Di-verso, fra cultura e teatro
26-27-28 dicembre 2014 h.19,00, sala teatro Assessorato
Politiche Sociali via Italia 105, nei pressi della Chiesa di San Metodio,
Siracusa
PROGRAMMA
28 dicembre,h.19
Di-verso etnico
Prof.ssa Lucia Arsì, presidente C.C. Epicarmo
Dott. Riccardo Mondo, psicologo analista
Prof. Gianni Ghiselli,grecista, Università Bologna
Diversità dello
straniero
Autori citati (in ordine di apparizione): Erodoto,
Pirandello, Eschilo, Sofocle, Euripide, Plutarco, Curzio Rufo, Cornelio Nepote, Apollonio Rodio, Demostene, Isocrate,
Aristotele, Giusti, Fritz Lang, Woody Allen; Orazio; Shakespeare, Pasolini,
Balzac, Tacito, Lucano, Polibio, Tito Livio, Catone il Vecchio, Properzio,
Giovenale, Dionigi di Alicarnasso, Marziale, Petronio. Apollineo e Dionisiaco.
A proposito degli
"altri", degli stranieri, dei diversi, la letteratura antica ci
insegna, a volte, la tolleranza. Partiamo da questo aspetto positivo.
Dalle Storie di Erodoto proviene un
insegnamento che rimane valido pure oggi. Si tratta del cosiddetto relativismo
erodoteo, considerato da alcuni un tratto che accomuna lo storiografo con la
sofistica di Protagora il quale sostenne
che l'uomo è "misura di tutte le cose"[1].
Ma il relativismo del sofista
tende a mettere in discussione tutti i valori assoluti, a negare, direbbe il
gesuita Naphta di La montagna incantata di T.
Mann "Dio e l'Assoluto, per darsi in braccio al diabolico
antiassoluto"[2],
mentre quello di Erodoto non riguarda
l'ordinamento del cosmo, non vuole toccare gli dèi né sfiorare gli oracoli,
bensì intende rifiutare l'intolleranza.
Nel terzo libro dello storiografo di Alicarnasso troviamo un
episodio che afferma il valore della tolleranza e costituisce uno dei più alti
insegnamenti della cultura antica.
Il re Dario domandò
ad alcuni Greci se sarebbero stati disposti a cibarsi dei loro padri morti, ed
essi risposero che non l'avrebbero fatto per niente al mondo.
Quindi il re dei Persiani chiese agli Indiani chiamati
Callati" oi{ tou;" goneva"
katesqivousi"( 3, 38, 4) i quali mangiano i genitori, a quale
prezzo avrebbero accettato di bruciarli nel fuoco, e quelli, gridando forte, lo
invitarono a non dire tali empietà.
Così, conclude Erodoto, queste usanze sono diventate tradizionali, e a
me sembra che giustamente Pindaro abbia fatto affermando che la consuetudine è regina di tutte le cose
("novmon pavntwn basileva fhvsa"
ei\nai").
Il frammento di Pindaro è citato nel Gorgia (484b) di Platone da
Callicle, il quale invero dà alla parola novmo"
il significato di legge naturale che giustifica la violenza, come quella
di Eracle che portò via le vacche di Gerione senza averle pagate né ricevute in
dono ("ou[te priavmeno" ou[te
dovnto" tou' Ghruovnou hjlavsato ta;" bou'"").
"Pindaro infatti utilizzava questa massima per giustificare
chi non aveva esitato a usare la violenza per affermare il novmo" ellenico sulla barbarie altrui
(…) Al contrario, Erodoto non presenta affatto il novmo" ellenico come valore assoluto, ma (…) riconosce
la parità del novmo" ellenico
con quello indiano"[3].
Ebbene questa parola (novmo")
può essere emblematica non solo del relativismo di Erodoto, ma, dato che assume
differenti significati quando è usata da autori e personaggi diversi, essa può
voler dire anche l'incomunicabilità tra gli uomini e l'ambiguità della
condizione umana. A questo proposito sono illuminanti le parole di Vernant e
Vidal-Naquet che parlano dell'Antigone di Sofocle, autore di tragedie accostabile
per tanti versi allo storico delle guerre persiane :" In bocca ai diversi
personaggi, le stesse parole acquistano significati differenti e opposti,
perché il loro valore semantico non è lo stesso nella lingua religiosa,
giuridica, politica, comune. Così per Antigone, novmo"
designa il contrario di ciò che Creonte, nelle circostanze in cui è
posto, chiama anche lui novmo".
Per la fanciulla il termine significa "norma religiosa"; per Creonte,
"editto promulgato dal capo dello Stato". E in realtà il campo
semantico di novmo" è
sufficientemente esteso per comprendere, con altri, ambedue i sensi...Le parole
scambiate sullo spazio scenico, anziché stabilire la comunicazione e l'accordo
fra i personaggi, sottolineano viceversa l'impermeabilità degli spiriti, il
blocco dei caratteri; segnano le barriere che separano i protagonisti, fanno
risaltare le linee conflittuali. Ciascun eroe, chiuso nell'universo che gli è
proprio, dà alla parola un senso ed uno solo...ciò che il messaggio tragico
trasmette, quando è compreso, è appunto che nelle parole scambiate fra gli
uomini esistono zone d'opacità e d'incomunicabilità. Nel momento in cui vede
sulla scena i protagonisti aderire esclusivamente a un senso e, così accecati,
perdere se stessi o dilaniarsi a vicenda, lo spettatore è portato a comprendere
che esistono in realtà due sensi possibili, o più. Il messaggio tragico gli
diviene intelligibile nella misura in cui, strappato alle sue certezze e alle
sue limitazioni antiche, egli riconosce l'ambiguità dei termini, dei valori,
della condizione umana. Riconoscendo l'universo come conflittuale, aprendosi a
una visione problematica del mondo, egli stesso si fa, attraverso lo
spettacolo, coscienza tragica"[4].
L'ambiguità del linguaggio e l' impossibilità di intendersi
viene teorizzata da Pirandello nei Sei personaggi: "Ma se è
tutto qui il male! Nelle parole!…come possiamo intenderci, signore, se nelle
parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono andate dentro
di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore
che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro! Crediamo d'intenderci; non ci
intendiamo mai!"[5].
Luogo simile si trova nell'ultimo romanzo dell'Agrigentino, Uno,
nessuno e centomila [6]:
"il guajo è che voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare
come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no.
Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa
abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le
riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell'accoglierle, inevitabilmente,
le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d'intenderci; non ci siamo intesi
affatto" (p. 39). Dal diverso valore che due persone danno alla stessa
parola nasce allora l’incomprensione e
può scoppiare l’intolleranza.
I costumi e anche le parole dunque hanno valore relativo.
Sentiamo il commento
di Bettini al celeberrimo
episodo erodoteo:" entrambe le
volte la domanda di Dario ricevette, come risposta, un diniego pieno di orrore:
a nessun prezzo i Greci sarebbero stati disposti a fare quello che fanno gli
Indiani Callati, a nessun prezzo i Callati sarebbero stati disposti a fare
quello che fanno i Greci. Secondo Erodoto l'esperimento di Dario confermava la
sua tesi, ossia che gli uomini considerano i propri costumi (novmoi)-anche quelli che sembrano più
bizzarri- i migliori fra tutti i costumi possibili. Almeno a prima vista,
dunque, questo testo ci mette di fronte a una testimonianza di non di
tolleranza per i costumi altrui, ma, al contrario, di ipervalutazione dei
propri. I Greci si mostrano in questo caso fortemente etnocentrici, così come
etnocentrici si mostrano anche gli Indiani Callati (…) Ma che cosa accade se si
decide di prendere, sulla situazione, un terzo punto di vista, quello di
un osservatore che non è né greco, né indiano? (…) Proviamo dunque a immaginare
che cosa potrebbe pensare Dario (e con lui il lettore di Erodoto) dopo aver
sentito le opinioni dei due contendenti. Dario potrebbe concludere non solo
che, come Erodoto dichiara, ciascuna comunità considera i propri costumi
migliori di tutti gli altri; ma anche che questi costumi (novmoi) sono nello stesso tempo molto relativi,
visto che gli uni rifiutavano quelli degli altri con lo stesso identico orrore.
Se i Greci rifiutano i costumi dei Callati, e i Callati rifiutano quelli dei Greci,
non sarà forse vero che a quel punto né i Callati né i Greci hanno ragione in
modo assoluto? A questo punto, se Dario
avesse avuto voglia di andare in fondo al suo ragionamento, avrebbe potuto
raggiungere la conclusione- forse malinconica- che anche i suoi stessi
costumi, quelli che lui condivideva, non potevano che essere altrettanto relativi.
Al fondo dell'esperimento di Dario, dunque, sta anche una buona dose di
scetticismo. E' questo l'atteggiamento che permette a Dario di compiere un
confronto così spregiudicato.
Siamo dunque di fronte al paradosso di un testo che, nel
momento in cui enfatizza la forza assoluta dei costumi, apre contemporaneamente
la via a una considerazione relativistica dei medesimi. Il pensiero di Erodoto
risulta qui piuttosto complesso-come del resto accade quando si ha a che fare
con il problema dell'identità culturale"[7].
"Tutte queste usanze", commenta C. M. Bowra,
"vengono considerate da lui con ammirevole spirito di tolleranza e senza
alcuno sdegno per ciò che molti Greci avrebbero considerato come pratiche
disgustose e barbare. Egli cita in proposito le parole di Pindaro:"Il
costume è re di ogni cosa"; e anche se Pindaro le aveva usate per provare
che gli dei possono fare ciò che gli uomini non possono, Erodoto le applica per
provare, con spirito assai più generoso, che gli uomini devono agire in base
alla loro educazione e alle loro tradizioni"[8].
Erodoto inizia questo
capitolo sul relativismo affermando:" in ogni caso secondo me è
evidente che molto matto era Cambise ("
ejmavnh megavlw" oJ Kambuvsh""
); altrimenti non si sarebbe messo a schernire religioni e costumi (3, 38,
1).
Quando Alessandro Magno arrivò a
Menfi (inverno 332-331), in Egitto, sacrificò agli altri dèi e ad Api[9] volendo
differenziarsi dal re matto Cambise. Costui, dopo avere conquistato l'Egitto,
aveva profanato la tomba del faraone Amasi straziandone il cadavere ( Erodoto, Storie, 3, 16), aveva ferito a morte il vitello Api,
fatto flagellare i sacerdoti e uccidere i devoti (3, 29). Poi, sempre più
pazzo, fece ammazzare il fratello Smerdi (3, 30) e la sorella, la quale era
pure sua sposa (3, 31). Prima di questa del resto ne aveva sposata un'altra, e
l'autore ci informa che "i Persiani non usavano affatto sposare le
sorelle". Incestuoso e fratricida dunque. Uccise poi, trafiggendogli il
cuore con una freccia, il figlio del dignitario Pressaspe il quale, dietro
richiesta del re, lo aveva informato del fatto che i Persiani lo criticavano
per l'amore eccessivo del vino[10]
(3, 34-35). Inoltre il re persiano aveva cercato di uccidere Creso che lo aveva
ammonito di non lasciarsi trascinare dall'ira ( 3, 36). Infine Cambise derideva
e bruciava le immagini degli dèi nei santuari (3, 37). Quindi Erodoto giudica pazzo Cambise e motiva questo
giudizio: se non fosse stato matto il re dei Persiani non sarebbe arrivato a schernire (katagela'n, 3, 38) religioni e costumi. Infatti se uno
invitasse gli uomini a scegliere le usanze migliori, ciascuno sceglierebbe le
proprie, poiché ciascuno è convinto che le proprie siano di gran lunga le più
belle. Egli era necessariamente un pazzo
(mainovmenon
a[ndra, 3, 38, 2) poiché
solo un folle mette in ridicolo
le tradizioni locali.
Ad Alessandro viceversa “sottomettere non bastava. I popoli dovevano riconoscere ch’egli
veniva a casa loro con uno scopo di liberazione e di edificazione, che ne
avrebbe rispettato la fede, i costumi, le usanze…Il rispetto che manifestò ai
sacerdoti egiziani gli attirò facilmente la simpatia di tale casta, ch’era
stata crudelmente oppressa dall’intolleranza asiatica. Alessandro,
impadronendosi dell’Egitto, aveva completato la conquista delle coste
mediterranee poste sotto il dominio dei Persiani. La più audace idea politica
di Pericle-liberare l’Egitto per consolidare la potenza navale e commerciale di
Atene-non era soltanto attuata, ma largamente superata”[11].
Alessandro volle ripagare gli Egiziani dei torti subiti dal re folle,
sanguinario, dispotico.
In effetti se c’è un personaggio che suscita riprovazione
nella cultura greca della quale il re macedone allievo di Aristotele era
imbevuto, questo è il tiranno.
Nelle Storie di Erodoto la teoria antitirannica è attribuita al nobile
persiano Otane il quale, durante il famoso dibattito costituzionale del terzo
libro, contrappone la monarchia al potere del popolo che prima di tutto ha il nome più bello: " ijsonomivhn", poi non fa nulla di quanto perpetra
l'autocrate: infatti esercita a sorte le magistrature ed ha un potere soggetto
a controllo:" uJpeuvqunon de; ajrch;n e[cei" (3, 80, 6). Lo storiografo attraverso Otane formula
già la teoria, poi riproposta da Polibio, secondo la quale la monarchia
degenera inevitabilmente in tirannide.
Tra i sette nobili Persiani, quando ebbero
parlato anche Megabizo, che propugnava l'oligarchia, quindi Dario, il quale sosteneva la monarchia e l'inevitabilità
della degenerazione sia della democrazia sia dell'aristocrazia (3, 82) verso le
rispettive forme deteriori, prevalse quest'ultimo con l'argomento che a loro
l’indipendenza dai Medi era venuta da un monarca, ossia Ciro il Vecchio. Allora
Otane non entrò in lizza per diventare re, dicendo parole belle assai, una
specie di manifesto dell'antisadismo:"ou[te ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw"
(3, 83, 2), infatti non voglio comandare né essere comandato.
Tiranno
per il greco Erodoto è anche il mouvnarco"[12] raffigurato da
Otane, nel dibattito sulla migliore costituzione (3, 79-84): costui è uno che invidia i migliori, si
compiace dei peggiori, ed è pronto ad accogliere le calunnie. Infatti dai beni
che possiede gli deriva l' u{bri"
, mentre fin dall'origine gli è connaturato lo fqovno", l’invidia. Siccome ha questi due vizi,
e[cei pa'san
kakovthta,
detiene ogni malvagità (3, 80, 4).
Insomma egli: "novmaiav te kinevei pavtria kai; bia'tai gunai'ka" kteivnei te
ajkrivtou""
(3, 80, 5) sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza
giudizio.
La
mania della distruzione delle intelligenze fa parte dalla mente
autocratica: sappiamo, sempre da Erodoto, che la scuola dei tiranni insegna a uccidere
gli oppositori in generale, e, prima di tutti, chiunque dia segni di
intelligenza e indipendenza. Periandro
di Corinto, quando era ancora un despota apprendista e la sua malvagità non si era
scatenata,
accolse il suggerimento di Trasibulo di
Mileto il quale:"oiJ uJpetivqeto Qrasuvbouloς tou;" uJperovcou" tw'n ajstw'n foneuvein", gli
consigliava di mettere a morte i cittadini che si distinguevano ( Storie
, 5, 92 h). Il despota
esperto aveva dato il consiglio criminale in maniera simbolica: mostrandosi a
un araldo, mandato da Corinto a
domandargli come si potesse governare la città nella maniera più sicura e
bella, mentre recideva le spighe più alte di un campo di grano. Periandro
comprese e allora rivelò ogni malvagità (" ejnqau'ta dh; pa'san kakovthta ejxevfaine").
Anche
il nobile persiano fautore dell' ijsonomivh
usa l'espressione pa'san
kakovthta (3, 80, 4), ogni
malvagità, conseguenza
dell' u{bri", la prepotenza,
a sua volta originata dall'invidia e dai beni a disposizione del monarca ( "uJpo; tw'n parevontwn ajgaqw'n", 3, 80, 3).
"Così
il persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo comune fra i Greci
per l'opposizione alla tirannide"[13].
Dai
capitoli erodotei ricordati sopra derivano i modelli costituzionali della
filosofia ( Platone, Aristotele ) e della storiografia (Polibio) successive.
Dico
non solo della storiografia greca. Tito Livio attribuisce lo stesso gesto di
Trasibulo, con le stesse intenzioni, al
re Tarquinio il Superbo, il quale indicò al figlio Sesto cosa fare degli
abitanti di Gabi con un'analoga risposta simbolica, senza parole:" rex velut deliberabundus in hortum aedium
transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum capita
dicitur baculo decussisse "(1, 54), il re quasi meditabondo passò nel
giardino della reggia seguito dall'inviato del figlio; lì passeggiando in
silenzio, si dice che troncasse con un bastone le teste dei papaveri[14].
Nelle tragedie il tiranno è il paradigma mitico di questo
principio.
La mancanza di controllo ne fa l'antitesi del capo
democratico. Tale è Edipo finché non comprende, tale il Creonte di Sofocle,
tale, nei Persiani di Eschilo, Serse
altro grande re persiano, il quale, pur se sconfitto, non è "uJpeuvquno" povlei" (v. 213),
tenuto a rendere conto[15]
alla città, come invece lo è uno stratego eletto dal popolo.
Eschilo contrappone al potere assoluto il sistema
democratico di Atene quando, nei Persiani,
la regina Atossa domanda ai vecchi dignitari
chi sia il pastore e il padrone dell'esercito. Allora il corifeo risponde:"ou[tino" dou'loi kevklhntai fwto;" oujd
j uJphvkooi" (v. 242), di
nessun uomo sono chiamati servi né sudditi.
Nelle Supplici di Euripide, Teseo è il Pericle in
vesti eroiche il quale elogia la costituzione democratica dialogando con
l'araldo mandato da Creonte, tiranno di Tebe. Atene dunque non è comandata da
un uomo solo, ma è una città libera (ejleuqevra
povli" , v. 405). L'araldo di
Creonte ribatte che il governo di un solo uomo non è un male: infatti il re
esclude i demagoghi, i quali, gonfiando la folla con le parole, la volgono di
qua e di là a proprio profitto. Del resto chi lavora la terra non ha tempo né
per imparare né per dedicarsi alle faccende pubbliche:" oJ ga;r crovno"
mavqhsin ajnti; tou' tavcou" -kreivssw divdwsi (vv. 419-420), è infatti
il tempo che dà un sapere più forte invece della fretta.
Teseo non controbatte
la critica ai demagoghi, che condivide, ma risponde che il tiranno è l'entità
più ostile alla polis:" oujde;n
turavnnou dusmenevsteron povlei" (v. 429). Egli infatti uccide i
migliori, quelli dei quali considera la capacità di pensare, in quanto teme per
il suo potere:"kai; tou;"
ajrivstou" ou{" a]n hJgh'tai fronei'n-kteivnei, dedoikw;"
th'" turannivdo" pevri" (vv. 444-445). Sicché la città si
indebolisce: come potrebbe essere forte quando uno miete i giovani come da un
campo di primavera si porta via la spiga a colpi di falce? (vv. 447-449).
Inoltre il despota si impossessa dei beni altrui rendendo vane le fatiche di
chi voleva acquistare ricchezze per i propri figli. Per non parlare delle
figlie che l'autocrate vuole rendere strumenti del suo piacere.
l'Elettra di Euripide recitando il biasimo funebre di Egisto
allude, con pudica e verginale aposiopesi, alle porcherie che l'usurpatore
faceva con le donne:"ta; d j eij"
gunai'ka", parqevnw/ ga;r ouj
kalo;n-levgein, siwpw' " (Elettra, vv. 945-946).
Si vede che sono gli
stessi motivi della storiografia.
Del resto non sono molto diversi i tiranni bolliti, con
"alte strida", nel Flegetonte dell'Inferno di Dante:"Io
vidi gente sotto infino al ciglio;/e 'l gran Centauro disse:" E' son
tiranni/che dier nel sangue e nell'aver di piglio" (XII, 103-105. Settimo
cerchio-violenti-primo girone).
Il tiranno insomma è un
intollerante e un sanguinario che deve
essere confutato e combattuto. Anche lui
del resto, se giunge alla resipiscenza, può avere delle attenuanti sospensive
del castigo meritato dalla sua u{bri~.
Ad Atene intorno al 630 a. C. il nobile Cilone cercò di instaurare la tirannide
mettendosi a capo dei contadini e occupando
l'acropoli, ma il tentativo fu represso con violenza da Megacle Alcmeonide, che, seguace di Apollo
delfico, fece ammazzare i ciloniani
rifugiatisi invano nel tempio delle Erinni, le dee venerande della religione
orfico-dionisiaca. Ebbene questo gesto da supplici avrebbe dovuto salvare i
seguaci dell’aspirante tiranno. Infatti gli Alcmeonidi uccidendoli si
macchiarono di sacrilegio, e, chiamati maledetti, erano odiati ("klhqevnte" ejnagei'" ejmisou'nto",
Plutarco, Vita di Solone , 12, 2);
quindi i ciloniani sopravvissuti li combattevano. Agli inizi del VI secolo (596
a. C.) Solone, già famoso (h[dh dovxan oJ
Sovlwn e[cwn", Vita, 12, 3), si fece avanti e convinse i cosiddetti
sacrileghi a sottoporsi al processo ("e[peise
tou;" ejnagei'" legomevnou" divkhn uJposcei'n" Vita, 12, 3). Allora trecento giudici scelti tra gli
ottimati riconobbero la loro colpevolezza: i vivi furono esiliati , e degli
altri gettarono oltre confine i cadaveri riesumati ("tw'n d j ajpoqanovntwn tou;" nekrou;"
ajnoruvxante" ejxevrriyan uJpe;r tou;" o{rou""(Vita, 12, 4).
Condanna di una cultura diversa da parte di Curzio Rufo
Alessandro Magno dopo
avere sconfitto Dario III a Gaugamela (ottobre 331 a. C.) entrò a Babilonia che
gli aprì le porte. Ebbene, secondo Curzio Rufo da questo momento iniziò la
degenerazione del conquistatore e il decadimento del suo esercito. Il soggiorno
in questa città pregiudicò la disciplina
militare. Infatti i costumi babilonesi
sono i più corrotti e nessun luogo è più attrezzato per stimolare e allettare
sfrenate passioni.
: “Nihil urbis eius corruptius moribus, nihil ad inritandas inliciendasque
immodicas cupiditates instructius »
( Historiae Alexandri Magni, 5,
1, 36). La condanna di questa cultura diversa è assoluta.
Quindi Curzio Rufo continua a descrivere i costumi babilonesi con
disprezzo. Padri e mariti prostituiscono mogli e figli (Historiae Alexandri Magni, 5, 1, 37). Tutti si abbandonano al vino
e all’ubriachezza. Le donne che vanno ai banchetti dapprima si comportano con
dignità, poi, si sfilano le sopravvesti
e, a poco a poco pudorem profanant,
(5, 1, 38), disonorano il pudore; alla
fine, ima corporum velamenta proiciunt,
gettano via anche
gli indumenti intimi, e questo non solo le meretrici ma
anche matrone e ragazze: da loro comitas
habetur, è considerata una cortesia vulgati
corporis vilitas (5, 1, 38) il corpo venduto a buon mercato.
Di nuovo la tolleranza
di Erodoto.
Erodoto, viceversa, racconta di un novmo" babilonese assai strano che egli tuttavia considera
sofwvtato", avvedutissimo (1,
196): lì le ragazze belle vengono messe in vendita per essere sposate. Con il
denaro ricavato si comprano il marito le brutte:"to; de; crusivon ejgivneto ajpo; tw'n eujeidevwn parqevnwn, kai;
ou{tw" aiJ eu[morfoi ta;" ajmovrfou" kai; ejmphvrou"
ejxedivdosan" (Storie, I,
196, 3), il denaro veniva dalle ragazze di bell'aspetto, e così le belle davano
in matrimonio le brutte e le storpie. Questo, secondo l’autore, era il loro
costume antico più bello (kavllisto"
novmo"), mentre è meno encomiabile, aggiunge, quello recente di
prostituire le figlie.
Anche Droysen sottolinea l’antichità e la dignità della
cultura babilonese, non in grado comunque di reggere il confronto con quella
greca: “A Babilonia si viveva ancora in mezzo ad una cultura millenaria. Si
scriveva in caratteri cuneiformi su tavolette d’argilla. Si osservava e si
calcolava il corso degli astri. S’impiegava un sistema metrico perfezionato. E
gli abitanti avevano conservato l’antica abilità in tutti i campi delle arti e
dei mestieri. Ed ecco i primi elementi ellenici entrare in questa vita
raffinata, strana e multicolore, insignificanti per numero, ma dotati d’una
potenza d’assimilazione e di fecondazione in cui risiedeva il segreto della
loro superiorità”[16].
Erodoto insomma permea le sue
storie con una religiosità non dogmatica[17],
secondo la quale aleggia nel cosmo un
numinoso che viene interpretato in vari modi dai singoli popoli. Il che non
toglie che si verifichino coincidenze di usi tra genti lontane e culture per
molti altri aspetti diverse: in 6, 58, 2 per esempio egli nota che "gli
Spartani per le morti dei re hanno la stessa usanza che i barbari d'Asia (novmo"
ejsti;...wJuto;" kai; toi'si barbavroisi toi'si ejn th'/ jAsivh/), e, in 6, 60 che in un altro uso i Lacedemoni
concordano con gli Egiziani: araldi, flautisti e cuochi ereditano il mestiere
dal padre.
Il relativismo culturale del resto non è professato soltanto
da Erodoto : nella letteratura latina lo ritroviamo in Cornelio Nepote il quale
nel Proemio al Liber de excellentibus
ducibus exterarum gentium afferma
che dalla sua opera si può imparare:"non
eadem omnibus esse honesta atque turpia ", che non sono uguali per
tutti gli atti onorevoli e turpi, tant'è vero che a Sparta le vedove, anche
nobili, partecipano ai banchetti "mercede
", per denaro.
Ma torniamo ai Greci: Apollonio Rodio nelle Argonautiche registra le singolarità di un mondo altro, di
culture diverse: i Colchi per esempio depongono sottoterra i cadaveri delle
donne, ma appendono agli alberi quelli degli uomini; in tal modo l'aria ha
parte uguale alla terra (3, 207-210).
Antifonte sofista[18]
nel Discorso sulla verità va oltre Erodoto: denuncia come innaturali le
differenze che le leggi e le usanze stabiliscono tra gli uomini. "Le
disposizioni delle leggi sono avventizie, quelle della natura necessarie. E
quelle delle leggi dovute a un accordo non sono naturali. E quelle nate dalla
natura non sono dovute a un accordo…La maggior parte delle determinazioni
giuste secondo la legge si trovano in posizione ostile nei confronti della
natura… quelli che provengono da una casata non illustre non li rispettiamo né
onoriamo. In questo ci comportiamo come barbari gli uni verso gli altri.
Infatti per natura in tutto tutti siamo costituiti per essere uguali barbari ed Elleni…tutti di
fatto inspiriamo nell'aria attraverso la bocca e le narici e tutti mangiamo con
le mani "[19].
Non sempre però gli autori greci propugnano l'equivalenza
tra le culture: Euripide nell' Ifigenia in Aulide,
scritta in Macedonia dopo il 408, quando Sparta si stava accostando alla
Persia per sconfiggere la lega attica,
chiama a raccolta di tutte le energie dei Greci contro i nemici
orientali. Ifigenia, la ragazza che assume la parte eroica di vittima sacrificale,
offre la propria vita alla patria greca dicendo:"Do il mio corpo per l'Ellade./Sacrificate, espugnate Troia. Questo
infatti sarà il mio monumento/ a lungo; questi i figli, le nozze e la gloria
mia./E' naturale che gli Elleni comandino sui barbari, e non i barbari,/madre,
sui Greci: loro infatti sono schiavi, noi liberi" (vv. 1397-1401).
Nelle Troiane viceversa Andromaca attribuisce la barbarie ai Greci
che arrivano al crimine più nefando: quello di uccidere i bambini
in questi versi cruciali: “w\
bavrbar j ejxeurovnte~ [Ellhne~
kakav-tiv tonde pai`da kteivnet j oujde;n ai[tion (vv. 764-765) o Greci
inventori della barbarie, perché uccidete questo bambino che non è colpevole di
niente? Ammazzare un bambino per paura di suo padre è la viltà e la barbarie
più grande che ci sia.
Nel 366 Alcidamante
dettò questa massima: “A tutti gli uomini Dio ha concesso la libertà; la natura
non ha fatto nascere schiavo nessuno”[20].
Si trovava scritto in un pamphlet scritto a favore dei Messeni in lotta contro
gli oppressori spartani.
Ecco quanto scrive Alcidamante nel Messeniaco:” ejleuqevrou~
ajfh`ke pavnta~ qeov~, oujdevna dou`lon hJ fuvsiς pepoivhken”, dio ci lasciò tutti liberi, la natura nessuno
fece schiavo.
Con l'Archidamo il retore Isocrate può considerarsi lo
"storico", per così dire, della mentalità schiavistica spartana in
senso stretto: il discorso, infatti, è impernato, per gran parte, sulla
ricostruzione dell’antichissima vittoria di Spartani su Messenii, per mostrare
il buon diritto degli Spartani a tenere i Messenii sotto il giogo della
tremenda schiavitù.
Dice l’Archidamo
isocratèo: “gli alleati vi propongono di rinunciare a Messene per fare la
pace…vorrebbero dunque che voi in breve tempo gettaste via la gloria, che i
nostri anenati, in mezzo ai pericoli, ci lasciarono per settecento anni” ...L'Archidamo
di Isocrate è insomma proteso alla difesa dello schiavismo spartano su una
base "storica ".
Nell’Andromaca (del 427 ca) la protagonista lancia un anatema contro la genìa dei signori
del Peloponneso, chiamati yeudw'n a[nakte~: "i più odiosi
(e[cqistoi) tra i mortali per
tutti gli uomini, abitanti di Sparta, consiglieri fraudolenti, signori di
menzogne, tessitori di mali, che pensate a raggiri e a nulla di retto, ma tutto
tortuosamente, senza giustizia avete successo per la Grecia (vv.445-449).
All’Ifigenia in Aulide di Euripide fa eco Demostene
il quale nella terza Olintiaca[21]
ricorda che durante la pentecontaetia il re di Macedonia obbediva agli Ateniesi
com'è giusto che un barbaro sia soggetto ai Greci (24).
Riferisco l'opinione di altri due autori del quarto secolo i
quali sostengono la diversità, in peggio, dei barbari dai Greci: Isocrate e Aristotele. Il principe
della retorica nel Panegirico[22]
denigra i Persiani attribuendo loro la morale degli schiavi: essi sono educati
alla servitù più compiutamente che i servi degli Ateniesi (150).
Aristotele[23]
nella Politica sostiene che i barbari non hanno la parte che per natura
comanda (o[ti to; fuvsei a[rcon oujk
e[cousin) e quindi la loro comunità è fatta di schiavi (1252b).
L'intolleranza è una
vera e propria malattia.
Maurizio Bettini suggerisce
questa cura:" Possiamo però dire che, fra i rimedi più sicuri per guarire
da questo morbo, sta la terapia del rovesciamento. Con questa espressione
intendiamo un esercizio quasi quotidiano che consiste nel rovesciare
sistematicamente il proprio punto di vista per assumere quello
dell'"altro": in modo da poter guardare se stessi con gli occhi
altrui. Di questo esercizio è stato maestro uno dei più grandi pensatori che
l'Europa del XVI secolo possa vantare, Michele de Montaigne"[24].
Insomma dobbiamo essere
capaci di uscire dalla parte che stiamo vivendo, o recitando, per assumerne
un'altra o almeno considerarne plausibile l’esistenza .
La terapia del rovesciamento non è molto diversa dal
“sentimento del contrario” di Pirandello. Il saggio L’umorismo presenta tre esempi:
il primo è quello celeberrimo della “vecchia signora coi capelli
ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente
imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia
rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e
superficialmente, arrestarmi a questa prima impressione cronica. Il comico è
appunto un avvertimento del contrario”.
Ma poi interviene la
riflessione che suscita il sentimento
del contrario ossia l'umorismo :"Ma se ora interviene in me la
riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun
piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa
soltanto perché pietosamente s’ inganna che, parata così, nascondendo così le
rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più
giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la
riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo
avvertimento, o piuttosto più addentro: da quel
primo avvertimento del contrario, mi
ha fatto passare a questo sentimento del
contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e
l'umoristico"[25].
Si tratta insomma di riflettere sul dolore di chi ci farebbe ridere, di sentire
con chi soffre e provare simpatia per lui-
Il secondo esempio è
questo tratto da Dostoevskij: “Signore, signore! oh! Signore, forse, come gli
altri, voi stimate ridicolo tutto
questo; forse vi annojo raccontandovi questi stupidi e miserabili particolari
della mia vita domestica; ma per me non è ridicolo,
perché io sento tutto ciò…”-Così
grida Marmeladoff nell’osteria, in Delitto
e Castigo[26]
del Dostoevskij, a Raskolnikoff tra le risate degli avventori ubriachi. E
questo grido è appunto la protesta dolorosa ed esasperata d’un personaggio
umoristico contro chi, di fronte a lui, si ferma a un primo avvertimento
superficiale e non riesce a vederne altro che la comicità”[27].
Il terzo esempio deriva
da S. Ambrogio di Giusti: “Un poeta,
il Giusti, entra un giorno nella chiesa di S. Ambrogio a Milano, e vi trova un
pieno di soldati…Il suo primo sentimento è d’odio: quei soldatacci ispidi e
duri son lì a ricordargli la patria schiava. Ma ecco levarsi nel tempio il suono
dell’organo: poi quel cantico tedesco lento lento,
D’un suono grave,
flebile, solenne[28]
Che è preghiera e pure
lamento. Ebbene, questo suono determina a un tratto una disposizione insolita
nel poeta, avvezzo a usare il flagello della satira politica e civile:
determina in lui la disposizione propriamente umoristica: cioè lo dispone a
quella particolare riflessione che, spassionandosi dal primo sentimento,
dell’odio suscitato dalla vista di quei soldati, genera appunto il sentimento
del contrario. Il poeta ha sentito nell’inno
La dolcezza amara/Dei
canti uditi da fanciullo: il core/Che da voce domestica gl’impara,/Ce li ripete
i giorni del dolore./Un pensier mesto della madre cara,/Un desiderio di pace e
d’amore,/Uno sgomento di lontano esilio[29]
E riflette che quei
soldati, strappati ai loro tetti da un re pauroso,
A dura vita, a dura
disciplina,/Muti, derisi, solitari stanno, /Strumenti ciechi d’occhiuta
rapina,/che lor non tocca e che forse non sanno[30]
Ed ecco il contrario
dell’odio di prima:
Povera gente! Lontana
da’ suoi,/In un paese qui che le vuol male[31]
Il poeta è costretto a
fuggire dalla chiesa perché
Qui, se non fuggo,
abbraccio un caporale, /Colla su’ brava mazza di nocciolo/Duro e piantato lì
come un piolo”[32].
Questo è il terzo esempio di avvertimento del contrario
passato a sentimento del contrario.
Il mettersi nei panni dell’altro non significa accettare tutte le
diversità:" Il vero problema nasce con le diversità che si pongono in
irriducibile conflitto con il modello di umanità, un conflitto nel quale la
soddisfazione dell'esigenza degli uni costituisce necessariamente violenza per
gli altri e viceversa. Nel famoso film di Fritz Lang, M, l'assassino di
bambine non mente, quando illustra tragicamente la sua reale esigenza che lo induce a quegli atti omicidi,
e l'altissimo costo che significherebbe per lui la repressione di quegli
impulsi, ma d'altra parte anche il diritto di quelle bambine di non essere
uccise-ossia il loro diritto di esigere la sua repressione-non è meno reale.
Pure il delitto di Raskol' nikov nasce da una passione sofferta e reale; se
egli ne venisse impedito, ciò significherebbe il sacrificio di una sua oscura
ma autentica esigenza, e d'altronde senza quel sacrificio sono le sue vittime a
venire calpestate. Si tratta di casi estremi, che indicano tuttavia la
difficoltà di tracciare un confine fra l'esigenza dell'universale e la
rivendicazione della diversità, e che indicano soprattutto la difficoltà di
risolvere il problema sul mero terreno della prosa del mondo, sul piano puramente
sociologico: per Dostoevskij soltanto la prospettiva di Sonia, della carità,
può risolvere il dilemma di Raskol'nikov"[33].
A questo punto si può menzionare anche Match
point, l’ultimo film di Woody Allen (gennaio 2006).
C'è un relativismo che riguarda i diversi ceti o
le diverse età.
Orazio nell' Ars
poetica[34]
distingue le varie parti che ciascuno di noi recita nel palcoscenico della vita
.
Dunque:"aetatis
cuiusque notandi sunt tibi mores" (156), si deve badare bene ai
costumi specifici di ciascuna età. Segue una descrizione dei mores delle
varie fasi della vita: il puer il quale gestit paribus colludere
(159), smania di giocare con i suoi pari e cambia umore spesso: et mutatur
in horas (160).
Poi l' imberbus
iuvenis il giovinetto imberbe: egli gaudet equis canibusque, giosce
dei cavalli e dei cani, è cereus in vitium flecti, facile come la cera a
prendere l'impronta del vizio, prodigus aeris, prodigo di denaro.
Poi, conversis
studiis aetas animusque virilis/, quaerit
opes et amicitias, inservit honori (vv. 166-167), cambiate le inclinazioni,
l'età adulta cerca ricchezze e aderenze, si dedica alla conquista del potere.
Infine c'è il vecchio
circondato da fastidi e noie, pauroso, procrastinatore, avido del futuro:"difficilis,
querulus, laudator temporis acti/se puero, castigator censorque minorum"
(vv. 173-174), difficile, lamentoso, elogiatore del tempo trascorso da ragazzo,
critico e censore dei giovani. Sono dunque quattro atti che recitiamo in
quattro parti diverse con quattro aspetti diversi.
Sentiamo anche Shakespeare:" All the
world's a stage-And all the men and women merely players" (As you
like it [35],
II, 7), tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le donne non sono
che attori. Essi, continua il malinconico Jaques, hanno le loro uscite e le
loro entrate. Una stessa persona, nella sua vita, rappresenta parecchie parti,
poiché sette età costituiscono gli atti". Segue la descrizione di questi
sette atti nei quali ciscuno di noi recita sette ruoli. Mi interessa il secondo:
quello dello "scolaro piagnucoloso che con la sua cartella e col suo
mattutino viso si trascina come una lumaca malvolentieri alla scuola"; poi
il terzo quello dell' innamorato "che sospira come una fornace, con una
triste ballata composta per le sopracciglia dell'amata".
Infine "l'ultima
scena che chiude questa storia strana e piena di eventi è seconda fanciullezza
e completo oblio, senza denti, senza vista, senza gusto, senza nulla".
Quando critichiamo i
giovani, dovremmo ricordarci come eravamo noi alla loro età. Quello che
facevamo e quello che avremmo fatto se ne avessimo avute le possibilità.
Lo ricorda Micione al fratello Demea negli Adelphoe di Terenzio:
“Perché sei tu, Demea a dare giudizi troppo pesanti su
queste scappatelle. 100
Non è un'infamia, credimi, che un giovanotto
vada a puttane o che beva: non lo è neppure sfondare
una porta. Se tu ed io non l'abbiamo fatto,
è perché l'indigenza non ce ne lasciò la possibilità[36].
Tu ora ti
vanti di ciò che
allora facesti per mancanza di mezzi?
Non è giusto; infatti se ci fosse di che farlo,
lo faremmo (nam si
esset unde id fieret/faceremus). E tu quel tuo figlio, se fossi un uomo,
lo lasceresti fare ora finché si addice all'età
piuttosto che, dopo averti gettato fuori in seguito a tanta
attesa
lo facesse comunque più tardi, in età meno adatta
( vv. 100-110)
Contrasto di culture. Vuoto di carità.
Euripide nella Medea[37]
mette in evidenza un contrasto di culture distribuendo luci e ombre in maniera
diversa rispetto alla successiva Ifigenia in Aulide .
P. P. Pasolini rileva
il “vuoto di Carità”[38]
nell'Italia degli anni Settanta.
Dalla tragedia di Euripide,
com'è noto, l’autore degli Scritti
corsari ha tratto un film[39]
nel quale ha voluto mettere in evidenza "il confronto dell'universo
arcaico, ieratico, clericale[40],
con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico"[41].
Cerchiamo di chiarire queste affermazioni, utilissime a capire il testo di
Euripide, attraverso un confronto con alcune parole della cara tragedia .
Il pragmatismo dell'uomo greco si manifesta apertamente
quando il seduttore dichiara a Medea di avere voluto cambiare donna, prendendo
la principessa di Corinto, non perché odiasse la madre dei suoi figli, o perché
ne volesse altri, ma per la cosa più importante: vivere bene, lui con la
famiglia (o le famiglie) e senza restrizioni[42],
sapendo con certezza che il povero tutti lo sfuggono, anche se amico. Egli
insomma "dra'/ ta; sumforwvtata
" (v. 876) fa quello che è più utile, come riconosce la moglie
abbandonata, quando finge di sottomettersi beffeggiandolo. L'uomo più
civilizzato antepone a tutto la categoria dell'utile.
La stessa scelta contraria all'amore dichiara Carlo Grandet
scrivendo a sua cugina Eugenia che lo aveva atteso per sette anni dopo che si
erano giurati amore eterno:"L'amore, nel matrimonio, è una chimera. Oggi
la mia esperienza mi dice che bisogna obbedire a tutte le leggi sociali e
salvaguardare col matrimonio tutte le convenienze volute dal mondo…Oggi io
posseggo ottantamila lire di rendita. Questo denaro mi consente di unirmi alla
famiglia d'Aubrion, la cui ereditiera, una giovane di diciannove anni, mi porta
col matrimonio il suo nome, un titolo, la carica di gentiluomo onorario di
camera di sua Maestà, e una posizione fra le più brillanti. Vi confesserò, mia
cara cugina, ch'io non amo affatto la signorina d'Aubrion; ma, unendomi a lei,
assicuro ai miei figli una situazione sociale i cui vantaggi saranno in
avvenire incalcolabili"[43].
Eugenia Grandet invece, al pari di Medea, seppure con
maggiore mitezza, non accetta le convenzioni sociali dell'eterna borghesia e
risponde al cugino arrampicatore sociale:"Sì, cugino, avete giudicato bene
il mio spirito e i miei modi: non sono fatta per la società, non ne conosco né
i calcoli né i costumi, e non saprei darvi i piaceri che voi volete trovarvi.
Siate felice, secondo le convenzioni sociali alle quali avete sacrificato il
nostro primo amore"[44].
Personaggio simile a Giasone è Odisseo del Filottete[45]
di Sofocle, la consumata volpe, che suggerisce allo schietto figlio di Achille
di agire con la frode (dovlw/ , v.
101) e di parlare mentendo, se la menzogna porta salvezza e profitto:"o{tan ti dra'/" ej" kevrdo", oujk
ojknei'n prevpei" (v. 111), quando fai qualche cosa per un guadagno
non è conveniente esitare.
In questa categoria dell'utile non onesto può essere inserita anche la Poppea Sabina di Tacito[46]
la quale: unde utilitas ostenderetur, illuc libidinem transferebat (Annales,
XIII, 45), volgeva la libidine nella direzione dalla quale si
presentava l'utile.
Sentiamo ancora Pasolini:"L'interpretazione
puramente pragmatica (senza Carità) delle azioni umane deriva dunque in
conclusione da questa assenza di cultura: o perlomeno da questa cultura
puramente formale e pratica"[47].
Papa Francesco non manca di
ricordare queste verità-
Medea la barbara, la furente, in
taluni contesti anche la dissoluta, trova comunque autori inclini a
rivalutarla.
Euripide comprende il suo strazio
di donna tradita e certamente non approva la cultura della Corinto civilizzata
e nemica di Atene
La sua Medea ambientata appunto a Corinto rappresenta
un mondo in sfacelo morale: il Coro nel primo Stasimo lamenta:" bevbake d j o{rkwn cavri", oujd' j e[t j
aijdw;"- JEllavdi ta'/ megavla mevnei " (vv. 439-440), se n'è
andato il rispetto dei giuramenti né più rimane il pudore nell'Ellade grande.
La barbara della Colchide è figura problematica e segno di
contraddizione: Orazio nell'Epodo 16[48]
suggerisce la fuga dalle guerre civili
verso isole felici, un luogo (o non-luogo) dell'età dell’oro, dove la terra è
generosa, gli animali produttivi, il clima mite, le donne pudiche, poiché non
hanno avuto il cattivo esempio di quella "sporcacciona" di
Medea:"Non huc Argoo contendit
remige pinus/neque impudica Colchis intulit pedem " (vv. 59-60), qua
non ha diretto la rotta la nave con i rematori di Argo, né la svergognata donna
di Colchide vi ha messo piede.
Lucano[49],
che aveva scritto una tragedia su Medea, mette invece in rilievo la crudeltà
della barbara paragonata del resto con quella non meno efferata di
Cesare:" Sic barbara Colchis/creditur ultorem metuens regnique
fugaeque/ense suo fratrisque simul cervice parata/expectasse patrem" (Pharsalia,
X, 464-467), così si crede che la barbara della Colchide temendolo quale
vendicatore del regno e della fuga, abbia aspettato il padre con la sua spada e
nello stesso tempo con la testa del fratello già pronta[50].
La diversità dei Greci viene vista dai Romani ora con
ammirazione, ora con odio e disprezzo, o con paura.
Emilio Paolo dopo avere sconfitto il re di Macedonia Perseo
nella battaglia di Pidna (168 a. C.)
manifestò il suo filellenismo visitando i luoghi più sacri della Grecia
che tuttora sono frequentati da parte di chi ama quella splendidissima civiltà:
Argo, Epidauro, e soprattutto Olimpia : qui il console romano vide la statua di
Zeus, rimase sbalordito ("kai; to;
a[galma qeasavmeno" ejxeplavgh", Polibio, Storie, 30, 10, 6) e disse che soltanto Fidia aveva saputo
rappresentare lo Zeus di Omero, e che la realtà superava di molto le sue
attese. L'umanesimo di Emilio però non risparmia gli Epiroti che infatti
vengono definiti dallo storiografo di Megalopoli come simili agli Etoli, uomini
messi al bando dall'umanità. Gente che prima aggrediva gli altri Greci, poi si
dilaniava da sola: erano pronti a tutto e avevano raggiunto un tal grado di
bestialità che neppure permettevano ai loro magistrati di deliberare. Perciò
l'Etolia era in preda al caos, alla criminalità e alla violenza assassina, e
nulla di quanto vi si faceva era frutto di riflessione e di un progetto
preciso, ma tutto veniva fatto a caso e alla rinfusa, come se si fosse
abbattuto su di loro una sorta di uragano ("pavnta
d j eijkh'/ kai; fuvrdhn ejpravtteto,
kaqaperei; laivlapov" tino" ejmpeptwkuiva" eij"
aujtouv"", Storie, XXX,
11 6).
Vediamo come "lo traduce" Tito Livio:" Linguam tantum Graecorum habent sicut
speciem hominum: moribus ritibusque efferatioribus quam ulli barbari, immo quam
immanes beluae vivunt "(34, 24)
dei Greci hanno soltanto la lingua, come di uomini solo l'aspetto: vivono con usanze e costumi più selvaggi di
tutti i barbari, anzi delle stesse bestie feroci.
Il tradizionalismo
romano è comunque contrario ai Greci visti come graeculi intriganti e
libidinosi. "C'è una linea unitaria, come un filum , che nella storiografia romana conduce da
Catone a Sallustio a Tacito. Questi tre storici insistono
particolarmente sulla disciplina et
vita dell'Italia (Catone), sulla cura degli antichi pro Italica gente
(Sallustio), sulla necessità di conservare l'antiquus mos italico e di
impedire-per una malintesa tendenza provinciale-il decadimento economico
dell'Italia (Tacito)"[51].
Sentiamo Catone il
Vecchio il quale contrastò la nobilitas
scipionica simpatizzante con la
cultura ellenica, e nel 184 a. C. fu
eletto alla censura che esercitò in maniera
da renderla proverbiale per il suo rigore[52].
Nei Libri ad Marcum
filium c'è un passo celeberrimo che accusa il popolo nemico dei Greci e in
particolare, tra loro, la genìa malefica dei medici congiurati contro i Romani.
Leggiamone alcune
parole:"Dicam de istis Graecis suo loco, Marce fili, quid Athenis
exquisitum habeam, et quod bonum sit illorum litteras inspicere, non
perdiscere. Vincam nequissimum et indocile esse genus illorum. Et hoc puta vatem
dixisse, quandoque, ista gens suas litteras dabit, omnia corrumpet, tum etiam
magis, si medicos suos huc mittet. Iurarunt inter se barbaros necare omnis
medicina, sed hoc ipsum mercede faciunt, ut fides iis sit et facile disperdant.
Nos quoque dictitant barbaros et spurcius nos quam alios Opicon appellatione
foedant. Interdixi tibi de medicis" (fr. 1 Jordan), dirò di questi Greci a suo
tempo, figlio Marco, che cosa io abbia scoperto ad Atene, e come sia bene
prendere in considerazione le loro lettere, non impararle a fondo. Ti
dimostrerò che la loro è una razza scadentissima e riottosa. E credi che questo
l'ho detto da profeta: quando avverrà che questa razza ci darà la sua cultura,
corromperà tutto, particolarmente quando e se
manderà qui i suoi medici. Hanno stipulato un giuramento tra loro di
ammazzare tutti i barbari con la medicina, ma questo stesso misfatto lo
compiranno a pagamento, per acquistare credibilità e annientarci facilmente.
Anche noi chiamano sempre barbari e ci infamano più lerciamente che gli altri
col nome di Opici[53].
Ti proibisco di chiamare i medici.
La pretesa
dell’autarchia[54].
"Del modello
educativo catoniano è architrave l'autarchia, l'autosufficienza. E questo è un
carattere che connota tutta l’epoca arcaica, e serba un suo prestigio anche
dopo la diffusione di modelli culturali ed educativi ellenistici"[55].
Si può pensare, per
antitesi, al Duvskolo" di Menandro[56]
che si illude di potersela cavare in una completa autarchia, ma quando, caduto
in un pozzo, non riesce a venirne fuori senza l'aiuto del figliastro Gorgia che
pure aveva maltrattato, giunge alla
resipiscenza, a quel tw'/
pavqei mavqo" di origine eschilea[57]
che la Commedia Nuova non ha dimenticato.
Sentiamo alcune parole del vecchio misantropo che aveva
perso fiducia nel genere umano vedendolo intento solo al calcolo del profitto:
"In una cosa probabilmente ho sbagliato, io che credevo
di essere un autosufficiente (aujtavrkh")
e di non avere bisogno di nessuno. Ma ora che ho visto la fine della vita,
rapida, imprevedibile, ho scoperto che non capivo bene allora.
Infatti deve sempre
esserci, ed essere vicino, uno che ti possa aiutare. Ma per Efesto sono stato così guastato io
vedendo il modo di vivere di ciascuno, i loro calcoli (tou;" logismouv") e
l'attenzione che hanno per il profitto (pro;"
to; kerdaivnein). Non avrei pensato che ci fosse tra tutti uno che fosse
benevolo a un altro. Questo mi inceppava il cammino. Il solo Gorgia con fatica mi ha dato una prova compiendo un'azione
da uomo nobilissimo: infatti ha salvato me che non lo lasciavo nemmeno
avvicinare alla porta, né lo aiutavo mai in alcun modo, né gli rivolgevo la
parola, né rispondevo con gentilezza. Eppure mi ha salvato" (Dyskolos,
vv. 713-726).
L'autarchia catoniana era pure relativa all'allattamento.
"Le
matrone, nella rappresentazione ideale della loro maternità, dovevano allattare
personalmente i loro figli (labor nutricis), come faceva la moglie di
Catone il Censore, secondo il racconto di Plutarco (Vita di Catone, 20,
5). Questa, conformemente al modello ideale, non soltanto non affidava i suoi
figli a una balia, spesso di condizione servile, secondo un uso che ben presto
si diffuse tra le matrone romane altolocate, ma allattava anche, con un
significativo rovesciamento dei ruoli, i piccoli schiavi di casa, per
instillare loro, assieme al latte, il senso di leale appartenenza e di
devozione alla famiglia del dominus . Ancora in età imperiale, sarà
deprecata l'abitudine delle matrone di far allattare i figli dalle nutrici, in
quanto si riteneva che il latte materno, così come il seme maschile,
contribuisse a determinare l'aspetto fisico e il carattere del neonato e che
l'allattamento di una schiava, o di una balia a pagamento, introducesse un
elemento, si potrebbe dire, geneticamente estraneo, in grado di allentare i
legami naturali fra genitori e figli (Aulo Gellio, Notti attiche, 12, 1)
"[58].
Un
secolo e mezzo più tardi le matrone
romane potevano arrivare a vergognarsi di avere partorito e allattato i figli.
Lo deduco da Properzio che
esorta l'amante alla rixa amorosa nella luce:"necdum inclinatae
prohibent te ludere mammae:/viderit haec, si quam iam peperisse pudet " (II, 15,
20-21), non ancora le mammelle cadenti ti impediscono tali giochi: badi a
questo una se si vergogna di aver partorito.
Ancora
sul misellenismo dei Romani.
Nel Dialogus de
oratoribus di Tacito, Messalla
lamenta che tutto è cambiato in peggio
poiché i genitori non si occupano dei figli e l'educazione avviene per
delega:" At nunc natus infans delegatur Graeculae alicui ancillae"
(29), ora il bambino appena nato si affida a un'ancella greca, cui si aggiungono
un paio di schiavi dei peggiori. Viene fuori di nuovo l'antipatia dei
tradizionalisti italici per la razza dei graeculi, l'avversione che
forse spinse Virgilio a cercare capostipiti Troiani piuttosto che Greci per i
Romani di alto lignaggio.
Del resto-continua
Messala- gli stessi genitori non sono migliori dei loro servi nella decadenza
:"Quin etiam ipsi parentes non probitati neque modestiae parvulos
adsuefaciunt, sed lasciviae et dicacitati, per quae paulatim impudentia inrēpit
et sui alienique contemptus " che anzi gli stessi genitori non
abituano i fanciulli all'onestà e alla moderazione, ma alla sfrenatezza e al
motteggio attraverso cui a poco a poco si insinuano l'impudenza e il disprezzo
di sé e degli altri.
Anche Giovenale se la prende con i Greci manifestando quel
moralismo che offese l'Adriano della Yourcenar:"In una delle sue Satire,
Giovenale osò insultare il mimo Paride, che mi piaceva: ne avevo abbastanza di
quel poeta ampolloso e corrucciato, non mi piaceva il suo grossolano disprezzo
per l'Oriente e la Grecia, le sue affettate simpatie per la cosiddetta
austerità dei nostri padri, e quel miscuglio di descrizioni particolareggiate
del vizio e declamazioni inneggianti alla virtù che stuzzica i sensi del lettore
e ne rassicura l'ipocrisia. Nella sua qualità di letterato, aveva diritto però
a certi riguardi, e lo feci chiamare a Tivoli per comunicargli di persona il
decreto d'esilio. Questo spregiatore del lusso e dei piaceri di Roma ormai
potrà studiare sul posto i costumi della provincia; i suoi insulti a Paride
avevano segnato il termine della sua commedia"[59].
Sentiamo allora
Giovenale sull'invasione di Roma da parte dei Greci e peggio:
" Quae nunc
divitibus gens acceptissima nostris
et quos praecipue
fugiam, properabo fateri,
nec pudor obstabit.
Non possum ferre, Quirites,
graecam urbem;
quamvis quota portio faecis Achaei?
Iam pridem Syrus in Tiberim defluxit Orontes
et linguam et mores et cum tibicine chordas
obliquas nec non
gentilia tympana secum
vexit et ad circum
iussas prostare puellas.
Ite, quibus grata
est picta lupa barbara mitra:
rusticus ille tuus
sumit trechedipna, Quirine,
et ceromatico fert niceteria collo."
(III, vv. 58-68), quella che è la razza più gradita ai
nostri ricconi e quelli che sopra tutti voglio schivare, mi affretterò a
denunciare, né la vergogna mi ostacolerà. Non posso sopportare, Quiriti, una
Roma greca: per quanto, quale percentuale di questa feccia è greca? E' un pezzo
che l'Oronte di Siria è sfociato nel Tevere e ha trascinato con sé lingua e
costumi, e con il flautista corde oblique e tamburelli tipici di quella razza,
e ragazze costrette a prostituirsi vicino al Circo. Andate voi cui piace la
barbara lupa dalla mitra dipinta: quel tuo contadino antico, Quirino, mette le
scarpe del parassita, e porta medaglie di vittoria al collo spalmato di creme.
Il rifiuto di questa invadenza della cultura orientale si
legge, in greco, nello scritto Sui retori
antichi di Dionisio di Alicarnasso[60]
il quale condanna l'eloquenza del tempo
successivo ad Alessandro Magno considerata insopportabile per la teatralità:
"l'eloquenza misia o frigia, l'etera
venuta di recente da taluni fondi dell'Asia", riuscì a scacciare la moglie legittima, ossia
l'eloquenza attica (1-3).
Altrettanto fanno i tradizionalisti nei confronti dei culti
importati, in particolare dall'Oriente: Tacito negli Annales esprime un disprezzo più profondo per il Cristianesimo e altre
superstizioni analoghe:"Ergo abolendo rumori Nero subdidit reos et
quaesitissimis poenis afecit quos per flagitia invisos vulgus Christianos
appellabat. Auctor nominis eius Christus Tiberio imperitante per procuratorem
Pontium Pilatum supplicio adfectus erat; repressaque in praesens exitiabilis
superstitio rursum erumpebat, non modo per Iudaem, originem eius mali, sed per
urbem etiam quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque.
Igitur primum correpti qui fatebantur, deinde indicio eorum multitudo ingens
haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt"
(XV, 44), Allora, per sopprimere quelle voci[61],
Nerone inventò dei colpevoli[62]
e torturò con ricercatissimi tormenti quelli che, già odiati per le opinioni
scandalose, il volgo chiamava Cristiani. Eponimo di quella setta tal Cristo che
era stato giustiziato mediante un supplizio dal procuratore Ponzio Pilato. Ma
soffocata sul momento quella perniciosa superstizione dilagava di nuovo, non
solo attraverso la Giudea, culla di quel male, ma anche in Roma dove le
atrocità o le vergogne confluiscono e diventano famose. Dunque prima arrestati
quelli che confessavano, poi dietro denuncia di questi una grande moltitudine
venne ritenuta colpevoli non tanto del crimine dell'incendio quanto di odio per
l'umanità.
Ma torniamo alla Satira III di
Giovenale. Questi Graeculi, danno
l'assalto ai colli di Roma e sono tutt'altro che disarmati:
"Ingenium velox, audacia
perdita, sermo
promptus et Isaeo torrentior. Ede quid illum
esse putes. Quemvis hominem secum attulit ad nos:
grammaticus, rhetor, geometres, pictor, aliptes,
augur, schoenobates, medicus, magus,
omnia novit
Graeculus esuriens; in caelum, iusseris,
ibit"
(vv.73-78), mente svelta, audacia disperata, chiacchiera pronta e più
torrenziale di quella di Iseo[63].
Dimmi cosa credi che sia colui. Ha portato da noi con sé l'uomo che vuoi:
grammatico, retore, geometra, pittore, massaggiatore, augure, funambolo,
medico, mago, tutto sa fare il grecastro affamato; in cielo gli avrai comandato
di andare, ci andrà.
dicembrel
Audacia (v. 73) è una
parola chiave che, come in greco tovlma, significa mancanza di moderazione, ovvero
estremismo.
Questa parola si presta a illustrare la
diversità dei significati di un medesimo vocabolo secondo le persone che lo
usano.
Le parole audacia
e tovlma capovolgono addirittura il
loro significato durante le guerre civili, quando l’intolleranza arriva a
dividere perfino le famiglie e a creare una guerra spietata di tutti contro
tutti.
Nei conflitti interni molti valori si ribaltano: lo afferma Tucidide a proposito
della stavsi" di Corcira (del
432 a. C,): allora ci fu una tranvalutazione generale e le stesse parole
cambiarono il loro significato originario:"Kai;
th;n eijwqui'an ajxivwsin tw' ojnomavtwn ej" ta; e[rga ajnthvllaxan th'/
dikaiwvsei. Tovlma me;n ga;r ajlovgisto" ajndreiva filevtairo"
ejnomivsqh" (III, 82, 4), e cambiarono arbitrariamente l'usuale
valore delle parole in rapporto ai fatti. Infatti l'audacia irrazionale fu
considerata coraggio devoto ai compagni di partito.
"Un'audacia "
ajlovgisto"" prende il nome di coraggio, la prudenza si chiama
pigrizia, la moderazione viltà, il legame di setta viene prima di quello di
sangue, e il giuramento non viene prestato in nome delle leggi divine, bensì
per violare le umane. Sinistro carnevale, mondo a rovescio, in cui è
necessario lottare con ogni mezzo per superarsi e in cui nessuna neutralità è
ammessa. Così appare, a Corcira, per la prima volta tra gli Elleni, la più
feroce di tutte le guerre (Tucidide, III, 82-84)" M. Cacciari, Geofilosofia
dell'Europa, pp. 42-43.
Nel Bellum Catilinae di Sallustio, Catone, parlando
in senato dopo e contro Cesare, il quale aveva chiesto di punire i congiurati
"solo" confiscando i loro beni e tenendoli prigionieri in catene nei
municipi, denuncia questo cambiamento del valore delle parole:"iam
pridem equidem nos vera vocabula rerum amisimus: quia bona aliena largiri
liberalitas, malarum rerum audacia fortitudo vocatur, eo res publica in extremo
sita est " (52, 11), già da tempo veramente abbiamo perduto la verità
nel nominare le cose: poiché essere prodighi dei beni altrui si chiama
liberalità, l'audacia nel male, coraggio, perciò la repubblica è ridotta allo
stremo.
Questa audacia attribuita ai Catilinari è una forma
di estremismo. Nella prima Catilinaria Cicerone attacca il nemico
attribuendogli piani e intenti eversivi:"quem ad finem sese effrenata
iactabit audacia? " (I, 1, 1), fino a quale estremo si lancerà
l'estremismo scatenato?
Il biasimo dell'audacia è ricorrente
nei tradizionalisti e investe anche la critica d'arte.
Sentiamo Petronio a proposito della pittura:" pictura quoque
non alium exitum fecit, postquam Aegyptiorum audacia tam magnae artis
compendiariam invenit " (2, 9), anche la pittura non ha avuto
risultato diverso dopoché la sfrontatezza degli Egiziani ha trovato la
scorciatoia di un'arte tanto grande. Allude al cosiddetto III stile pompeiano
(metà del I secolo d. C.) Si tratta di una pittura a macchia, rapida, per cenni
Rimaniamo ancora su Giovenale. Questa gentaglia venuta dall'Oriente
porterà via i posti migliori agli autoctoni.
"Usque adeo nihil est, quod nostra infantia caelum
hausit Aventini baca nutrita Sabina?"
(vv. 84-85), fino a tal punto non conta niente il fatto che la nostra
infanzia nutrita dalle olive della Sabina? ha bevuto il cielo dell'Aventino,
Considerazioni diverse sui Sabini antichi.
Non tutti gli autori apprezzano
gli antiqui mores italici.
Ovidio in scherzosa polemica libertina con gli auctores che fiancheggiano il programma
di Augusto, polemica giocosa ma pagata a caro prezzo, utilizza le Sabine
antiche per contrapporre la brutta rusticitas
degli avi al lusso moderno:"Forsitan
antiquae Tatio sub rege Sabinae/maluerint quam se rura paterna coli,/cum
matrona, premens altum rubicunda sedile,/adsiduo durum pollice nebat
opus,/ipsaque claudebat, quos filia paverat, agnos,/ipsa dabat virgas caesaque
ligna foco " (Medicamina faciei, vv. 11-16), forse le antiche
Sabine sotto il re Tazio preferirono curare i campi paterni piuttosto che se
stesse, quando la sposa, seduta arrossata sull'alto sgabello, filava con
pollice instancabile il suo duro lavoro, e lei stessa chiudeva gli agnelli che
la figlia aveva portato al pascolo, lei stessa metteva verghe e legna fatta a
pezzi sul focolare.
Le antiche sabine
per Ovidio erano delle tanghere prive di
grazia.
"Sono celebri i passi, in cui è messa in ridicolo
quella sorta di mania per la Roma arcaica che pervadeva la cultura augustea,
come la rievocazione del ratto delle Sabine da parte di Romolo (I 101 sgg.) o
il ritratto della società antica senza cultus
(III 101 sgg.)"[64].
Tutt'altra posizione nei confronti dei Sabini è quella di Tito Livio che elogia l'educazione
severa e rigida di quel popolo "quo genere nullum quondam incorruptius
fuit" (I, 18, 4), del quale mai alcuno anticamente fu più austero.
Anche Virgilio nella Georgica II elogia la vita
laboriosa e casta degli antichi rustici Sabini:"Interea dulces pendent
circum oscula nati,/casta pudicitiam servat domus, ubera vaccae/lactea
demittunt, pinguesque in gramine laeto/inter se adversis luctantur cornibus
haedi…Hanc olim veteres vitam coluere Sabini " (vv. 523-526 e 532),
intanto[65]
i dolci figli tutti intorno gli pendono dalle labbra, la casta famiglia
conserva la pudicizia, le poppe della vacca scendono piene di latte, e grassi
sull'erba rigogliosa combattono i capretti con le corna puntate contro ...questa vita una volta praticarono i
Sabini.
Un epigramma di Marziale[66]
(XI, 15) comprende entrambe le posizioni: il poeta afferma di avere scritto
anche chartae austere leggibili dalla moglie di Catone e dalle Sabine qualificate come horribiles
(vv. 1- 2), terribili.
Ma procediamo con
l'invettiva antigreca di Giovenale:"Quid quod adulandi gens
prudentissima laudat/sermonem indocti, faciem deformis amici,/et longum
invalidi collum cervicibus aequat/Herculis Antaeum procul a tellure
tenentis,/miratur vocem angustam, qua deterius nec/ille sonat quo mordetur
gallina marito?" (III, vv. 86-91), Che dire poi del fatto che questa
razza, espertissima nell'adulare, elogia la conversazione dell'ignorante,
l'aspetto dell'amico deforme, e uguaglia il collo sottile dell'invalido alla
cervice di Eracle che tiene lontano dalla terra Anteo, e ammira la voce meschina
della quale non suona peggio neppure il verso
con il quale la gallina è beccata dal marito
A proposito dell’adulazione (v. 86) Tacito la spiega non come vizio
tipico dei Greci, importato a Roma da loro, ma come una conseguenza dell'autocrazia imperiale: lo storiografo nel
primo capitolo delle Historiae racconta che dopo la battaglia di Azio fu
interesse della pace che tutto il potere si riunisse nelle mani di uno solo, e
aggiunge che i grandi ingegni si eclissarono e nello stesso tempo la verità risultò alterata
in più modi "primum inscitia rei publicae ut alienae, mox libidine
adsentandi aut rursus odio adversus dominantis", innanzitutto per la
perdita della conoscenza della vita politica come faccenda estranea, poi per la
smania dell'adulazione o al contrario per l'odio verso chi comandava.
In uno dei primi
capitoli degli Annales Tacito denuncia il servilismo verso Tiberio da
parte di quella classe dirigente che in passato aveva avuto dignità e
fierezza:"At Romae ruere in servitium consules, patres, eques
" (I, 7), ma a Roma si precipitavano a servire, consoli, senatori,
cavalieri.
Giovenale prosegue affermando che i Greci sono una razza di
commedianti:"natio comoeda est" (v. 100). Sempre pronti a
recitare, a fingere, per l'utile.
Il grechetto moderno per giunta ha un altro contrassegno :
la smania sessuale:"Praeterea sanctum nihil est neque ab inguine
tutum,/non matrona laris, non filia virgo, neque ipse/sponsus levis adhuc, non
filius ante pudicus;/horum si nihil est, aviam resupinat amici" (III,
109-112), inoltre non c'è niente di sacro né al sicuro dall'inguine, non la
madre di famiglia, non la figlia vergine, neppure lo stesso fidanzato ancora
imberbe, non il figlio prima casto; se non c'è nessuno di questi rovescia sul
letto la nonna dell'amico.
I costumi sessuali caratterizzano fortemente un popolo.
Nella
letteratura latina si trova anche la valutazione della cultura straniera,
magari barbara, superiore a quella romana oramai decaduta[67].
Tacito nella Germania mette in rilievo, tra i sani
costumi di quel popolo schietto, gens non astuta nec callida[68], anche il
fatto che là i figli non vengono allattati per delega ma ogni madre nutra i
suoi con il proprio seno:"Sua
quemque mater uberibus alit, nec ancillis ac nutricibus delegantur "(20,
1), ciascun bambino viene nutrito da sua madre con le mammelle né sono affidati
ad ancelle e nutrici.
Ammirevole per lo storiografo è anche il fatto che la
castità in generale, anche quella dei giovani maschi, è molto reputata presso i
Germani:"Sera iuvenum venus, eoque inexhausta pubertas. Nec virgines
festinantur; eadem iuventa, similis proceritas; pares validaeque miscentur, ac
robora parentum liberi referunt " ( Germania, 20, 3), viene tardi l'amore per i giovani, perciò la
virilità non è indebolita. Neppure alle vergini si fa fretta; hanno lo stesso
vigore giovanile, un analogo sviluppo fisico; si maritano ugualmente vigorose,
e i figli rinnovano il vigore dei genitori. Questa sana società germanica
descritta da Tacito non rifiuta la parità tra maschi e femmine.
Diversità e pericolosità della donna.
Si pensi viceversa al tradizionalismo catoniano che vuole
tenere soggetta la donna, vista come creatura diversa e potenzialmente
pericolosa.
A questo proposito si può risalire al dibattito svoltosi nel
195 a. C. sull'abrogazione della lex Oppia. All'epoca Catone il
Vecchio si opponeva al lusso e alla libertas
femminile da lui intesa già come licentia. E' la paura della donna a suggerire alcune
parole sulla necessaria sottomissione della femina al fine di tenere sotto controllo una natura
altrimenti riottosa. Un altro caso di scarsa comprensione e scarsa tolleranza.
Così si esprime il censore quando parla, nel 195 a. C.,
contro l'abrogazione della lex Oppia che, dal 215, imponeva un limite al lusso
delle matrone[69]
le quali erano scese in piazza proprio per manifestare a favore
dell'annullamento della legge:" Maiores
nostri nullam, ne privatam quidem rem agere feminas sine tutore auctore
voluerunt, in manu esse parentium, fratrum, virorum...date frenos impotenti
naturae et indomito animali et sperate ipsas modum licentiae facturas...omnium
rerum libertatem, immo licentiam , si vere dicere volumus, desiderant… Extemplo
simul pares[70]
esse coeperint, superiores erunt "[71],
i nostri antenati non vollero che le
donne trattassero alcun affare, nemmeno privato senza un tutore, e che stessero
sotto il controllo dei padri, dei fratelli, dei mariti...allentate il freno a
una natura così intemperante, a una creatura riottosa e sperate pure che si
daranno da sole un limite alla licenza...desiderano la libertà, anzi, se,
vogliamo chiamarla con il giusto nome,
la licenza in tutti i campi…. appena cominceranno a esserci pari, saranno
superiori.
Bibliografia
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Lo spazio letterario
di Roma antica, Salerno Editrice, Roma, 1993.
Appendice 1
Un capitolo della mia metodologia sulla diversità
27. La diversità necessaria all’individuazione. Prometeo.
Apollineo e dionisiaco: Nietzsche, Jung, Ortega y Gasset, Monica Centanni. La
negazione della rigida identità sessuale: Penteo, Tiresia e Achille di Stazio (Achilleide).
Diversità di culture. Grillparzer e la sua Medea. Pasolini e il film Medea. Massimo Cacciari e il sogno di
Atossa nei Persiani di Eschilo. Edgar
Morin : diversità e democrazia. D’Annunzio: elogio della diversità. Franco
Frabboni: la libertà si coniuga con la diversità.
Il primo peccato di Prometeo è stato quello antiapollineo di
avere tentato di annientare il principium individuationis che
deve differenziare gli uomini dagli dèi.
"Il Prometeo di
Eschilo è sotto questo aspetto una maschera dionisiaca"[72].
Vediamo allora che cosa si intende con dionisiaco e con
apollineo.
"Con il termine "dionisiaco" si esprime: un impulso verso l'unità, un dilagare al di
fuori della persona, della vita quotidiana, della società, della realtà,
come abisso dell'oblio…un'estatica accettazione del carattere totale della
vita…la grande e panteistica partecipazione alla gioia e al dolore, che approva
e santifica anche le qualità più terribili e problematiche della vita…Col
termine apollineo si esprime: l'impulso verso il perfetto essere per sé, verso
l'"individuo" tipico, verso tutto ciò che semplifica, pone in
rilievo, rende forte…La pienezza della potenza e la moderazione, la più alta
affermazione di sé in una bellezza fredda, aristocratica, ritrosa…Nel fondo del
Greco c'è la mancanza di misura, la caoticità, l'elemento asiatico: la prodezza
del Greco consiste nella lotta con il suo asiatismo: la bellezza non gli è
donata, non più della logica, della naturalezza dei costumi-esse sono
conquistate, volute, strappate- sono la sua vittoria"[73].
Su
Apollineo e Dionisiaco torna C. G. Jung:"Esaminiamo i concetti di
apollineo e dionisiaco nelle loro caratteristiche psicologiche… Prendiamo in
considerazione anzitutto il dionisiaco.
Secondo la descrizione di Nietzsche è
chiaro che esso indica un espandersi, uno zampillare e uno scaturire…E'
una fiumana di sensazioni paniche di grande potenza che erompe irresistibile e
inebria i sensi come un vino gagliardo. E' ebbrezza nel significato più elevato
del termine…Si tratta quindi di una
estroversione di sentimenti indissolubilmente legata all'elemento sensoriale…Per contro, l'apollineo è la
percezione delle immagini interiori della bellezza, della misura e di
sentimenti armonicamente disciplinati. Il paragone con il sogno chiarisce il
carattere dello stato apollineo: è uno
stato d'introspezione, di contemplazione rivolta verso l'interno, verso
il mondo di sogno delle idee eterne, quindi uno stato d'introversione"[74].
Sentiamo anche Ortega y Gasset: “Apollo è la misura, la
norma rigorosa della vita, il “restare in sé”, la severa condotta- la condotta
conforme, “l’essere in forma”. Ma è anche, beninteso, la danza…Apollo è il dio
danzatore per eccellenza, solo che la sua danza è un ritmo rigido e severo, e
per questo il culto che gli si dedica consiste in danze moderate. Est modus in rebus, e Apollo è il modus, il logos della vita e delle cose”[75].
“La luce solare, netta e definitoria del lucido Apollo, luce
eccessiva che abbaglia con il suo fulgore, ci inganna e ci dice il nostro nome:
dà forma e limiti, morfologici e di genere, alla nostra identità. Alla luce di
Apollo siamo chiamati a dirci individuo, anziché tutto; e poi uomo anziché
bestia; e poi maschio oppure femmina. Ma in Dioniso si abbassa, come accade
nella bestia, nella pianta, nella pietra, l’impulso alla determinazione
individuale; e ancor più, sfuma lo sforzo, fallisce l’esercizio della
determinazione di specie, di razza, di genere. Barbaro è il corteo delle donne
che accompagnano il dio; animali e umani i suoi satiri; femmina-maschio il dio
stesso. In Dioniso è data la possibilità, per un attimo, di rinunciare
all’esibizione dei marchi di identità, di connotati forti. In Dioniso, per un
attimo, oscilla la nettezza perspicua della vista. Dioniso mescola e confonde:
Dioniso trascende e trasfigura: Che testa è questa? Quale animale ho catturato,
ho sbranato con le mie mani?
Sarà davvero la testa di Penteo quella che Agave, la madre,
stacca dal corpo sbranato delle sorelle menadi? E’ la testa mozza di Penteo
questa, infilzata su una picca, che la madre porta orgogliosa in scena, come
trofeo? Non sarà invece, come vede Agave nel suo delirio, la testa di un
giovane leone montano?
Svanisce in Dioniso ogni rigidità della forma: suoi sono i
giocattoli, lo specchio e la maschera…Dioniso nega l’identità, la forma fissa e
immutabile: nega anche, nel suo stesso aspetto, il primo marchio di identità:
-E’ nato un bambino. E’ maschio o femmina?
Riccioli lunghi, fragranti di ambrosia; lineamenti delicati,
labbra morbide di fanciulla; fianchi alti e sinuosi; piccoli seni appena
pronunciati, ma teneri e dolci: forme molli e femminee. Dioniso nega la
marcatura sessuale come determinazione rigida e placata della forma…Fra i
mortali, un essere soltanto corrisponde alla nobile indeterminatezza di
Dioniso: Tiresia. Indovino nella disgraziata reggia di Tebe, cieco, su cui
incombe tenebra eterna, appoggiato a un servo o alla figlia Manto, anche lei
dotata del dono pericoloso della vista interiore. Ma Tiresia era stato un
bambino-o forse una bambina-e in un recinto sacro aveva visto due serpenti che
si accoppiavano: li aveva battuti con una verga, che sarebbe diventata, molti
anni dopo, il suo bastone e il suo sostegno; li aveva calpestati. Ma per questo
venne punito il piccolo Tiresia. Mutato da maschio a femmina-o forse da femmina
a maschio-per ordine di Era: quel bambino aveva visto troppo….L’essere che
troppo vede e sa, resta inafferrabile. Le multiple trasformazioni di Tiresia
delirano la rigidità della forma ”[76].
Il Tiresia di Eliot, una figura rivelatrice, è cieco,
pulsante tra due vite, un vecchio con avvizzite mammelle di donna, è stato
seduto presso Tebe sotto le mura e ha camminato tra i morti: insomma egli ha
presofferto tutto :"and I Tiresias
have foresuffered all”[77].
Pure Achille, quando viene portato dalla madre sull’isola di
Sciro e partecipa ai riti bacchici riservati alle donne, quale maschio si
innamora di Deidamia, eppure interpreta benissimo anche il ruolo femminile che
gli ha assegnato Tetide per sottrarlo alla guerra: “et sexus pariter decet et mendacia matris ” (Achilleide, I, 605), gli si addice ugualmente il suo sesso e quello
simulato dalla madre. Anzi, il Pelide recita così bene la parte della baccante,
quando fa scendere sul collo la nebride, stringe le pieghe della veste con rami
di edera, cinge le chiome bionde con bende purpurèe e agita il tirso, che
appare il più bello del tiaso, superando la stessa splendidissima Deidamia: “ Nec iam pulcherrima turbae/Deidamia” (Achilleide, I, 606-607).
Ma torniamo alla Centanni e a Penteo: “ Penteo vestito da
donna, identico a Dioniso ora, identico a Tiresia, identico ad Agave, esce
dalla città, pronto per la danza. Svanita è la rigidità di ogni forma: non c’è
più maschio né femmina, non c’è più madre o figlio, non c’è bestia né dio.
Dioniso è Agave, la cacciatrice avida di sangue; Dioniso è Penteo, la preda:
tutti con identica maschera, identica forma. Nell’attimo della rinuncia all’identità,
nell’abisso dell’oblio, si festeggia il trionfo del dio…Agave si risveglierà
femmina: madre e assassina. E’ la nascita del principio di individuazione: il
necessario dirci uno e altro, maschio e femmina. La luce da cui per un attimo,
aoristo felice e incosciente, Dioniso il Nero aveva per noi trovato riparo”[78].
Diversità di culture.
Le culture diverse non vanno eliminate o criminalizzate:
devono essere comprese. A proposito della diversità delle culture si può
ricordare che Franz Grillparzer nella
sua Medea[79]
mette in rilievo "la storia di una terribile difficoltà o impossibilità di
intendersi fra civiltà diverse, un monito tragicamente attuale su come sia
difficile, per uno straniero, cessare veramente di esserlo per gli altri"[80].
In una intervista a J. Duflot Pasolini dichiara che nel suo
film Medea ha voluto mettere in
evidenza il contrasto tra la cultura
razionale e pragmatica di Giasone e quella arcaica e ieratica della barbara:"
Ho riprodotto in Medea tutti i temi dei film precedenti (...) Quanto
alla pièce di Euripide, mi sono semplicemente limitato a
qualche citazione (...) Medea è il confronto dell'universo arcaico, ieratico,
clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l'eroe attuale (la mens
momentanea) che non solo ha
perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del
genere. E' il "tecnico" abulico, la cui ricerca è esclusivamente
intenta al successo (...) Confrontato all'altra civiltà, alla razza dello "spirito",
fa scattare una tragedia spaventosa. L'intero dramma poggia su questa reciproca
contrapposizione di due "culture", sull'irriducibilità reciproca
delle due civiltà (...) potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del
Terzo Mondo, di un popolo africano, ad esempio[81]".
Il classico aiuta a comprendere l'altro tanto per via delle
analogie quanto delle diversità rispetto al nostro mondo di oggi. "Evocare
l'altro-da-sé che è dentro di noi (il "classico") può allora essere
un passo essenziale per intendere le alterità che sono fuori di noi (le altre
culture), se sapremo ripetere con piena consapevolezza le parole di
Rimbaud." 'Je est un autre"…Quanto più sapremo guardare al
"classico" non come una morta eredità che ci appartiene senza nostro
merito, ma come qualcosa di profondamente sorprendente ed estraneo, da
riconquistare ogni giorno come un potente stimolo a intendere il
"diverso", tanto più da dirci esso avrà nel futuro"[82].
La conoscenza rispettosa dell’altro, della sua diversità, è
necessaria per comprendere se stesso, secondo il principium individuationis
:"Nel voler superare la distanza degli opposti consiste la u{bri" di Serse, quando pretende di aggiogare
le due cavalle o le due rive dell'Ellesponto, e cioè terra e mare. Ma perché la
differenza sia 'salva', dovrà essere compreso che il differire è to; Xunovn- che proprio l'assolutamente
distinto abbisogna sempre, per esser 'salvo' in quanto tale, dell'altro e della
distanza dall'altro"[83].
Con l'aggiogamento delle due cavalle Cacciari allude al sogno di Atossa dei Persiani
di Eschilo: la regina madre descrive la sua visione notturna: le apparvero due
donne (vv. 180 ss.), una munita pepli dorici, l'altra adorna di vesti abiti
persiani, entrambe grandi, belle e sorelle di stirpe. Simboleggino la Grecia e
la Persia. Tra le due scoppiò una lite: quindi il re Serse cercava di
ammansirle e le aggiogava al carro con
le cinghie sotto il collo. Una delle due si esaltò per questa bardatura e
porgeva la bocca docile alle briglie, mentre l’altra recalcitrava (ejsfavda/ze, v. 194), con le mani
spezza le redini del carro, e lo
trascina a forza senza freni e rompe il giogo a metà. Allora, continua la
regina, cade il figlio mio, e gli si accosta Dario e lo compiange; e Serse,
come lo vede, si lacera le vesti addosso al corpo (pevplou~ rJhvgnusin ajmfi; swvmati, v. 199).
Per quanto riguarda l'Ellesponto il riferimento è ancora ai Persiani
di Eschilo, quando lo spettro di Dario denuncia la temerarietà (qravso" ) del figlio il quale sperò
di trattenere con delle catene il sacro
Ellesponto, come fosse uno schiavo, e il Bosforo, fluida corrente sacra al dio;
e mutava forma al passaggio: avvintolo con ceppi martellati, preparò una grande
via a un grande esercito (vv. 744-748).
Nella Parodo il Coro rammenta che “l’esercito distruttore di
città è passato nella terra vicina, situata sulla riva opposta, dopo avere
varcato per mezzo di zattere legate con funi lo stretto di Elle Atamantide, e
avere gettato intorno al collo del mare il
giogo di un sentiero dai molti chiodi ( zugo;n
ajmfibalw;n aujcevni povntou, Persiani,
vv. 65-72).
Ora abbiamo la
pretesa di esportare la nostra democrazia che non è nemmeno sempre effettiva e
che comunque non appartiene alla storia di altri popoli. Inoltre vogliamo
violentare la natura incatenando i mari e forando le montagne. Si tratta di un
ponte di barche descritto da Erodoto (VII, 36).
“L’esperienza dei totalitarismi ha messo in rilievo un
carattere fondamentale della democrazia: il suo legame con la diversità. La
democrazia presuppone e nutre la diversità degli interessi così come la
diversità delle idee. Il rispetto della diversità significa che la democrazia
non può essere identificata con la dittatura della maggioranza sulle minoranze;
la democrazia deve comportare il diritto all’esistenza e all’espressione per le
minoranze e per i contestatori, e deve permettere l’espressione delle idee
eretiche e devianti. Come si deve proteggere la diversità delle specie per
salvaguardare la biosfera, così si deve proteggere la diversità delle idee e
delle opinioni, nonché quella delle fonti dell’informazione (stampa, media) per
salvaguardare la vita democratica”[84].
“Laudata sii, Diversità/delle creature, sirena/del mondo!
Talor non elessi/perché parvemi che eleggendo/io t’escludessi,/o Diversità,
meraviglia/sempiterna”[85].
Nella Festa nazionale dell’Unità, tenuta a Bologna alla fine
dell’estate del 2007, Franco Frabboni ha detto che la libertà non può non
coniugarsi con la diversità.
Appendice II
Diversità delle culture ateniese e spartana messa in rilievo
dai Corinzi e da Pericle nelle Storie
di Tucidide. Come se Ioni e Dori fossero etnie diverse.
Uguaglianza nell’Atene periclea è uguaglianza delle
condizioni di partenza. Pericle nota che Atene non è uno stato militare, una
universal caserma, eppure in battaglia gli Ateniesi vincono perché sono
motivati a difendere la libertà. Lo Stato non interviene nella vita privata, né
i cittadini sono pieni di sospetti reciproci. Essi hanno una viva sensibilità
politica. Poi l’amore del bello con semplicità e della cultura senza mollezza.
Atene è la scuola dell’Ellade.
Sparta voleva la completa subordinazione dell’individuo allo
Stato; Atene voleva assicurare alla personalità individuale i suoi diritti.
Pericle tuttavia non vuole la libertà dallo Stato ma nello
Stato e la libertà doveva tornare a vantaggio della collettività.
Pericle conta sulla volontaria dedizione dei cittadini e sul
loro senso politico. La democrazia di nome era di fatto il governo del primo
cittadino (II, 65, 9)
Aggiungo un altro capitolo della mia metodologia
21. 1. L'intolleranza è
una vera e propria malattia. Terapia del rovesciamento. Per questa ci vuole
esperienza di vita o immaginazione. Terenzio (Adelphoe). Vittorio Alfieri. T. Mann. Oscar Wilde. Pirandello e il “sentimento del contrario”
come “disposizione propriamente umoristica”. Tre esempi: quello della vecchia
signora, uno tratto da S. Ambrogio di Giusti, e uno da Delitto e castigo di Dostoevskij. Morin:
vedere l’ego alter come alter ego.
Ancora degli esempi: L’arbitrato di Menandro e il Vangelo di Giovanni. Pierre in Guerra e pace di Tolstoj. Leopardi e la
dote del buon maestro che abbia abbastanza “forza di immaginazione” da
“mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli”
E’ pur vero che
mettersi nei panni degli altri non può giungere ad accettare le diversità criminali.
Claudio Magris e il film M, il mostro di
Düsserdolf di Fritz Lang. Romano Luperini: perché non bisogna
tirare i sassi dal cavalcavia.
Maurizio Bettini
suggerisce questa cura:" Possiamo però dire che, fra i rimedi più sicuri
per guarire da questo morbo, sta la terapia del rovesciamento. Con questa
espressione intendiamo un esercizio quasi quotidiano che consiste nel
rovesciare sistematicamente il proprio punto di vista per assumere quello
dell'"altro": in modo da poter guardare se stessi con gli occhi
altrui. Di questo esercizio è stato maestro uno dei più grandi pensatori che
l'Europa del XVI secolo possa vantare, Michele de Montaigne"[86].
Insomma dobbiamo essere
capaci di uscire dalla parte che stiamo vivendo, o recitando, per assumerne
un'altra.
Certamente per fare questo ci vuole esperienza di vita, o
immaginazione: a proposito della prima,
negli Adelphoe di Terenzio, Micio
critica l’eccessiva severità del fratello Demea dicendo: “Homine imperito numquam quicquam iniustiust,/qui nisi quod ipse fecit
nil rectum putat” (vv. 98-99), non
c'è niente di più ingiusto di un uomo senza esperienza, che considera tutto
sbagliato tranne quello che ha fatto lui.
Vittorio Alfieri venne mandato nell’Accademia di Torino, nel
1758, a nove anni, e dovette rimanervi fino al 1766, senza però trovarvi
maestri adatti alla sua indole: “Nessuna
massima di morale mai, nessun ammaestramento della vita ci veniva dato. E chi
ce l’avrebbe dato, se gli educatori stessi non conoscevano il mondo né per
teoria, né per pratica?” (Vita, 2,
1). Queste parole contengono un principio valido: che un educatore deve
conoscere anche la vita, “conoscerla” quasi in senso biblico.
“La vita, giovanotto, è una donna, una donna distesa sopra
un giaciglio, coi seni sporgenti e rigogliosi, con la superficie del ventre
ampia e liscia tra i fianchi rilevati, con le braccia sottili, le cosce
tondeggianti, gli occhi semichiusi. Con provocazione magnifica e sdegnosa essa
esige il massimo nostro ardore, tutta la tensione delle nostre voglie maschili.
Chi resiste a lei o ne esce con vergogna…vergogna e disonore sono parole troppo
blande per simile rovina e bancarotta, per tale orrendo smacco”[87].
Per quanto riguarda
l’immaginazione: “L’amore è alimentato dall’immaginazione, per cui diventiamo
più saggi di quanto sappiamo, migliori di quanto sentiamo, più nobili di quanto
siamo: per cui, e per cui soltanto possiamo capire gli altri nelle loro
relazioni vere e ideali”[88].
La terapia del rovesciamento non è molto diversa dal
“sentimento del contrario” di Pirandello. Tra i Greci “Umorista non è
Aristofane ma Socrate…Socrate ha il sentimento del contrario; Aristofane ha un
sentimento solo, unilaterale”[89].
Il saggio L’umorismo[90]
presenta tre esempi: il primo è quello
celeberrimo della “vecchia signora coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di
quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti
giovanili. Mi metto a ridere. Avverto
che quella vecchia signora è il contrario
di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a
prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa prima impressione cronica.
Il comico è appunto un avvertimento del contrario”.
Ma poi interviene la
riflessione che suscita il sentimento
del contrario ossia l'umorismo :"Ma se ora interviene in me la
riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun
piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa
soltanto perché pietosamente s’ inganna che, parata così, nascondendo così le
rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più
giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la
riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo
avvertimento, o piuttosto più addentro: da quel
primo avvertimento del contrario, mi
ha fatto passare a questo sentimento del
contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e
l'umoristico"[91].
Si tratta insomma di riflettere sul dolore di chi ci farebbe ridere, di sentire
con chi soffre e provare simpatia per lui-
Il secondo esempio è
questo tratto da Dostoevskij: “Signore, signore! oh! Signore, forse, come gli
altri, voi stimate ridicolo tutto
questo; forse vi annojo raccontandovi questi stupidi e miserabili particolari
della mia vita domestica; ma per me non è ridicolo,
perché io sento tutto ciò…”-Così
grida Marmeladoff nell’osteria, in Delitto
e Castigo[92]
del Dostoevskij, a Raskolnikoff tra le risate degli avventori ubriachi. E
questo grido è appunto la protesta dolorosa ed esasperata d’un personaggio
umoristico contro chi, di fronte a lui, si ferma a un primo avvertimento
superficiale e non riesce a vederne altro che la comicità”[93].
Il terzo esempio deriva
da S. Ambrogio di Giusti: “Un poeta,
il Giusti, entra un giorno nella chiesa di S. Ambrogio a Milano, e vi trova un
pieno di soldati…Il suo primo sentimento è d’odio: quei soldatacci ispidi e
duri son lì a ricordargli la patria schiava. Ma ecco levarsi nel tempio il
suono dell’organo: poi quel cantico tedesco lento lento,
D’un suono grave, flebile,
solenne[94]
Che è preghiera e pure
lamento. Ebbene, questo suono determina a un tratto una disposizione insolita
nel poeta, avvezzo a usare il flagello della satira politica e civile:
determina in lui la disposizione propriamente umoristica: cioè lo dispone a
quella particolare riflessione che, spassionandosi dal primo sentimento,
dell’odio suscitato dalla vista di quei soldati, genera appunto il sentimento
del contrario. Il poeta ha sentito nell’inno
La dolcezza amara/Dei
canti uditi da fanciullo: il core/Che da voce domestica gl’impara,/Ce li ripete
i giorni del dolore./Un pensier mesto della madre cara,/Un desiderio di pace e
d’amore,/Uno sgomento di lontano esilio[95].
E riflette che quei
soldati, strappati ai loro tetti da un re pauroso,
A dura vita, a dura
disciplina,/Muti, derisi, solitari stanno, /Strumenti ciechi d’occhiuta
rapina,/che lor non tocca e che forse non sanno[96]
Ed ecco il contrario
dell’odio di prima:
Povera gente! Lontana
da’ suoi,/In un paese qui che le vuol male[97].
Il poeta è costretto a
fuggire dalla chiesa perché
Qui, se non fuggo,
abbraccio un caporale, /Colla su’ brava mazza di nocciolo/Duro e piantato lì
come un piolo”[98].
Questo è il terzo esempio di avvertimento del contrario
passato a sentimento del contrario.
Sentiamo anche T. Mann sull’argomento: “Indifferenza e
ignoranza della vita intima degli altri esseri umani finiscono per creare un
rapporto affatto falso con la realtà, una specie di abbigliamento. Dai tempi di
Adamo ed Eva, da quando uno divenne due, chiunque per vivere ha dovuto mettersi
nei panni altrui, per conoscere veramente se stesso ha dovuto guardarsi con gli
occhi di un estraneo. L’immaginazione e l’arte di indovinare i sentimenti degli
altri, cioè l’empatia, il con-sentire con gli altri, è non solo lodevole ma, in
quanto infrange le barriere dell’io, è anche un mezzo indispensabile di
autopreservazione”[99].
“C’è una conoscenza che è comprensiva e che si fonda sulla
comunicazione, sull’empatia e persino sulla simpatia inter-soggettiva. Così io
comprendo le lacrime, il sorriso, le risa, la paura, la collera vedendo l’ego alter come alter ego, con la mia capacità di provare i suoi stessi sentimenti.
Comprendere, quindi, comporta un processo di identificazione e di proiezione da
soggetto a soggetto. Se vedo un bambino in lacrime, cerco di comprenderlo non
misurando il tasso di salinità delle sue lacrime, ma rievocando in me i miei
sconforti infantili, identificandolo in me e identificandomi in lui. La
comprensione, sempre inter-soggettiva, richiede apertura e generosità…La
comprensione permette di considerare l’altro non solo come ego alter, un altro individuo soggetto, ma anche come alter ego, un altro me stesso con cui
comunico, simpatizzo, sono in comunione. Il principio di comunicazione è dunque
incluso nel principio di identità e si manifesta nel principio di inclusione
"[100].
Proviamo a vedere qualche altro esempio.
In L’arbitrato (Epivtreponte")
di Menandro[101]
Carisio, il marito che si crede tradito, definisce se stesso, ironicamente,
l'uomo senza peccato attento alla reputazione ( ejgwv
ti" ajnamavrthto", eij" dovxan blevpwn, v. 588) e
comprende che l'errore sessuale della moglie, presunto, ma da lui ritenuto
reale, è stato un "infortunio involontario"( ajkouvsion gunaiko;" ajtuvchm j, v. 594). Del resto la
donna, Panfile, l’aveva condiviso proprio con Carisio. Nessuno dei due lo
sapeva poiché, assai stranamente, non si erano riconosciuti.
Il protagonista di
questa commedia ripropone la formula
antica della dovxa , la reputazione,
ma poi la supera, con quell’ ejgwv ti" ajnamavrthto", che anticipa il Vangelo di Giovanni:"chi
di voi è senza peccato scagli la pietra per primo contro di lei, oJ ajnamavrthto" uJmw'n prw'to" ejp j aujth;n balevtw livqon (8, 7).
Qui non si tratta di un adulterio presunto. Infatti gli scribi e i farisei
portano al tempio una donna còlta in adulterio (mulierem in adulterio deprehensam , 8, 3) e chiedono al Cristo, che
insegnava in quel luogo, se dovesse essere lapidata secondo la legge mosaica.
Lo dicevano per metterlo alla prova e magari poterlo accusare. Gesù allora si
diede a scrivere con il dito sulla terra. E siccome lo incalzavano, il
Redentore, rizzatosi, disse loro:" qui
sine peccato est vestrum, primus in illam lapidem mittat ". E riprese a scrivere per terra. Tutti
gli altri uscirono, e il Cristo, rimasto solo con la donna, la assolse, come
tutti gli altri, aggiungendo:"vade
et amplius iam noli peccare " (8, 11), vai e non peccare più. Che
significa: scegli tra i due uomini quello che ami. Certamente non il
marito.
Procedo con Tolstoj: “c’era ora in Pierre una nuova
caratteristica che gli assicurava la simpatia generale: era il riconoscimento
che ogni persona potesse pensare e sentire, sentire e vedere le cose a modo
suo, il riconoscimento che è impossibile con le parole far cambiare opinione a
un uomo. Questa legittima peculiarità di ogni persona, che un tempo disturbava
e irritava Pierre, costituiva ora la base della simpatia e dell’interesse che
gli uomini suscitavano in lui”[102].
La capacità di mettersi nei panni degli altri è indispensabile all’insegnante bravo cui non
basta essere preparato.
A questo proposito sentiamo Leopardi: “gli scolari
partiranno dalla scuola dell’uomo il più dotto, senz’aver nulla partecipato
alla sua dottrina, eccetto il caso (raro) ch’egli abbia quella forza
d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo proprio
stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli, il che si chiama
comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un buon
maestro e la più utile,non è l’eccellenza in quella dottrina, ma l’eccellenza
nel saperla comunicare”[103].
E più avanti: “Ma il gran torto degli educatori è di volere
che ai giovani piaccia quello che piace alla vecchiezza o alla maturità; che la
vita giovanile non differisca dalla matura; di voler sopprimere la differenza
di gusti di desiderii ec., che la natura invincibile e immutabile ha posta fra
l’età de’ loro allievi e la loro, o non volerla riconoscere, o volerne affatto
prescindere…di volere che gli ammaestramenti, i comandi, e la forza della
necessità suppliscano all’esperienza ec.”[104].
Il mettersi nei panni dell’altro non significa accettare tutte le
diversità:" Il vero problema nasce con le diversità che si pongono in
irriducibile conflitto con il modello di umanità, un conflitto nel quale la
soddisfazione dell'esigenza degli uni costituisce necessariamente violenza per
gli altri e viceversa. Nel famoso film di Fritz Lang[105],
M, l'assassino di bambine non mente, quando illustra tragicamente la sua
reale esigenza che lo induce a quegli
atti omicidi, e l'altissimo costo che significherebbe per lui la repressione di
quegli impulsi, ma d'altra parte anche il diritto di quelle bambine di non
essere uccise-ossia il loro diritto di esigere la sua repressione-non è meno
reale. Pure il delitto di Raskol' nikov nasce da una passione sofferta e reale;
se egli ne venisse impedito, ciò significherebbe il sacrificio di una sua
oscura ma autentica esigenza, e d'altronde senza quel sacrificio sono le sue
vittime a venire calpestate. Si tratta di casi estremi, che indicano tuttavia
la difficoltà di tracciare un confine fra l'esigenza dell'universale e la
rivendicazione della diversità, e che indicano soprattutto la difficoltà di
risolvere il problema sul mero terreno della prosa del mondo, sul piano
puramente sociologico: per Dostoevskij soltanto la prospettiva di Sonia, della
carità, può risolvere il dilemma di Raskol'nikov"[106].
A questo punto si può menzionare anche Match
point, l’ultimo film di Woody Allen (gennaio 2006).
“ Si torna così alla crux dostoevskiana: perché Raskolnikov
non deve uccidere la vecchietta? Perché non bisogna tirare i sassi dal
cavalcavia? Davvero, se non c’è più garanzia oggettiva di valori, se sono posti
in causa i loro fondamenti scientifici o metafisici, non si dà possibilità di
intesa collettiva e di morale individuale e sociale? Il Novecento si apre e si chiude ponendo
l’esigenza di valori laici, relativi, pragmatici. Se il dogmatismo e la
vocazione all’assoluto e all’universale hanno prodotto il trionfo dell’Illuminismo
come logica del dominio e come spietata razionalità del potere scientifico e
tecnologico, il loro rovescio oscuro è il nichilismo che annienta le basi
stesse –i significati comuni, l’intesa possibile-di qualsiasi comunità. Si
tratta di insegnare il relativismo e la fiducia in valori storici che mutano e
si realizzano nel carattere processuale, mobile e interdialogico della civiltà.
Insegnando a leggere e a interpretare un testo, a dargli senso e valore, si
insegna forse anche a non tirare i sassi dal cavalcavia”[107].
[1]Di questa idea attribuita a
Protagora da varie fonti, diamo la formulazione del Cratilo (385e) di Platone:"w{sper Prwtagovra" e[legen levgwn--pavntwn crhmavtwn mevtron
ei\nai a[nqrwpon",
come diceva Protagora che l'uomo è misura di tutte le cose.
[2]p. 201 del II vol.
[3] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 246 n. 14.
[4]J. P. Vernant, Ambiguità E Rovesciamento , in Mito e tragedia nell'antica Grecia , pp.
89-90.
[5] Sei personaggi in cerca d'autore
( parte prima). Parla il personaggio del Padre. La commedia andò in
scena la prima volta il 10 maggio 1921 al teatro Valle di Roma.
[6] Pubblicato a puntate sul settimanale "La fiera
letteraria" nel 1926.
[7] M. Bettini, Le orecchie di
Hermes, p. 246.
[8]Mito
e Modernità Della Letteratura Greca ,
p.162.
[9] Diodoro racconta che il toro Api sopravvisse ad
Alessandro e anzi quando questo morì di vecchiaia (ghvra/ ) l’uomo che se ne occupava spese tutto il molto denaro tenuto a disposizione (hJtoimasmevnhn corhgivan) per la
sepoltura; inoltre ricevette da Tolemeo un prestito di cinquanta talenti
d’argento (Biblioteca storica, I, 84,
8). Api venne identificato dai Greci con Epafo. Il gesto di Alessandro dunque
aveva una forte carica simbolica .
[10] L'episodio è ricordato pure
da Seneca che nel De Ira definisce Cambise
"regem nimis deditum vino
"(3, 14), re troppo dedito al vino. In questo Alessandro invero non si
differenziò molto da Cambise.
[11] J. G. Droysen, Alessandro Il Grande, p. 184.
[12] Cfr. Cicerone: “sunt omnes qui in populum vitae necisque
potestatem habent tyranni, sed se Iovis optimi nomine malunt reges vocari” (De Republica, 3, 23), sono tiranni tutti quelli che hanno potere di
vita e di morte sul popolo, ma preferiscono chiamarsi re con il nome di Giove
ottimo.
[13]C. M. Bowra, Mito E Modernità Della Letteratura Greca , p. 170.
[14] Il tiranno è invidioso. Infatti
L'Invidia personificata da Ovidio "exurit herbas et summa papavera
carpit" (Metamorfosi, 2, 792), dissecca le erbe e stacca le cime dei
papaveri.
[15] Un altro personaggio tragico che afferma l'insindacabilità
del potere assoluto è Lady Macbeth
nella scena del sonnambulismo:"What need we fear who knows it, when
none can call our power to account it?" (Macbeth, V, 1), perché dovremmo temere chi lo sappia, quando
nessuno può chiamare la nostra potenza a renderne conto?
[16] J. G. Droysen, Alessandro Il Grande, p. 215.
[17] il monocratismo non è greco come
non lo è il monoteismo fautore di intolleranza.
[18] Attivo nella seconda metà del V
secolo.
[19] Oxyrh. Pap. XI Fragmetum
I
[20] Fr. 1 Sauppe.
[21] Del 348 a. C.
[22] Un caldo elogio di Atene, del
380 a. C.
[23] 384-322 a. C.
[24] Le orecchie di Hermes, p.
242.
[25] Luigi Pirandello, Op. cit., p. 173.
[26] Parte I, cap. II.
[27] Luigi Pirandello, L’umorismo, p. 174
[28] Giuseppe Giusti (1809-1850) S. Ambrogio, v. 60
[29] S. Ambrogio, vv. 65-71.
[30] S. Ambrogio, vv. 81-84.
[31] S. Ambrogio, vv. 89-90.
[32] Luigi Pirandello, L’umorismo (1908), p. 175.
[33] C. Magris, L'anello di
Clarisse , p. 27.
[34] Composta tra il 18 e il 13 a. C.
[35] 1599-1600.
[36] Haec si neque ego neque tu fecimus,/non siit egestas facere nos
[37] Del 431 a. C.
[38] Marzo 1974. Vuoto di Carità,
vuoto di Cultura: un linguaggio senza origini. (Scritti corsari, p. 44).
[39] Medea, 1970.
[40] quello della barbara Medea.
[41]J. Duflot, Pier Paolo Pasolini.
Il sogno del centauro, Roma 1983, in Naldini, Pasolini, una vita , p. 81.
[42] "ajll ' wJ", to; men; mevgiston, oijkoi''men
kalw'"-kai; mh; spanizoivmeqa"
(vv. 559-560).
[43] H. d. Balzac, Eugenia Grandet
(del 1833), pp. 158-159.
[44] H. d. Balzac, Eugenia Grandet,
p. 165.
[45] Del 409 a. C.
[46] 55 ca.-120 ca d. C.
[47] Scritti corsari , p. 49.
[48] Del 38 a. C.
[49] 39-65 d. C.
[50] Per essere tagliata.
[51]Mazzarino, op. cit., p. 459
[52] Arrivò a espellere dal Senato
l'ex pretore Publio Manilio poiché aveva baciato in pubblico la moglie.
[53] Sono gli Osci del Sannio e della
Campania, genti considerate particolarmente barbare.
[54] Cfr. quella di uscire dall’euro
[55] L. Canfora, L'educazione, in
Storia di Roma, IV, Caratteri e morfologia, Einaudi, Torino 1989, pp. 739
sgg.
[56] 342-291 a. C. Il Duvskolo" fu presentato alle Lenee del 317 a. C.
[57] Cfr. Agamennone, 177.
[58] F. Cenerini, La donna romana, p. 13
[59] M. Yourcenar, Memorie di
Adriano, p. 217.
[60] Storiografo e maestro di
retorica trasferitosi a Roma nel 30 a. C.
[61] Secondo le quali l'incedio di
Roma (del 64 d. C.) era stato ordinato (iussum incendium).
[62] Si pensi a Pietro Valpreda nel
dicembre del '69.
[63] Retore assiro vissuto a Roma
alla fine del I sec. d. C.
[64]
Alessandro Perutelli, Il testo come maestro in Lo spazio letterario
di Roma antica, vol. I, p. 304.
[65] Mentre lavora tutto l'anno senza
tregua (requies, v. 516)
[66] 40 ca. 104 d. C.
[67] Cfr. Gli esterofili nostrani
[68] "Gens non astuta nec callida, aperit adhuc secreta pectoris licentia
ioci; ergo detecta et nuda omnium mens " (Germania, 22) gente non
astuta né scaltrita dall'esperienza, apre ancora adesso i segreti dell'animo
nella libertà dello scherzo; pertanto è scoperto e messo a nudo l'animo di
tutti
[69] Vietava tra l'altro di indossare
vesti multicolori o di girare per Roma su un cocchio a doppio traino di
cavalli.
[70] Evidentemente la parità fa paura
ai maschi. Lo ripeterà Marziale (40
ca-104 d.C.) nella clausula di un suo epigramma:" Inferior matrona suo sit, Prisce,
marito:/non aliter fiunt femina virque pares " (VIII, 12, 3-4), la
moglie, Prisco, stia sotto il marito: non altrimenti l'uomo e la donna
diventano pari.
[71]Tito Livio, Storie , 34, 3, 2.
[72] Nietzsche, La nascita della
tragedia, p. 70. Il dionisiaco è il rovescio dell’apollineo, è la negazione
dell’introversione del principium individuationis, è il
tuffarsi nella totalità estrovertendosi.
[73] F. Nietzsche, Frammenti
postumi, Primavera 1888, 14.
[74] C. G. Jiung, Tipi psicologici,
p. 156.
[75] J. Ortega y Gasset, Idea del teatro (del 1946) p. 93.
[76] Monica Centanni, Nemica a Ulisse, pp. 59 ss.
[77]
T. S. Eliot, The Waste Land , v.
243.
[78] Monica Centanni, Nemica a Ulisse, pp. 76-77.
[79] Che compone e conclude la
trilogia Il vello d'oro con L'ospite
e Gli argonauti del 1821.
[80]C. Magris in Euripide,
Grillparzer, Alvaro, Medea Variazioni sul mito a cura di M. G. Ciani, p. 17.
[81]J. Duflot, Pier Paolo Pasolini.
Il sogno del centauro, Roma 1983,
in Naldini, Pasolini,
una vita , p. 81.
[82] S. Settis, , Futuro del
"classico", p. 11o e p. 114.
[83] M. Cacciari, Geofilosofia
dell'Europa, p. 27.
[84] E. Morin, I sette saperi, p. 114.
[85] G. D’Annunzio, Laus Vitae, vv. 46-52. La
Sirena del Mondo .
[86] Le orecchie di Hermes, p.
242.
[87] T. Mann, La montagna incantata, II, p. 247. E’ Peeperkorn che parla
[88] O. Wilde, De profundis, in Wilde, Opere, p. 70.
[89] Pirandello, L’umorismo, p. 45.
[90] Del 1908.
[91] Luigi Pirandello, Op. cit., p. 173.
[92] Parte I, cap. II.
[93] Luigi Pirandello, L’umorismo, p. 174
[94] Giuseppe Giusti (1809-1850) S. Ambrogio, v. 60
[95] S. Ambrogio, vv. 65-71.
[96] S. Ambrogio, vv. 81-84.
[97] S. Ambrogio, vv. 89-90.
[98] Luigi Pirandello, L’umorismo (1908), p. 175.
[99] T. Mann, Il giovane Giuseppe, p.
117.
[100] E. Morin, La testa ben fatta., p.96 e p. 132.
[101] 341-290. L’arbitrato è stata
scritta nella piena maturità dell’autore, alla fine del IV sec. a. C.
[102] Guerra e pace, p. 1660.
[103] Zibaldone, 1376.
[104] Zibaldone, 1473.
[105] Si tratta di M- il mostro di Düsserdolf , del 1931.
L’attore protagonista è Peter Lorre. Durante la scena finale l’assassino di
bambine viene giudicato dagli stati generali della mala riuniti in assise.
Cerca di difendersi dicendo che pensa sempre di essere inseguito “ma sono io
che inseguo me stesso”. Solo quando
uccide ha un momento di pace e di oblio. Poi domanda: “Chi può sapere come sono
fatto dentro?”. La malavita vuole condannarlo a morte, ma arriva la polizia che
lo porterà davanti a un tribunale regolare. (Ndr).
[106] C. Magris, L'anello di
Clarisse , p. 27.
[107] R. Luperini, Insegnare la letteratura oggi, p. 85.
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