Friedrich Schiller |
La
sofferenza che conduce alla comprensione.
Esiodo.
Pavese. Sofocle. Euripide. Menandro. Polibio. Nietzsche. Virgilio. Schiller. Dostoevskij.
H. Hesse. Proust. Wilde. D'Annunzio. Verga. Di nuovo Pavese. Ancora
Hesse. Piero Boitani
Tale
legge si trova in tutte le espressioni letterarie collegate all'oracolo delfico.
Esiodo
afferma che la giustizia, quando si giunge alla fine, supera la prepotenza e
soffrendo anche lo stolto impara (Opere e giorni, vv. 217 - 218).
Nell'opera
di Sofocle questa concatenazione di delitto - castigo - riconoscimento degli
errori, è messa in piena evidenza alla fine dell'Antigone, quando Creonte riceve la notizia del terzo suicidio provocato
da lui e dichiara la propria colpa che lo ha annichilito: "a[getev m j ejkpodwvn,
- to; n oujk o[nta ma'llon h] mhdevna", portatemi via, io non
sono più di un nessuno (vv. 1324 - 1325). Nel poeta di Colono questo
comprendere tardivo non salva dalla catastrofe chi ha sbagliato.
Un caso di lieto fine in seguito a
resipiscenza invece possiamo trovarlo nell'Alcesti
di Euripide. Admeto, sentendo il peso della solitudine dopo avere chiesto
alla giovane moglie il sacrificio della sua vita per salvare la propria, soffre
la desolazione nella quale è rimasto e dice: "lupro; n diavxw bivoton:
a[rti manqavnw",
condurrò una vita penosa: ora comprendo (v. 940). In seguito, come si sa, gli
verrà restituita la compagna dalla possa di Eracle.
C. Del Grande in Tragw/diva afferma
che pure la commedia nuova, e particolarmente quella di Menandro mantiene un
carattere paradigmatico fornendo esempi di mavqo" tragico. E' il caso di Carisio
negli jEpitrevponte" (L’arbitrato) : il marito che aveva ripudiato la
moglie per un presunto errore sessuale di lei, un fallo che, senza saperlo, avevano
commesso insieme, quando si accorge dell'amore della sposa, ironizza sulla
propria innocenza di uomo attento alla reputazione: " ejgwv ti"
ajnamavrthto", eij" dovxan blevpwn" (v. 588), io uno senza
peccato, e comprende che deve perdonare quello che è stato solo un "ajkouvsion gunaiko; "
ajtuvchma",
un infortunio involontario della donna (v. 594).
“Nella commedia più
delicata e più bella di Menandro, gli Epitrepontes,
il cui intreccio può essere in qualche modo ricostruito, tutto si svolge in
modo che infine un giovane si renda conto del misfatto che ha commesso. Ubriaco,
ha usato violenza a una fanciulla che poi sposa senza sapere di averla già
incontrata. Quando nasce un figlio prima del tempo, com’egli crede, si adira
contro la moglie finché deve scoprire che l’unica persona meritevole della sua
indignazione morale è lui stesso. Come Admeto in Euripide, acquista coscienza
della propria situazione e riconosce che le sue grosse parole non erano altro
che parole. Così osserva a suo modo l’antico ammonimento delfico: conosci te
stesso. Ma non è un Tantalo che nella sua hybris
selvaggia ha ignorato il confine tra potere umano e divino, né un Edipo, che
nelle sue oneste aspirazioni confidava nel proprio sapere, e neppure un Admeto,
che non riconosceva un imperativo a lui posto: è un giovane borghese innocuo
che senza un proposito, senza un’idea, a anzi senza vera coscienza, essendo
ubriaco, è caduto vittima della debolezza umana. La grandezza di Menandro sta
nello sviluppare caratteri umani, con le loro reazioni psicologiche, da temi
così inconsistenti…i poeti più antichi erano spinti a comporre da motivi di
contenuto: conservare vivo il ricordo di grandi gesta, scoprire una verità, indagare
la virtù ecc…Dopo l’intermezzo democratico, con la fioritura ateniese della
tragedia e della commedia, i poeti dovevano di nuovo dimostrare il loro talento
alle corti dei monarchi…E come Menandro essi rinunciano al pathos, ai programmi
morali, all’impegno politico, e osservano con sorridente comprensione il
comportamento degli uomini”[2].
E',
secondo Del Grande, un "vero momento di mavqo" tragico"[3]. Su
questo episodio torneremo trattando l’intolleranza e la tolleranza (21. 1).
Sulla
medesima linea si trova il Duvskolo": il
vecchio Cnemone solitario e misantropo, in seguito a una caduta nel pozzo, comprende
che nessuno è tanto autosufficiente da potere vivere senza l'aiuto del prossimo,
e deve ammettere: " e{n d j i[sw" h{marton o{sti~ tw'n aJpavntwn
wj/ovmhn - aujto; " aujtavrkh" ti" ei\nai kai; dehvsesq j
oujdenov""
(vv. 713 - 714), in una cosa probabilmente ho sbagliato: a credere di essere il
solo autosufficiente tra tutti, e di non avere bisogno di nessuno. In Menandro
dunque rimane vigente la legge tragica per la quale attraverso le proprie
sofferenze si impara e si diventa più comprensivi: "non si può dire che mavqo" non ci
sia stato... Il paradigma in funzione esemplare è evidente"[4].
Del
resto già nel Prologo il dio Pan aveva detto a proposito di Gorgia: “ oJ pai`~ uJpe; r th; n
hJlikivan to; n nou`n e[cwn: / proavgei ga; r hj tw'n pragmavtwn ejmpeiriva, vv. 28
- 29, è un ragazzo che ha cervello al di sopra della sua età: /infatti
l'esperienza delle difficoltà fa crescere.
Anche
il "pragmatico" e "universale" Polibio riconosce valore educativo alla
sofferenza: al cambiamento in meglio si giunge attraverso due vie: quella dei
patimenti propri e quella dei patimenti altrui (tou' te dia; tw'n ijdivwn sumptwmavtwn kai; dia; tw'n
ajllotrivwn)
; la prima è più efficace ("ejnargevsteron"), la seconda meno dannosa
("ajblabevsteron",
Storie, I, 35, 7).
Dal dolore dei Greci
si sviluppa non solo la comprensione ma anche la bellezza, una sorta di tw/' pavqei
kavllo": "Una
questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore…la questione se in
realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di
divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppata dalla mancanza, dalla
privazione, dalla malinconia e dal dolore…quanto dovette soffrire questo popolo,
per poter diventare così bello!"[5].
La
"Classicità non è chiarezza sin dall'inizio, bensì contesa giunta ad unità,
discordia conciliata, angoscia risanata". [6]
Sulla sofferenza positiva Nietzsche si esprime in Di là dal bene e
dal male[7]: "il grado
gerarchico di un uomo è quasi determinato dal grado di profondità cui è
capace di giungere la sofferenza degli uomini, - la sua raccapricciante
certezza…di sapere di più grazie alle sue sofferenze" (p. 200).
Per
non limitarci alla letteratura greca e ai suoi interpreti, aggiungiamo autori
successivi. Nell'Eneide di Virgilio
Didone incoraggia i Troiani giunti naufraghi sulle coste della Libia ricordando
che anche lei è esperta di sventure le quali l'hanno resa non solo attenta e
diffidente, ma pure compassionevole verso i disgraziati: "non ignara mali miseris succurrere disco
" (I, 630), non ignara del
male imparo a soccorrere gli sventurati. Tanta humanitas non verrà
contraccambiata da Enea. Eppure questo è uno degli insegnamenti massimi dei
nostri autori e dovrebbe esserlo nella scuola: "E infine, possiamo
imparare la lezione fondamentale della vita, la compassione per le sofferenze
di tutti gli umiliati, e la comprensione autentica"[8].
“Virgilio insiste, com’è
ben noto, sull’umanità del personaggio, che, avendo sofferto, è particolarmente
sensibile al dolore degli altri”[9].
Friederich Schiller
impiega la norma del tw'/ pavqei mavqo~ in
molte delle sue tragedie, particolarmente nella Maria Stuarda (1802): “il personaggio della infelice regina
cattolica sembra tra tutti il più adatto ad essere il fulcro d’una tragedia di
ispirazione euripidea…secondo quelle leggi drammatiche già prospettate nel
saggio Vom Erhabenen [10], 1793, per le quali “Se la prima legge
dell’arte tragica è rappresentare la natura sofferente, la seconda legge è
rappresentare la resistenza morale a quelle sofferenze”[11]. Maria muore non solo rassegnata ma felice
del proprio matirio: “La prigione si apre, /e lieta la mia anima vola/verso
l’eterna libertà…ora/ benefica e dolce mi si affianca/la morte come una severa
amica…Sento/di nuovo sul mio capo la corona/e l’antica dignità
rivive/nell’animo lavato dal dolore” (V, 4).
F. Dostoevskij in Ricordi del sottosuolo (del
1864) scrive: " io sono convinto che l’uomo non rinuncerà mai alla vera, autentica
sofferenza, e cioè alla distruzione e al caos. Giacché la sofferenza è la vera
origine della coscienza… In realtà io continuo a pormi una domanda oziosa: che
cos'è meglio, una felicità da quattro soldi o delle sublimi sofferenze? Dite su,
che cos'è meglio?" (p. 234 e p. 320).
Lo
starec Zossima nei Fratelli Karamazov dice le sue ultime volontà ad Alioscia: “Avrai
molto da fare. Ma non dubito di te, e perciò ti mando nel mondo. Cristo sarà
sempre con te. ConservaLo nel tuo cuore, ed anche Lui ti conserverà. Conoscerai
grandi sofferenze, e nel dolore troverai la felicità. Eccoti il mio testamento:
nelle sofferenze cerca la felicità. E lavora, lavora senza tregua”[12].
H. Hesse, in Siddharta (p. 135) esprime con altre parole
l'antica legge eschilea del tw/' pavqei mavqo": "Profondamente sentì in
cuore l'amore per il figlio fuggito, come una ferita, e sentì insieme che la
ferita non gli era stata data per rovistarci dentro e dilaniarla, ma perché
fiorisse in tanta luce".
Dalla donna che ci fa soffrire si impara
anche.
Su questo possiamo
sentire Proust: "Perché
solo la felicità è salutare al corpo, ma è il dolore a sviluppare le energie
dello spirito…Una donna di cui abbiamo bisogno, che ci fa soffrire, trae da noi
serie di sentimenti ben più profondi, ben altrimenti vitali di quanto possa
fare un uomo superiore che ci interessi. Resta da sapere, secondo il piano su
cui viviamo, se davvero ci sembra che il tradimento col quale ci ha fatto
soffrire una donna sia ben poca cosa in confronto delle verità che ci ha rivelate,
verità che la donna, paga d'aver fatto soffrire, non avrebbe potuto comprendere... Facendomi perdere il mio tempo, facendomi
soffrire, forse Albertine mi era stata più utile, anche sotto l'aspetto
letterario, di un segretario che avesse messo in ordine le mie
"scartoffie". Tuttavia, allorché un essere è così mal conformato (e
può darsi che nella natura un tal essere sia proprio l'uomo) da non poter amare
senza soffrire, e da aver bisogno di soffrire per imparare certe verità, la
vita d'un tale essere finisce col riuscire ben spossante!"[13].
La
sofferenza si confà alla chiarezza della visione e pure all'arte: "Spesso
solo per mancanza d'ingegno creativo non ci spingiamo abbastanza oltre nella
sofferenza. E la realtà più atroce suol dare, insieme con la sofferenza, la
gioia d'una bella scoperta, perché non fa che dare una forma nuova e chiara a
quello che andavamo rimuginando da un pezzo senza rendercene conto"[14].
“La
sofferenza, per quanto ti possa apparire strano, è il nostro modo di esistere, poiché
è l’unico modo a nostra disposizione per diventare consapevoli della vita; il
ricordo di quanto abbiamo sofferto nel passato ci è necessario come la garanzia,
la testimonianza della nostra identità”[15].
Sentiamo
ancora qualche testimonianza.
D'Annunzio
attribuisce al piacere maggiore efficacia pedagogica che al dolore: "Ella[16] ci
persuade ogni giorno l'atto che è la genesi stessa di nostra specie[17]: lo
sforzo di sorpassar sé medesimo, senza tregua; ella ci mostra la possibilità di
un dolore trasmutato nella più efficace energia stimolatrice; ella c'insegna
che il piacere è il più certo mezzo di conoscimento offertoci dalla Natura e
che colui il quale molto ha sofferto è men sapiente di colui il quale molto ha
gioito"[18].
Di
nuovo il vecchio Malavoglia: “Hanno imparato presto perché hanno visti guai
assai! - diceva padron jNtoni - il giudizio viene colle
disgrazie”[19].
“Soffrire non serve
a niente (26 novembre ‘37).
Soffrire limita
l’efficienza spirituale (17 giugno ‘ 38).
Soffrire è sempre
colpa nostra (29 settembre ’38)
Soffrire è una
debolezza (13 ottobre ’38)
Almeno un’obiezione
c’è: se non avessi sofferto non avrei scritto queste belle sentenze”[21].
“Qualunque sofferenza
che non sia anche conoscenza è inutile”[22].
Mi avvio alla
conclusione con un un personaggio, Boppi, di un romanzo giovanile di H.
Hesse: " mi capitò di diventare l’allievo meravigliato e riconoscente di
un misero storpio. Se un giorno arriverò davvero a compiere il poema iniziato
da gran tempo e a pubblicarlo, vi si troverà ben poco di buono che io non abbia
imparato da Boppi. Incominciò per me un periodo buono e piacevole nel quale
troverò da nutrirmi per tutta la vita. Mi fu concesso di vedere addentro una
magnifica anima umana sulla quale malattia, solitudine, povertà e
maltrattamenti erano passati soltanto come nuvole leggere e vaganti. Tutti i
piccoli vizi coi quali ci amareggiamo e guastiamo la vita bella e breve, l’ira,
l’impazienza, la menzogna, tutte queste odiose e luride piaghe che ci deformano
erano state cauterizzate in quell’uomo da lunghi e profondi dolori. Non era un
saggio, né un angelo, ma un uomo pieno di comprensione e di affetto che, a
furia di tremende sofferenze e di gravi privazioni aveva imparato a sentirsi
debole senza vergognarsi, e ad affidarsi nelle mani di Dio"[23].
Concludo
questo argomento citando Piero Boitani, professore di Letterature comparate
nell’Università di Roma “La
Sapienza ”, e amico umanissimo: “La vita è fatta della nostra
relazione con gli altri, non solo di contemplazione della natura o di noi
stessi. Penso che per sopravvivere con gli altri sia necessario compatire: non
soltanto nel senso di avere pietà nei loro confronti, di guardare alle loro e
alle nostre sventure con umana pietas,
ma di “soffrire con”, “com - patire”. Se soffriamo con gli altri, se prendiamo
su di noi i loro dolori, riconosciamo l’essere umano che è in loro, e in noi, in
maniera assai più profonda di quanto non ci consenta il semplice conoscere…Leggere
la compassione nell’Elettra di
Sofocle, ma poi cercarne le variazioni in Omero, in Proust, in Guerra e Pace. Temi e tradizioni. La
letteratura è un albero gigantesco, ma le radici sono sempre le medesime, e la
ri - scrittura è il principio che ne governa la crescita”[24].
E
più avanti, specificamente sul tw/' pavqei maqo~: “La sofferenza, allora, è un
prerequisito del riconoscimento. Se la Genesi ebraica postula che il prezzo del sapere
sia la morte[25], i
Greci sapevano perfettamente che la conoscenza si può acquisire soltanto
attraverso il dolore. Era saggezza comune fin dai tempi di Omero ed Esiodo[26], ma è
stato Eschilo, all’inizio della tragedia, ad esprimerla in maniera memorabile
nell’Agamennone, quando il coro
intona il famos “Inno a Zeus”[27]
Zeus,
chiunque egli sia, se è questo il nome
Con
cui gli è caro essere invocato,
così
a lui mi rivolgo: nulla trovo cui compararlo,
pur
tutto attentamente vagliando,
tranne
Zeus, se veramente si deve gettar via
il
vano peso dal proprio pensiero.
(….)
Ma
chi a Zeus con gioia leva il grido epinicio
Coglierà
pienamente la saggezza -
A
Zeus che ha avviato i mortali
A
essere saggi, che ha posto come valida legge
“saggezza
attraverso la sofferenza”.
Invece
del sonno (oppure: “anche nel sonno”) stilla davanti al cuore
un’angoscia
memore di dolori:
anche
a chi non vuole arriva saggezza.
Pathei
mathos:
questa è l’indicazione di Zeus per il phronein
umano, la “prudenza” che è saggezza”[28].
Aggiungo
i due versi dell’Agamennone
opportunamente indicati da Boitani in nota: “Divka de; toi'~ me; n paqou' - sin maqei'n
ejpirrevpei”
(Agamennone, vv. 250 - 251), Giustizia
fa pendere comprensione verso quelli che hanno sofferto.
continua
[1]
Il mestiere di vivere, 2 novembre
1938.
[2]
B. Snell, Poesia e società, pp. 156 -
157.
[3]Tragw/diva, p. 209.
[5]
F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872), p. 7 e p. 163.
[6]B.
Snell, Eschilo e l'azione drammatica,
p. 141.
[7]
Del 1875
[8] E. Morin, La testa ben fatta,
p. 49.
[9]
A. La Penna, Prima lezione di letteratura
latina, p. 150.
[10]
Sul sublime ndr.
[11]
Schiller Tutto il teatro 3,
Introduzione di Paolo Chiarini, p. 108.
[12]
F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov,
p. 123.
[13]M.
Proust, Il tempo ritrovato, pp 238,
239 e 242.
[14]
M. Proust, Sodoma e Gomorra, p. 549.
[15] O. Wilde, De Profundis, in Oscar Wilde
Opere, p. 653.
[16]
La vita.
[17]
" Se il chiavare non
fosse la cosa più importante della vita, la Genesi non comincerebbe di lì"
(C. Pavese, Il mestiere di vivere,
25 dicembre, 1937). Ndr.
[18]
Il fuoco (del 1900) p. 95.
[19]
G. Verga, I Malavoglia, p. 221.
[20]
C. Pavese, Il mestiere di vivere, 25 novembre 1937.
[21]
Il mestiere di vivere, 27 ottobre
1938.
[22]
Il mestiere di vivere, 19 gennaio
1939.
[23]H.
Hesse, Peter Camezind (del 1904), p.
117.
[24]
P. Boitani, Prima lezione sulla
letteratura, pp. X ss.
[25]
Genesi 2. 17 riporta l’ordine di Dio ad Adamo: “ma dell’albero della conoscenza
del bene e del male non devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi,
certamente moriresti”…Nella tradizione occidentale c’è anche un legame costante
tra l’anagnorisis e la cecità (o la
morte: Edipo e Lear) e tra l’anagnorisis
e il ragionamento, di cui ho scritto Il
genio di migliorare un’invenzione, cit.
[26]
Per l’importanza del pathei mathos
nella tragedia, si veda Kuhn Die wahre Tragödie,
cit., pp. 254 - 255. I loci più
importanti della tradizione soo Omero, Iliade,
XVII, 32; Esiodo, Opere e giorni,
218; Erodoto, I, 207, 1; Sofocle, Edipo
re, 402; Sofocle, Antigone, 1190;
Platone, Simposio, 222b. Per un elenco generale e una discussione
si veda H. Dorrie, Leid und Erfahrung,
in “Abhandlunen der Akademie der Wissenschaft und der Literatur”, Mainz, 5,
1956.
[27]
Eschilo, Agamennone, 160 - 180 (e si vedano anche i vv. 250 - 252). L’edizione
usata è quella curata da V. Di Benedetto, Mondadori, Milano 1995. Si veda anche
E. Severino, Il giogo. Alle origini della
ragione: Eschilo, Adelphi, Milano, 1989.
[28]
Piero Boitani, Prima lezione sulla
letteratura, pp. 109 - 110.
Mi piace molto. Mi chiedo spesso, come docente , se usare la carota o il bastone ....rifletterò su queste opinioni contrapposte e credo che mi saranno di aiuto. Giovanna Tocco
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