NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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sabato 5 settembre 2015

Introduzione alla tragedia greca. Parte II

Dioniso

Di nuovo Aristotele
Tragedia e commedia nacquero da un principio di improvvisazione (ajp j ajrch'~ aujtoscediastikh'~, Poetica, 1449a, 10), ma la tragedia da coloro che guidavano il ditirambo: "ajpo; tw'n ejxarcovntwn to; n diquvrambon[1], mentre la commedia da quelli che dirigevano i canti fallici i quali rimangono ancora oggi in uso in molte città" (Poetica, 1449a, 12).
 L'origine del dramma sarebbe dunque da collegarsi al culto dionisiaco e ai connessi riti della fertilità.
Per quanto riguarda la regione di origine del dramma e il popolo che l’ha inventato, Aristotele ci informa che i Dori rivendicano la tragedia e la commedia etimologizzandone i nomi: “poiuvmenoi ta; ojnovmata shmei`on “ (1447b), poiché considerano i nomi un segno. Essi infatti affermano di chiamare i sobborghi kwvma~[2], mentre gli Ateniesi li chiamano dhvmou~, e sostengono che i commedianti (kwmw/douj~) sono così chiamati oujk ajpo; tou` kwmavzein, non dal fare baldoria ajlla; th`/ kata; kwvma~ plavnh/, ma per il loro vagare per i sobborghi, in quanto disdegnati dal centro delle città. Inoltre affermano che per “fare” loro dicono dra`n, mentre gli Ateniesi pravttein. Ebbene dra`n è “il verbo tragico per eccellenza, l’agire che decide, risoluto fino alla fine, compimento felice o naufragio che sia”[3]. Ancora: il “fare” richiede la categoria della politica. Il dramma antico è dramma politico. Di nuovo Cacciari: “La ‘conversazione’ beckettiana, come certi dialoghi dell’Ulysses, non mette in scena una perdita, ma un’inessenzialità radicale: l’uomo non è ‘animale politico’. Allora, certamente, ogni drama diviene impossibile a priori, poiché è possibile fare soltanto per quell’esserci che è nella sua essenza inter - esse”[4].

Dioniso
I riti della fertilità dicevamo. Questi celebrano la nascita, la vita, la morte e la resurrezione. Dioniso impersona tutte le fasi dell’alterna vicenda: “ Dioniso è un dio universale - dio della vita, di ogni rinascita primaverile in piante, animali e uomini, ma anche dio dei morti. Dio gentile, delizioso, piacevole e sorridente; dio terribile, distruttore, feroce massacratore. Dio buono e dio cattivo. Ogni dio antico ha in germe queste due facce…Dioniso è entrambe le cose al massimo grado: è delizia e terrore… In Dioniso si manifesta più chiaramente che in tutte le altre divinità ciò che per i greci - e non solo per i greci - è il tratto principale degli dèi: il loro essere inquietanti, il non saper mai come reagiranno, il non sapere che cosa faranno. Per questo Esiodo parla di “inquietante casta degli dèi”[5].
“Seppure possa sembrare affascinante, la ricerca delle origini… non è poi problema tanto rilevante… non sono le origini, ma la tragedia quale si è storicamente configurata a condizionare la nostra sensibilità teatrale”[6].

Le rappresentazioni ad Atene
 Le rappresentazioni ad Atene avvenivano principalmente durante le Grandi Dionisie, le quali, istituite tra il 535 e il 533 da Pisistrato, si tenevano all'inizio della primavera, tra marzo e aprile, quando, per una settimana circa, si svolgevano processioni, cortei e riti in onore di Bacco, si cantavano a gara ditirambi da parte di cori maschili e femminili, si facevano banchetti e scatenate baldorie che incrementavano le nascite, e finalmente si assisteva agli agoni tragici e comici: per tre giorni, tre drammaturghi scelti dall’arconte eponimo tra i concorrenti presentavano tre tragedie nuove e un dramma satiresco, mentre il quarto giorno era quello delle cinque commedie, una per ciascuno degli autori ammessi.
“ Almeno nell’età di Eschilo, Sofocle ed Euripide, il dramma satiresco concludeva, a mo’ di appendice alle tragedie, la tetralogia che ciascun tragediografo portava in scena alle Grandi Dionisie.
Il dramma satiresco proponeva al pubblico un episodio del mito, ma riservando ad esso un trattamento in chiave burlesca. Si badi bene però: nulla che lo assimilasse alla commedia. Il dramma satiresco era piuttosto un “sottogenere” del più nobile genere tragico, come indicano i molteplici e sostanziali punti di contatto tra le due forme di spettacolo: medesimo autore, medesima occasione della performance, medesimi attori e medesimi coreuti, medesima morfologia strutturale (articolazione in prologo, parodo, episodi, stasimi, esodo), introduzione sulla scena dei medesimi personaggi. Questi ultimi sono ovviamente gli eroi del mito; e tuttavia l’atmosfera in cui sono immersi, pur ricalcando il soggetto scenico le linee del racconto tradizionale, è assolutamente surreale: ché accanto ad essi imperversa regolarmente - come elemento imprescindibile del genere - un coro di satiri guidati dal loro padre - tutore, il vecchio Sileno. Esseri semiferini, cinti di una pelle di cuoio, con fallo eretto, coda e orecchie equine, maschera con barba e naso camuso…li vediamo all’opera come araldi, atleti, cuochi, nutrici di Dioniso, marinai, carpentieri, pastori ecc. Incapaci e vili, rozzi e brutali per un verso, ingenui e puerili per un altro, totalmente estranei alle istituzioni e alle convenzioni della polis e del consorzio civile, essi si trovano a cooperare (spesso contro un mostro o un “nemico” di cui sono schiavi e da cui dovranno essere liberati) con personaggi di forte tempra e di fiera dignità eroica, determinando con i loro facili entusiasmi e la loro imperizia, ostacoli, sorprese, situazioni di imprevista comicità. La magra messe di testi di cui disponiamo - appena un dramma completo, il Ciclope di Euripide, circa metà dei Cercatori di orme di Sofocle e poi frammenti più o meno estesi, tra cui si distinguono per ampiezza e vis inventiva soprattutto quelli eschilei - induce a credere che, a paragone delle tragedie, il dramma satiresco presentasse di norma un intreccio estremamente semplificato, il quale non aveva altra funzione se non quella di creare un pretesto al gioco lieve e scanzonato di Sileno e del coro: di qui anche un’estensione che, in media, doveva essere comparativamente molto più breve di quella di una tragedia. Come a compensare l’esilità della trama e lo scarso spessore psicologico dei protagonisti, un rilievo proporzionalmente assai maggiore era assegnato ad altri elementi di più facile presa spettacolare: ad esempio la danza, con frequenti sezioni liriche strofiche che dovevano assecondare l’esecuzione di movimenti orchestici particolarmente vivaci; o una gestualità fortemente connotata sotto il profilo mimico e dunque ben lontana dalla rigida compostezza cui era vincolata la scena tragica; o il ricorso al teratodes (il “meraviglioso”), con l’introduzione di creature mostruose, metamorfosi, camuffamenti animaleschi, apparizioni inattese”[7].

Una giuria di dieci membri estratti a sorte, uno per tribù, attribuiva i premi.
“Al termine delle rappresentazioni ogni giurato scriveva le proprie preferenze su una tavoletta; tra le dieci tavolette raccolte ne venivano sorteggiate cinque, ed era sulla base di queste cinque che veniva compilata la classifica finale. Ci si è chiesti se i giudici fossero davvero ligi al giuramento di imparzialità che erano obbligati a prestare. Il pubblico che sedeva a teatro partecipava agli spettacoli con grande vivacità, ed è naturale supporre che le rumorose reazioni di consenso o di riprovazione con cui accompagnava la rappresentazione delle opere incidessero sulle scelte dei giurati…Platone - ma siamo già nel IV secolo inoltrato - protesta energicamente contro i condizionamenti imposti dalle claques (Leg. 2, 659 a - b) ” [8].
Leggiamone solo alcune parole: “A teatro il vero giudice non deve imparare a giudicare spaventato dallo strepito dei più e dalla propria ignoranza, ” (659a)
“Altrove, alludendo ancora ai fischi, agli applausi e alle urla scomposte del pubblico, il filosofo parla di “teatrocrazia” (Leg. 3, 700c) ”[9].
“Ad episodi di corruzione accennano gli oratori del IV secolo, ma in generale non abbiamo motivo di dubitare dell’onestà dei giurati. Allo stesso modo occorre riconoscere alle giurie stesse…un’apprezzabile capacità di giudizio estetico. Lo prova il fatto che sia Eschilo che Sofocle vinsero in più della metà degli agoni cui parteciparono; per Euripide il discorso è più complesso: lo scarso numero di vittorie riportate da un lato riflette una reale difficoltà del pubblico ateniese ad accettare le novità ideologiche, se non anche drammaturgiche, del suo teatro, e dall’altro si spiega con la circostanza tutt’altro che irrilevante che sin dagli inizi della sua carriera e fino alla morte egli si trovò a rivaleggiare con un concorrente della statura di Sofocle. Non manca peraltro qualche caso in cui il verdetto dei giudici ci appare opinabile se non addirittura scandaloso: nelle Dionisie in cui fu presentato l’Edipo re, Sofocle giunse solo secondo, essendogli stato preferito un autore di non eccelsa levatura quale Filocle. Eppure l’Edipo re - non solo a giudizio della critica moderna, ma già nella valutazione di un autorevole e indiscusso conoscitore della tragedia greca come Aristotele - è un capolavoro di rilievo assoluto. Restano oscure le ragioni della scelta dei giurati. Si può solo supporre - e ciò richiama la nostra attenzione sull’ottica parziale con cui guardiamo al teatro antico - che essi abbiano tenuto conto non solo dell’intreccio, ma anche della musica, della danza, della recitazione, dei costumi, degli effetti visivi, e che il loro voto abbia riguardato, come del resto era prassi negli agoni, non le singole tragedie, ma le tetralogie nel loro insieme”[10].
Erano meno importanti i festival invernali: quello delle Lenee (gennaio - febbraio), dedicato soprattutto alla commedia, e quello delle Dionisie rurali (dicembre - gennaio), ma gli appassionati non se li lasciavano sfuggire, e, come se avessero dato a nolo le orecchie (w{sper de; ajpomemisqwkovte~ ta; w\ta), li denigra Platone, “corrono in giro ad ascoltare tutti i cori senza mancare alle Dionisie, né a quelle urbane, né alle rurali" (Repubblica, 475d).

Platone nella stessa Repubblica biasima Omero ed Eschilo poiché attribuiscono menzogne agli dèi mentre il divino è pavnth/ ajyeudev~ (382e), assolutamente incapace di mentire. Viene ricordato il sogno ingannevole inviato da Zeus ad Agamennone nel secondo canto dell’Iliade e un frammento di Eschilo dove Teti biasima l’inganno di Apollo che aveva predetto felicità alle sue nozze poi le aveva ucciso il figliolo. Dunque sentendo cose simili sugli dèi: “calepanou`mevn te kai; coro; n ouj dwvsomen” (383c), noi ci sdegneremo e non concederemo un coro.

“Le Lenee, cioè la festa di Dioniso Leneo (da lh`nai= “menadi” piuttosto che da lhnov~= “torchio”, come si riteneva un tempo, allorché si collegava la festa ai riti della vendemmia) si celebravano nel mese di Gamelione (gennaio - febbraio) e, dato il periodo poco propizio alla navigazione, avevano una dimensione prettamente locale: vi partecipavano soltanto, o quasi, gli abitanti dell’Attica. “L’agone è quello lenaico, e siamo tra noi” fa dire Aristofane a Diceopoli, protagonista degli Acarnesi, rappresentati appunto alle Lenee, per giustificare le critiche che intende muovere al demagogo Cleone (vv. 504 ss.) : assenti gli stranieri e gli alleati, il poeta comico si sente legittimato a lavare i panni sporchi in famiglia…gli agoni lenaici prevedevano all’inizio esclusivamente competizioni tra poeti comici. Le tragedie vi furono introdotte solo alcuni anni più tardi, e in scala ridotta rispetto a quanto avveniva alle Dionisie: al concorso erano ammessi solo due tragediografi, ciascuno con due tragedie, senza dramma satiresco. I grandi tragici del V secolo vi fecero rappresentare di rado i loro drammi…Le Dionisie rurali erano invece feste organizzate dai demi a dicembre, nel mese di Poseidone, ma non dappertutto nella medesima data: gli appassionati di teatro ne approfittavano, come ci riferisce Patone (Resp. 5, 475d), per assistere in più demi a spettacoli diversi. La celebrazione del culto di Dioniso qui aveva il suo momento più importante nella falloforia, una processione con la quale si chiedeva al dio la fertilità dei campi”[11].

Si tratta comunque di arte per il popolo e di contenuto fondamentalmente religioso. "Il dramma perfetto è la messa", ebbe infatti a scrivere Eliot, non ricordo dove.
Posso invece citare Richard Wagner: “L’opera d’arte, lirica e drammatica, era un atto religioso vero e proprio; e in quest’atto, paragonato alla semplicità delle cerimonie religiose primitive, già s’affacciava il desiderio di rappresentare collettivamente e deliberatamente il ricordo comune…La tragedia fu dunque il trasformarsi di una cerimonia religiosa in opera d’arte”[12].
Quindi Thomas Mann: “io credo che l’aspirazione segreta, l’estrema ambizione di ogni teatro sia il rito, da cui esso è del resto derivato presso pagani e cristiani. Arte teatrale è già per se stessa arte barocca, cattolicesimo, Chiesa: e un artista che, come Wagner, era abituato a maneggiare simboli e ad innalzare ostensori, doveva finire per sentirsi fratello del sacerdote, sacerdote egli stesso”[13].

Aggiungo Jacob Burckhardt: “ il dramma greco non era sorto come divertimento e passatempo…bensì quale parte di un importantissimo culto della polis. Non era una risorsa, e neppure uno svago per una élite di “intellettuali” e di annoiati, ma un altissimo interesse di tutta la cittadinanza in festa”[14].

Leopardi svaluta il dramma
Opposta è l’opinione di G. Leopardi il quale sostiene che il genere drammatico, rispetto alla poesia lirica e a quella epica, “è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più ch per la essenza sua… Il dramma non è proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e dell'ozio, un trovato di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a procacciare sollazzo a se e agli altri, e onor sociale e utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera nepote" (Zibaldone, 4235 - 4236).
Ancora: “Essa[15] è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, né le danno natura poetica. Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentim. Suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere una passione, un caratt. Ch’ei non ha (cosa necess. al drammat.) è cosa alienis. Dal poeta…Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona d’altrui, d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico” (4357).
E più avanti: “Il romanzo, la novella ec. sono all’uomo di genio assai meno alieni che il dramma, il quale gli è più alieno di tutti i generi di letteratura, perché è quello che esige la maggior prossimità d’imitazione, la maggior trasformazione dell’autore in altri individui, la più intera rinunzia e il più intero spoglio della propria individualità, alla quale l’uomo di genio tiene più fortemente che alcun altro” (4367).
La stessa cultura ateniese viene considerata manchevole poiché non ci furono poeti lirici ateniesi.
Io dico perché la letteratura ateniese fu politica, mentre la lirica è impolitica.
Ma sentiamo Leopardi: “Si dice con ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriam. poeti, ma come, al più, intermedii fra’ poeti e’ prosatori) fu Ateniese. Tanto la civiltà squisita è impoetica (22. sett. 1828). Però, chi dice che la lett. Gr. Fiorì principalm. In Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere che la poesia al contrario. Ec. (22. Sett. 1828) ”[16].
Sulla poesia lirica in una pagina precedente si legge: “Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare il vero poeta lirico, vale a dire l’uomo infiammato del più pazzo fuoco, l’uomo la cui anima è in totale disordine, l’uomo posto in uno stato di vigor febbrile, e straordinario (principalmente, anzi quasi indispensabilm. Corporale), e quasi di ubbriachezza? Pindaro ne può essere un esempio: ed anche alcuni lirici tedeschi ed inglesi abbandonati veram. Che di rado avviene, all’impeto di una viva fantasia e sentimento” (Zibaldone, 1856).

Eppure Leopardi sa che la grande arte ha la prospettiva di rivolgersi a un popolo intero, di educarlo: “Gli antichi greci e anche romani avevano le loro gare pubbliche letterarie, ed Erodoto scrisse la sua storia per leggerla al popolo. Questo era ben altro stimolo che quello di una piccola società tutta di persone coltissime e istruitissime dove l’effetto non può mai esser quello che fa il popolo, e per piacere ai critici si scrive: 1. con timore, cosa mortifera; 2. si cercano cose straordinarie, finezze, spirito, mille bagattelle. Il solo popolo ascoltatore può far nascere l’originalità la grandezza e la naturalezza della composizione”[17].
“Il Tragediografo attico scriveva per il popolo degli Ateniesi, al cui giudizio si sottometteva, in quanto partecipava all’agone, scriveva per una festa religiosa dello Stato e del popolo. Con ciò egli si rivolgeva allo stesso pubblico cui Pericle parlava nelle assemblee popolari…Non scriveva per un manipolo di raffinati conoscitori e neppure per una classe elevata colta. Era un uomo che parlava al proprio popolo, ai suoi concittadini; le sue opinioni, le sue credenze e i suoi sentimenti erano, a un dipresso, identici a quelli loro, anche se, per così dire, si trovavano in lui sopra un piano più alto…questo suo messaggio si rivolgeva ai viventi e non ai posteri…Se mai arte severa e grande appartenne al popolo e fu intesa, ammirata e amata dal popolo, questa fu la tragedia attica”[18].

Qualche cosa di simile scrive T. S. Eliot a proposito del teatro elisabettiano: “La struttura fornita ai drammaturghi elisabettiani non fu semplicemente il blank verse e il dramma in cinque atti e il palcoscenico elisabettiano; non fu semplicemente la trama, poiché i poeti incorporarono, rimodellarono, adattarono o inventarono, come le circostanze suggerivano. Fu anche l’u{lh per metà già formata, il “tono dell’epoca” (espressione insoddisfacente), una preparazione, un’abitudine da parte del pubblico a reagire a certi particolari stimoli”[19].

Del resto nello stesso Zibaldone, più avanti, Leopardi entra in contraddizione con quanto scritto a p. 1856.
“le arti che non possono esprimere passione, come l’architettura, sono tenute le infime fra le belle, e le meno dilettevoli. E la drammatica e la lirica son tenute fra le prime per la ragione (2362) contraria. Che vuol dir ciò? Non è dunque la sola verità dell’imitazione, né la sola bellezza e dei soggetti e di essa, che l’uomo desidera, ma la forza, l’energia, che lo metta in attività, e lo faccia sentire gagliardamente”.


Sentiamo anche Ortega y Gasset: “Ed è interessante ricordare…che la pagliacciata, combinata a un rito religioso…è in tutti i popoli all’origine del teatro”[20].

All'inizio nel dramma dovette essere di gran lunga preponderante la parte corale[21], poi, da Eschilo in avanti, questa si restrinse. Aristotele ricorda che Eschilo portò il numero degli attori da uno a due, ridusse la parte del coro, e rese protagonista la parola (kai; ta; tou' corou' hjlavttwse kai; to; n lovgon prwtagwnistei'n pareskeuvasen, Poetica, 1449a, 15 - 18).
Infatti il dramma greco rispetto al melodramma moderno è logocentrico.
Con lovgo~ intendo più la parola parlata che quella scritta: “Il mondo greco era anzitutto il mondo della parola parlata”[22].

Ad Atene i drammi venivano rappresentati nel teatro di Dioniso situato sulle pendici meridionali dell'acropoli.
 In origine era di legno, poi subì diversi sviluppi e cambiamenti, fino all'epoca dell'impero romano, quando vi si svolgevano combattimenti di gladiatori e forse anche naumachie. Meglio conservato e di struttura più unitaria è quello di Epidauro, creazione[23] di un singolo architetto: Policleto il giovane.
In ogni modo il teatro[24] era senza tetto e constava di tre parti: la prima era la càvea (koi'lon), la gradinata dove sedeva il pubblico; la seconda l'orchestra circolare, il luogo centrale sul quale danzava il coro, dove sorgeva l'altare di Dioniso e si trovava una piattaforma (logei'on), forse leggermente elevata: questa era il palcoscenico sul quale recitavano gli attori e stava nella parte dell'orchestra più lontana dagli spettatori; infine, di seguito, si trovava la scena, in origine una tenda (skhnhv) che consentiva ai personaggi di cambiarsi il costume senza essere visti dal pubblico, poi divenne l'edificio di sfondo, un palazzo reale, un tempio, con una o più entrate, e due ali sporgenti (paraskhvnia), oppure una caverna. L'attore, abbiamo detto, recitava davanti alla scena, ma in certi casi appariva sul suo culmine o, impersonando un dio, su un un tetto mobile (qeologei'on), o anche sospeso in aria da una specie di gru (mhcanhv), e in tal caso era il deus ex machina.
“Dove agivano gli attori? Era riservato loro uno spazio distinto da quello del coro? Una testimonianza di Vitruvio (V 7, 2) riferisce che essi recitavano su di un logheion, una scena rialzata di alcuni metri rispetto alla sottostante orchestra ove stazionava il coro. La creazione di questa struttura, con una conseguente rigida spartizione degli spazi, è un prodotto dell’età ellenistica: essa interessò certamente anche il teatro di Dioniso, ma non prima del III sec. a. C.
 Le tragedie che noi leggiamo ci documentano invece, in più di un caso, una stretta interazione tra coro e attori: le Supplici di Eschilo ci mostrano l’araldo egizio che aggredisce le Danaidi e tenta di trascinarle via con la forza da Argo; e nell’Edipo a Colono il coro cerca di contrastare fisicamente il tentativo di Creonte di rapire Antigone. Le stesse commedie di Aristofane, del resto, e ancor più il dramma satiresco - che, non dimentichiamolo, venivano rappresentati nello stesso teatro di Dioniso - presuppongono la prossimità di attori e coro. E’ evidente dunque che nel teatro del V sec. a. C. non poteva esservi una netta separazione tra orchestra e logheion, o almeno non poteva esservi un proscenio così alto come quello di cui parla Vitruvio…L’ipotesi che riscuote maggiori consensi è che nel V secolo un logheion rialzato esistesse realmente, ma che la sua altezza fosse tale da consentire facilmente, qualora la dinamica scenica lo prevedesse, un avvicinamento e quasi un contatto tra coreuti e attori”[25].

“Tra le convenzioni del teatro greci rientra anche l’uso di macchine…Il più celebre di questi strumenti è senza dubbio la macchina del volo (mhcanhv o anche gevrano~= “gru”) : un congegno fissato al suolo su un basamento al margine dell’orchestra, dotato di un lungo braccio mobile azionato per mezzo di funi e carrucole, alla cui estremità doveva essere agganciata una bardatura che serviva ad imbragare l’attore destinato ad essere sollevato in alto…della mhcanhv si fa uso nel Prometeo[26], ove Oceano compare in groppa ad un fantastico essere alato…Della mechané Euripide si avvalse spesso per l’apparizione improvvisa e miracolosa di una divinità che interviene dall’alto a risolvere un conflitto drammatico altrimenti inestricabile. Una soluzione certamente sorprendente e di facile presa spettacolare, come dimostra il fatto che l’espressione qeo; ~ ajpo; th`~ mhcanh`~ (=deus ex machina) divenne proverbiale: la prima attestazione è in Platone (Crat. 425d; Clitoph. 407a), e con ironia il comico Antifane[27] osserva che ai poeti tragici, quando essi non sanno più come sviluppare l’azione, basta alzare la gru così come si alza un dito, ed ecco che ogni loro problema è risolto (fr. 189 K. - A) ”[28].

Un'altra macchina, utile a mostrare simbolicamente scene d'interno o a trasportare personaggi era l' ejkkuvklhma, un carrello basso su ruote, spinto fuori attraverso l'apertura centrale della skhnhv.
 Questa, tornando ad Aristotele, fu resa più ricca e varia da Sofocle che introdusse la scenografia e il terzo attore (Poetica, 1449a, 19).
Gli attori erano tutti maschi; ciascuno usava una maschera (provswpon, cfr. lat persona[29]) e poteva interpretare più parti in una stessa tragedia.
“Il medesimo attore interpretava nelle Baccanti i personaggi di Penteo e di Agave, con un sinistro effetto di ironia tragica, se si pensa al finale del dramma e alla possibilità che nella voce della madre che celebra il suo folle trionfo gli spettatori riconoscessero, al di là delle variazioni messe in atto dall’interprete, la medesima voce del figlio da lei dilaniato…nelle Baccanti un attore impersonava Dioniso e Tiresia, un altro Penteo e Agave, un altro ancora Cadmo, il servo e il primo Messaggero, mentre resta dubbia l’attribuzione del ruolo del secondo Messaggero ”[30].


[1] Definito da Archiloco: "il bel canto di Dioniso signore" fr. 120 West.
[2] Da kwvmh - h~.
[3] M. Cacciari, Hamletica, P. 14.
[4] Hamletica, p. 100.
[5] Ortega Y Gasset, Idea del teatro, p. 88. Ortega rimanda al v. 44 della Teogonia: “qew'n gevno~ aijdoi'on” che io tradurrei piuttosto “stirpe veneranda degli dèi.
[6] Lanza, Dimenticare i Greci, in I Greci Storia Cultura Arte Società, vol. 3, I Greci oltre la Grecia, p. 1455, Einaudi, Torino, 2001.
[7] M. Di Marco, La tragedia greca, p. 26.
[8] Di Marco, Op. cit., p. 41
[9] Di Marco, Op. cit., p. 41
[10] Di Marco, Op. cit., pp. 41 - 42.
[11] Di Marco, Op. cit., p. 43
[12] R. Wagner, L’opera d’arte dell’avvenire (del 1849), p. 252.
[13] Dolore e grandezza di Wagner in Nobiltà dello spirito e altri saggi, Meridiani Mondatori, p. 1023
[14] J. Burckhardt, Storia della civiltà greca (pubblicato nel 1898 da lezioni tenute tra il 1872 e il 1875), 1, p. 1139.
[15] La poesia drammatica.
[16] Zibaldone, p. 4389.
[17] Leopardi, Zibaldone, 145 - 146.
[18] V. Ehrenberg, Sofocle e Pericle, p. 19.
[19] T. S. Eliot, Il bosco sacro, p. 85.
[20] J. Ortega y Gasset, Idea del teatro, p. 55.
[21] “Il coro originariamente è tutto”, J. Burckhardt, Storia della civiltà greca, 1, p. 1140.
[22] M. Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, p. 18.
[23] 350 a. C. ca.
[24] Etimologicamente è “il luogo da dove si guarda”.
[25] Di Marco, Op. cit., pp. 57 - 58
[26] Il Prometeo incatenato (molto probabilmente) di Eschilo: ne parleremo estesamente più avanti. Ndr.
[27] Autore della cosiddetta “commedia di mezzo” che presentava spesso parodie mitologiche, utilizzando spesso episodi di tragedia di Euripide, come testimoniano alcuni titoli di Antifane: Medea, Baccanti, Elena. Ndr.
[28] Di Marco, Op. cit., p. 62.
[29] “Un’opinione accreditata e diffusa vuole inoltre che il nome latino di “maschera” (persona) non sia che il greco provswpon passato ai Romani attraverso l’etrusco (donde la diversità delle due forme) ”. Prefazione di C. Questa a Plauto Anfitrione, p. 14.
[30] Di Marco, Op. cit p. 85 e p. 88

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