invece, è come se non lo avessimo mai avuto dentro.
Vediamoli questi ragazzi del ’66, messi in goliardica e
benevola caricatura.
Erano buffi assai ma per niente cattivi. Io ero
probabilmente più buffo e meno buono di loro.
Danilo
Danilo ogni mattina a colazione beveva un litro di birra, e
se gli facevamo notare che era un po’ troppo presto per darsi all’alcol,
rispondeva alterato: “Cossa vu to, kiss
polgar[1]? Questo
è un inocuo birin, ed è tutta salute, perché lui, caro da Dio, impedisce al mio
tasso alcolico salito alle stelle durante una notte di vino meraviglioso e di
graspe divine, di precipitare troppo in fretta nell’orrendo burrone del nulla
annientando anche me poveretto!”
Gli chiedevo che cosa volesse dire.
Allora l’amico veneto chiariva l’enigma malsano spiegando che
aveva imparato ad amare gli alcolici per difendersi dal freddo agghiacciante di
un inverno passato nell’eroica città di Leningrado assediata dal gelo. Quando
raccontava queste peripezie lo chiamavamo “Von Danilus”.
E giù due risate.
Si scherzava insieme, giovanilmente vezzeggiando, eppure
quel ragazzo esposto al freddo e al gelo come Gesù bambino, il re del cielo
sceso nelle grotte, aveva contratto un vizio da schivare fuggendone a gambe
levate. Tuttavia non mi dispiaceva, forse perché la visione della sua ebbrezza colorata
di rosso, era meno depressiva e pericolosa del velenoso, nero rancore verso la
vita, gli umani e verso me stesso, che avevo respirato, come un miasma quasi
mortale, negli ambienti di persone dogmaticamente borghesi e bigotte che mi avevano
inculcato sensi di colpa e di inferiorità siccome ero del tutto diverso da
loro.
Danilo nonostante il troppo bere era buono, intelligente e
colto.
Luigino
Luigino la mattina veniva a lezione con noi; il pomeriggio
invece non ci seguiva nella piscina, ma indossava un vestito di lino azzurro e
andava all’Aranybika o al Palma a “puntare” i ragazzi carini, per ottenere
quella sconfinata intimità, della quale sentiva urgente il bisogno, con gli sdilinquiti
cinedi o i malandrini interessati, simili ai ragazzi già frequentati nelle
torbide periferie romane. Una volta tornò in collegio tenendo per mano un ricciolino
dal sorriso maliardo.
“Vuoi proprio corromperlo?”, gli domandai, retoricamente.
“Sì-rispose-è un sacco caruccetto: pensa che mi ha regalato
una foto con dedica. Ha scritto che mi vuole una puszta di bene. Anche io gli voglio un bene senza confini”. E alzò
gli occhi al cielo tirando un sospiro grande grande.
Dopo il ’66 non venne più a Debrecen poiché durante un
viaggio in Grecia si innamorò sul traghetto di un mozzo turco-cipriota che poi
lo lasciò per sposare un’ereditiera dell’Anatolia. Lo incontrai a Roma alcuni
anni più tardi: ricordava il suo amore perduto con gli occhi umidi, come una
cerva ferita dalle frecce uncinate del crudele fanciullo Cupido.
Anche Luigino era buono, intelligente e colto. Gli volevamo
bene.
Stefania
Del nostro gruppo di stravaganti faceva parte pure una
ragazza: Stefania che avrei ritrovato a Padova come collega e amica nei primi
anni Settanta.
Alla fine di quel
decennio, precisamente il 29 giugno del 1979, venne a trovarmi a Bologna, e
con, sguardo sconvolto e tono profetico disse: "quella donnetta che tu
poverino, improvvido di un avvenire fallace, chiami 'la mia Ifigenia' ti
lascerà prima che la faccia della luna si sia riaccesa una dozzina di volte su
questa infelicissima terra: anche tu disgraziato, come me sciagurata, pagherai
il fio secondo le inappellabili sentenze del tempo e della giustizia!”. Io che
stavo vivendo tempi felici, la guardai con aria interrogativa.
Stefania si coprì la
faccia con entrambe le mani e cominciò a singhiozzare.
La profezia di sciagura non mi aveva disanimato: sapevo già
per esperienza che quando una donna mi lascia, l’amore è finito da tempo, anche
il mio, e che il discidium è un bene,
un esodo che prelude a un nuovo ingresso nel palcoscenico della commedia della
quale noi siamo solo gli attori.
Dobbiamo recitarla con eleganza e pure sapere che non ne
siamo i registi.
Stefania non recitava bene poiché le sue pose erano troppo
evidenti, la sua affettazione era sovraccarica.
Nel 1966, a Debrecen,
l’occasione della scena madre gliela fornì uno jugoslavo che aveva amoreggiato con
lei per una settimana, poi era tornato a casa, dalla moglie, senza nemmeno
lasciarle l’indirizzo.
Come avrebbe fatto cinque anni più tardi la grande
Sarjantola con me. Ma io non la presi male, siccome la bella donna mi aveva
dato comunque una nuova, mai provata energia che volevo utilizzare serbandone
il ricordo benefico. Lo conservo ancora come un tesoro.
Stefania invece la sera in cui si accorse della fuga
dell’amato Croato rappresentò, nel prato davanti al collegio, un monologo
tragico di grida, pianti e preghiere nere scagliate alle stelle. Ecate invocava
e tutte le divinità infernali perché la vendicassero. Nella notte debrecina l’abbandonata,
malediceva il perfido slavo e con le sue grida atterriva anche i cani.
Nei giorni seguenti, fino alla conclusione del corso, quasi
avesse perduto un figlio o un genitore, l’amica si aggirava desolatamente nei
luoghi più frequentati come uno spettro, muta con ostinazione, con gli occhi
cerchiati di nero, bagnati di lacrimae
iussae[2].
Durante le affollate feste notturne, se noi compagni di corso e di bevute si
provava a dirle qualche parola buona, Stefania, con allitterazione sonora,
replicava: “Lasciatemi in pace, non vedete, cialtroni italioti, in quali
tremendi, tragici travagli mi trovo?”
Oppure, dopo un paio di palinke, con miglior labbia diceva:
“beati voi ragazzi!”, e alla domanda” perché beati?”, rispondeva: “perché non
capite un cazzo!”.
Più tardi, quando non c’era nessuno in giro e dormiva il
bosco di Debrecen con tutte le sue tortore, e nemmeno più si sentiva l’abbaiare
pauroso dei cani, l’abbandonata dal perfido amante era capace di farsi due
risate con noi poverini, incapaci perfino di immaginare gli abissi e le vette
del dolore suo sconfinato.
Dicevo che tanti anni
più tardi Stefania non era cambiata.
Siffatti commedianti
non hanno evoluzione ma restano per tutta la vita fanciulli senza innocenza.
Anche lei non era cattiva però, né ignorante e sapeva essere generosa.
Tra questi compagni cui voglio tuttora bene nonostante la
canzonatura, aiutato da Fulvio che all’epoca era il più equilibrato e il più
benvoluto di tutti, cercavo la mia identità. Volevo prima di tutto diventare puellis idoneus[3] per
poi militare non sine gloria[4]. Osservando le
donne di casa mia avevo capito che nell’amore c’è una grande componente
agonistica, che Eros si associa a Eris [5] assai
spesso, anzi sempre.
Ma se dopo una strenua lotta si trova un equilibrio tra le
due forze tese a dominare l’una sull’altra, nel senso che vi rinunciano
entrambe, può seguirne una pace rigogliosa, produttiva di bene.
A Debrecen trovavo e osservavo modelli e contromodelli. Per
rendermi idoneo alle donne dovevo innanzitutto smettere di deturpare l’aspetto
mio e l’immagine non volgare della mia stirpe che il dolore degli ultimi anni
aveva quasi fatto sparire. Sentivo che potevo riacquistare le forze per
combattere e sconfiggere la mia parte negativa, il nemico di me stesso che era
dentro di me, poi dovevo trovare lo slancio per riemergere e risorgere
completamente dalle rovine dei tre anni sciagurati seguiti all’esame di
maturità. Tutto mi era crollato addosso in quei trentasei mesi.
Ripida, precipitosa era stata la catabasi nell’inferno
scosceso, e risalire la china sarebbe stata l’impresa davvero erculea del tempo
seguente.
Dovevo spogliarmi del rivestimento suino che non si
attagliava allo scheletro minuto e fine del mio corpo né allo schema della mia
umanità non ignobile. Con il diventare obeso avevo raggiunto l’antitesi e la
ripugnanza di me stesso. Potevo morire di crepacuore per il disgusto che mi
ispirava la mia sfigurata figura. “Disgiovanni”[6] o “Agiovanni”[7] ero
diventato. Mi ero privato di me stesso e il mio demone buono mi aveva punito
secondo natura e secondo giustizia.
Dovevo ritrovare un nesso vivo e forte con il mio essere
stato e con tutto il mondo circostante, quando primeggiavo a scuola e in
bicicletta, quando a Pesaro guizzavo nel mare e battevo gli adulti scalando la
panoramica fino a Gabicce, e in agosto, a Moena, dove non avevo amici, parlavo
con le trote dell’Avisio, con i colchici viola dei prati e con le montagne
antropomorfe della valle di Fassa.
io e Fulvio al teatro greco di Epidauro, 2012 |
Dovevo ritrovare la mia riottosità rispetto ai luoghi comuni
degli imbecilli che mi condannavano, e, finito il liceo, mi avevano spaventato
manifestando il loro risentimento perché li avevo battuti senza sforzo, a
scuola, in bicicletta e nella corsa a piedi. Sarei tornato alle mie cose
egregie confutando le loro ciance maligne, le loro calunnie malvagie, la loro
bassezza d’animo.
“Il volgo denigratore - pensavo - misura ogni grandezza con il
proprio metro meschino”. Dovevo smettere di credere nella feccia cattiva, il
peggio dell’umanità, e tornare a confidare in me stesso e nei mie
autori-accrescitori. Mi avrebbero aiutato a salvare l’individualità senza
cadere nell’individualismo. Una volta rimessomi in sesto dovevo trovare le
donne, le donne mio dio, perché senza femmine la vita è infelice[8].
Potevo farcela: la stoffa buona sotto il lardo somatico e
mentale ce l’avevo ancora.
Dovevo alleggerire il fardello che mi rendeva brutto e
infelice, bandire le geremiadi e riflettere sul fatto che quanti mi offendevano
senza ragione non pensavano mai alla loro vecchiaia probabile e alla morte
sicura di tutti noi, altrimenti non mi avrebbero oltraggiato. Non dovevo più
curarmi di coloro e di quanti malevoli avrei sicuramente incontrato in futuro.
L’incontro con i benevoli di Debrecen dopo due anni di maltrattamenti continui,
cominciava a emanciparmi dalla soggezione ai malvagi. Una soggezione avvenuta
non senza una mia perversa complicità
Dovevo ritrovare e rilanciare l’essere egregio a scuola e
negli sport, poi estenderlo nel campo degli affetti e dell’amore.
Dovevo farcela e ci riuscii.
Infatti nell’anno di mia salvazione 1968, annus mirabilis non solo per me, ero già
tutt’altra persona. Oggi non mi cambierei con nessuno, proprio con nessuno. Amo
me stesso non meno del prossimo mio.
giovanni ghiselli
p.s.
il blog ha superato i 200 mila contatti. In questo anno
2014, sempre di mia salvazione, ho tenuto più di sessanta conferenze a giovani,
anziani e vecchi, a Bologna, Pesaro, Verona, Assisi, Ragusa. Ne sono molto
contento e fiero.
A chi dedico tutto questo? A me stesso e a quanti altri mi
vogliono bene.
[1] Cosa vuoi tu, piccolo
borghese? Le prime parole sono venete, quelle in corsivo ungheresi.
[2] Lacrime a comando. Cfr. Marziale, I, 33, 2. L’ultimo
verso dell’epigramma fa: “ille dolet vere
qui sine teste dolet”, soffre sul serio chi soffre senza testimoni
[3] Idoneo alle ragazze, cfr.
Orazio, Carmi, III, 26, 1
[4] Militare non senza gloria.
fr, Orazio, Carmi, III, 26, 2
[5] Competizione che puà
essere buona, cioè costruttiva, o cattiva ossia distruttiva, come racconta
Esiodo nelle Opere e giorni (v. 19)
[6] Cfr. Iliade, III, 39, dove Ettore apostrofa il fratello Paride
chiamandolo Duvspari.
[7] Cfr. \Iroς [Airoς, Iro, povero Iro, Odissea XVIII, 73
[8] Infatti qhvleia, qhlhv, femina, felix hanno la
stessa radice indoeuropea e sono quindi imparentati etimologicamente
Anche a noi piaci così come sei. Con affetto Giovanna Tocco
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