Dioniso |
Di nuovo Aristotele
Tragedia e commedia
nacquero da un principio di improvvisazione (ajp j ajrch'~ aujtoscediastikh'~, Poetica,
1449a, 10), ma la tragedia da coloro che guidavano il ditirambo: "ajpo; tw'n ejxarcovntwn
to; n diquvrambon”[1],
mentre la commedia da quelli che
dirigevano i canti fallici i quali rimangono ancora oggi in uso in molte
città" (Poetica, 1449a, 12).
L'origine del dramma sarebbe dunque da
collegarsi al culto dionisiaco e ai connessi riti della fertilità.
Per quanto riguarda
la regione di origine del dramma e il popolo che l’ha inventato, Aristotele ci
informa che i Dori rivendicano la tragedia e la commedia etimologizzandone i
nomi: “poiuvmenoi
ta; ojnovmata shmei`on “ (1447b),
poiché considerano i nomi un segno. Essi infatti affermano di chiamare i
sobborghi kwvma~[2],
mentre gli Ateniesi li chiamano dhvmou~, e sostengono che i commedianti (kwmw/douj~) sono così chiamati oujk ajpo; tou` kwmavzein, non dal
fare baldoria ajlla; th`/ kata; kwvma~ plavnh/, ma per il loro vagare per i sobborghi, in quanto
disdegnati dal centro delle città. Inoltre affermano che per “fare” loro dicono
dra`n, mentre gli Ateniesi pravttein. Ebbene dra`n è “il verbo tragico per eccellenza, l’agire che
decide, risoluto fino alla fine, compimento felice o naufragio che sia”[3]. Ancora: il “fare” richiede la categoria della
politica. Il dramma antico è dramma politico. Di nuovo Cacciari: “La
‘conversazione’ beckettiana, come certi dialoghi dell’Ulysses, non mette in scena una perdita, ma un’inessenzialità
radicale: l’uomo non è ‘animale politico’. Allora, certamente, ogni drama diviene impossibile a priori, poiché
è possibile fare soltanto per
quell’esserci che è nella sua essenza inter - esse”[4].
Dioniso
I riti della
fertilità dicevamo. Questi celebrano la nascita, la vita, la morte e la
resurrezione. Dioniso impersona tutte le fasi dell’alterna vicenda: “ Dioniso è
un dio universale - dio della vita, di ogni rinascita primaverile in piante, animali
e uomini, ma anche dio dei morti. Dio gentile, delizioso, piacevole e
sorridente; dio terribile, distruttore, feroce massacratore. Dio buono e dio
cattivo. Ogni dio antico ha in germe queste due facce…Dioniso è entrambe le
cose al massimo grado: è delizia e terrore… In Dioniso si manifesta più
chiaramente che in tutte le altre divinità ciò che per i greci - e non solo per
i greci - è il tratto principale degli dèi: il loro essere inquietanti, il non
saper mai come reagiranno, il non sapere che cosa faranno. Per questo Esiodo
parla di “inquietante casta degli dèi”[5].
“Seppure possa
sembrare affascinante, la ricerca delle origini… non è poi problema tanto
rilevante… non sono le origini, ma la tragedia quale si è storicamente
configurata a condizionare la nostra sensibilità teatrale”[6].
Le rappresentazioni ad Atene
Le rappresentazioni ad Atene avvenivano
principalmente durante le Grandi Dionisie, le quali, istituite tra il 535 e il
533 da Pisistrato, si tenevano all'inizio della primavera, tra marzo e aprile, quando,
per una settimana circa, si svolgevano processioni, cortei e riti in onore di
Bacco, si cantavano a gara ditirambi da parte di cori maschili e femminili, si
facevano banchetti e scatenate baldorie che incrementavano le nascite, e
finalmente si assisteva agli agoni tragici e comici: per tre giorni, tre
drammaturghi scelti dall’arconte eponimo tra i concorrenti presentavano tre
tragedie nuove e un dramma satiresco, mentre il quarto giorno era quello delle
cinque commedie, una per ciascuno degli autori ammessi.
“ Almeno nell’età di
Eschilo, Sofocle ed Euripide, il dramma satiresco concludeva, a mo’ di
appendice alle tragedie, la tetralogia che ciascun tragediografo portava in
scena alle Grandi Dionisie.
Il dramma satiresco
proponeva al pubblico un episodio del mito, ma riservando ad esso un
trattamento in chiave burlesca. Si badi bene però: nulla che lo assimilasse
alla commedia. Il dramma satiresco era piuttosto un “sottogenere” del più
nobile genere tragico, come indicano i molteplici e sostanziali punti di
contatto tra le due forme di spettacolo: medesimo autore, medesima occasione
della performance, medesimi attori e
medesimi coreuti, medesima morfologia strutturale (articolazione in prologo, parodo,
episodi, stasimi, esodo), introduzione sulla scena dei medesimi personaggi. Questi
ultimi sono ovviamente gli eroi del mito; e tuttavia l’atmosfera in cui sono
immersi, pur ricalcando il soggetto scenico le linee del racconto tradizionale,
è assolutamente surreale: ché accanto ad essi imperversa regolarmente - come
elemento imprescindibile del genere - un coro di satiri guidati dal loro padre
- tutore, il vecchio Sileno. Esseri semiferini, cinti di una pelle di cuoio, con
fallo eretto, coda e orecchie equine, maschera con barba e naso camuso…li
vediamo all’opera come araldi, atleti, cuochi, nutrici di Dioniso, marinai, carpentieri,
pastori ecc. Incapaci e vili, rozzi e brutali per un verso, ingenui e puerili
per un altro, totalmente estranei alle istituzioni e alle convenzioni della
polis e del consorzio civile, essi si trovano a cooperare (spesso contro un
mostro o un “nemico” di cui sono schiavi e da cui dovranno essere liberati) con
personaggi di forte tempra e di fiera dignità eroica, determinando con i loro
facili entusiasmi e la loro imperizia, ostacoli, sorprese, situazioni di
imprevista comicità. La magra messe di testi di cui disponiamo - appena un
dramma completo, il Ciclope di
Euripide, circa metà dei Cercatori di
orme di Sofocle e poi frammenti più o meno estesi, tra cui si distinguono
per ampiezza e vis inventiva
soprattutto quelli eschilei - induce a credere che, a paragone delle tragedie, il
dramma satiresco presentasse di norma un intreccio estremamente semplificato, il
quale non aveva altra funzione se non quella di creare un pretesto al gioco
lieve e scanzonato di Sileno e del coro: di qui anche un’estensione che, in
media, doveva essere comparativamente molto più breve di quella di una tragedia.
Come a compensare l’esilità della trama e lo scarso spessore psicologico dei
protagonisti, un rilievo proporzionalmente assai maggiore era assegnato ad
altri elementi di più facile presa spettacolare: ad esempio la danza, con
frequenti sezioni liriche strofiche che dovevano assecondare l’esecuzione di
movimenti orchestici particolarmente vivaci; o una gestualità fortemente
connotata sotto il profilo mimico e dunque ben lontana dalla rigida compostezza
cui era vincolata la scena tragica; o il ricorso al teratodes (il “meraviglioso”), con l’introduzione di creature
mostruose, metamorfosi, camuffamenti animaleschi, apparizioni inattese”[7].
Una giuria di dieci
membri estratti a sorte, uno per tribù, attribuiva i premi.
“Al termine delle
rappresentazioni ogni giurato scriveva le proprie preferenze su una tavoletta; tra
le dieci tavolette raccolte ne venivano sorteggiate cinque, ed era sulla base
di queste cinque che veniva compilata la classifica finale. Ci si è chiesti se
i giudici fossero davvero ligi al giuramento di imparzialità che erano
obbligati a prestare. Il pubblico che sedeva a teatro partecipava agli
spettacoli con grande vivacità, ed è naturale supporre che le rumorose reazioni
di consenso o di riprovazione con cui accompagnava la rappresentazione delle
opere incidessero sulle scelte dei giurati…Platone - ma siamo già nel IV secolo
inoltrato - protesta energicamente contro i condizionamenti imposti dalle
claques (Leg. 2, 659 a - b) ” [8].
Leggiamone solo
alcune parole: “A teatro il vero giudice non deve imparare a giudicare
spaventato dallo strepito dei più e dalla propria ignoranza, ” (659a)
“Altrove, alludendo
ancora ai fischi, agli applausi e alle urla scomposte del pubblico, il filosofo
parla di “teatrocrazia” (Leg. 3, 700c)
”[9].
“Ad episodi di
corruzione accennano gli oratori del IV secolo, ma in generale non abbiamo
motivo di dubitare dell’onestà dei giurati. Allo stesso modo occorre
riconoscere alle giurie stesse…un’apprezzabile capacità di giudizio estetico. Lo
prova il fatto che sia Eschilo che Sofocle vinsero in più della metà degli
agoni cui parteciparono; per Euripide il discorso è più complesso: lo scarso
numero di vittorie riportate da un lato riflette una reale difficoltà del
pubblico ateniese ad accettare le novità ideologiche, se non anche
drammaturgiche, del suo teatro, e dall’altro si spiega con la circostanza
tutt’altro che irrilevante che sin dagli inizi della sua carriera e fino alla
morte egli si trovò a rivaleggiare con un concorrente della statura di Sofocle.
Non manca peraltro qualche caso in cui il verdetto dei giudici ci appare
opinabile se non addirittura scandaloso: nelle Dionisie in cui fu presentato l’Edipo re, Sofocle giunse solo secondo, essendogli
stato preferito un autore di non eccelsa levatura quale Filocle. Eppure l’Edipo re - non solo a giudizio della
critica moderna, ma già nella valutazione di un autorevole e indiscusso
conoscitore della tragedia greca come Aristotele - è un capolavoro di rilievo
assoluto. Restano oscure le ragioni della scelta dei giurati. Si può solo
supporre - e ciò richiama la nostra attenzione sull’ottica parziale con cui
guardiamo al teatro antico - che essi abbiano tenuto conto non solo
dell’intreccio, ma anche della musica, della danza, della recitazione, dei
costumi, degli effetti visivi, e che il loro voto abbia riguardato, come del
resto era prassi negli agoni, non le singole tragedie, ma le tetralogie nel
loro insieme”[10].
Erano meno
importanti i festival invernali: quello delle Lenee (gennaio - febbraio), dedicato
soprattutto alla commedia, e quello delle Dionisie rurali (dicembre - gennaio),
ma gli appassionati non se li lasciavano sfuggire, e, come se avessero dato a
nolo le orecchie (w{sper de; ajpomemisqwkovte~ ta; w\ta), li denigra Platone, “corrono in giro ad
ascoltare tutti i cori senza mancare alle Dionisie, né a quelle urbane, né alle
rurali" (Repubblica, 475d).
Platone nella stessa
Repubblica biasima Omero ed Eschilo
poiché attribuiscono menzogne agli dèi mentre il divino è pavnth/ ajyeudev~ (382e), assolutamente incapace di mentire. Viene
ricordato il sogno ingannevole inviato da Zeus ad Agamennone nel secondo canto
dell’Iliade e un frammento di Eschilo
dove Teti biasima l’inganno di Apollo che aveva predetto felicità alle sue
nozze poi le aveva ucciso il figliolo. Dunque sentendo cose simili sugli dèi: “calepanou`mevn te kai; coro;
n ouj dwvsomen” (383c), noi ci
sdegneremo e non concederemo un coro.
“Le Lenee, cioè la
festa di Dioniso Leneo (da lh`nai=
“menadi” piuttosto che da lhnov~=
“torchio”, come si riteneva un tempo, allorché si collegava la festa ai riti
della vendemmia) si celebravano nel mese di Gamelione (gennaio - febbraio) e, dato
il periodo poco propizio alla navigazione, avevano una dimensione prettamente
locale: vi partecipavano soltanto, o quasi, gli abitanti dell’Attica. “L’agone
è quello lenaico, e siamo tra noi” fa dire Aristofane a Diceopoli, protagonista
degli Acarnesi, rappresentati appunto
alle Lenee, per giustificare le critiche che intende muovere al demagogo Cleone
(vv. 504 ss.) : assenti gli stranieri e gli alleati, il poeta comico si sente
legittimato a lavare i panni sporchi in famiglia…gli agoni lenaici prevedevano
all’inizio esclusivamente competizioni tra poeti comici. Le tragedie vi furono
introdotte solo alcuni anni più tardi, e in scala ridotta rispetto a quanto
avveniva alle Dionisie: al concorso erano ammessi solo due tragediografi, ciascuno
con due tragedie, senza dramma satiresco. I grandi tragici del V secolo vi
fecero rappresentare di rado i loro drammi…Le Dionisie rurali erano invece
feste organizzate dai demi a dicembre, nel mese di Poseidone, ma non
dappertutto nella medesima data: gli appassionati di teatro ne approfittavano, come
ci riferisce Patone (Resp. 5, 475d), per
assistere in più demi a spettacoli diversi. La celebrazione del culto di
Dioniso qui aveva il suo momento più importante nella falloforia, una
processione con la quale si chiedeva al dio la fertilità dei campi”[11].
Si tratta comunque
di arte per il popolo e di contenuto fondamentalmente religioso. "Il
dramma perfetto è la messa", ebbe infatti a scrivere Eliot, non ricordo
dove.
Posso invece citare Richard
Wagner: “L’opera d’arte, lirica e drammatica, era un atto religioso vero e proprio; e in quest’atto, paragonato alla
semplicità delle cerimonie religiose primitive, già s’affacciava il desiderio
di rappresentare collettivamente e deliberatamente il ricordo comune…La
tragedia fu dunque il trasformarsi di una cerimonia religiosa in opera d’arte”[12].
Quindi Thomas Mann: “io
credo che l’aspirazione segreta, l’estrema ambizione di ogni teatro sia il rito,
da cui esso è del resto derivato presso pagani e cristiani. Arte teatrale è già
per se stessa arte barocca, cattolicesimo, Chiesa: e un artista che, come
Wagner, era abituato a maneggiare simboli e ad innalzare ostensori, doveva
finire per sentirsi fratello del sacerdote, sacerdote egli stesso”[13].
Aggiungo Jacob
Burckhardt: “ il dramma greco non era sorto come divertimento e passatempo…bensì
quale parte di un importantissimo culto della polis. Non era una risorsa, e neppure uno svago per una élite di “intellettuali” e di annoiati, ma
un altissimo interesse di tutta la cittadinanza in festa”[14].
Leopardi svaluta il dramma
Opposta è l’opinione
di G. Leopardi il quale sostiene che il genere drammatico, rispetto alla poesia
lirica e a quella epica, “è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso
non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà, non della natura;
poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più ch per la essenza
sua… Il dramma non è proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un
figlio della civiltà e dell'ozio, un trovato di persone oziose, che vogliono
passare il tempo, in somma un trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e
tanti altri, nel seno della civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla
natura, ma diretto a procacciare sollazzo a se e agli altri, e onor sociale e
utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto
della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e
l'epica, che è sua vera nepote" (Zibaldone,
4235 - 4236).
Ancora: “Essa[15]
è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, né le danno natura
poetica. Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentim. Suo proprio, non dagli
altrui. Il fingere di avere una passione, un caratt. Ch’ei non ha (cosa necess.
al drammat.) è cosa alienis. Dal poeta…Quanto più un uomo è di genio, quanto
più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più
sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona d’altrui, d’imitare,
tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto
meno drammatico” (4357).
E più avanti: “Il
romanzo, la novella ec. sono all’uomo di genio assai meno alieni che il dramma,
il quale gli è più alieno di tutti i generi di letteratura, perché è quello che
esige la maggior prossimità d’imitazione, la maggior trasformazione dell’autore
in altri individui, la più intera rinunzia e il più intero spoglio della
propria individualità, alla quale l’uomo di genio tiene più fortemente che
alcun altro” (4367).
La stessa cultura
ateniese viene considerata manchevole poiché non ci furono poeti lirici ateniesi.
Io dico perché la
letteratura ateniese fu politica, mentre la lirica è impolitica.
Ma sentiamo Leopardi:
“Si dice con ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non
so se alcuno abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi,
che io mi ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non
considero come propriam. poeti, ma come, al più, intermedii fra’ poeti e’
prosatori) fu Ateniese. Tanto la civiltà squisita è impoetica (22. sett. 1828).
Però, chi dice che la lett. Gr. Fiorì principalm. In Atene, dee distinguere, se
vuol parlar vero, ed aggiungere che la poesia al contrario. Ec. (22. Sett. 1828)
”[16].
Sulla poesia lirica
in una pagina precedente si legge: “Chi non sa quali altissime verità sia capace
di scoprire e manifestare il vero poeta lirico, vale a dire l’uomo infiammato
del più pazzo fuoco, l’uomo la cui anima è in totale disordine, l’uomo posto in
uno stato di vigor febbrile, e straordinario (principalmente, anzi quasi
indispensabilm. Corporale), e quasi di ubbriachezza? Pindaro ne può essere un
esempio: ed anche alcuni lirici tedeschi ed inglesi abbandonati veram. Che di
rado avviene, all’impeto di una viva fantasia e sentimento” (Zibaldone, 1856).
Eppure
Leopardi sa che la grande arte ha la prospettiva di rivolgersi a un popolo
intero, di educarlo: “Gli antichi greci e anche romani avevano le loro gare
pubbliche letterarie, ed Erodoto scrisse la sua storia per leggerla al popolo. Questo
era ben altro stimolo che quello di una piccola società tutta di persone
coltissime e istruitissime dove l’effetto non può mai esser quello che fa il
popolo, e per piacere ai critici si scrive: 1. con timore, cosa mortifera; 2. si
cercano cose straordinarie, finezze, spirito, mille bagattelle. Il solo popolo
ascoltatore può far nascere l’originalità la grandezza e la naturalezza della
composizione”[17].
“Il
Tragediografo attico scriveva per il popolo degli Ateniesi, al cui giudizio si
sottometteva, in quanto partecipava all’agone, scriveva per una festa religiosa
dello Stato e del popolo. Con ciò egli si rivolgeva allo stesso pubblico cui
Pericle parlava nelle assemblee popolari…Non scriveva per un manipolo di
raffinati conoscitori e neppure per una classe elevata colta. Era un uomo che
parlava al proprio popolo, ai suoi concittadini; le sue opinioni, le sue
credenze e i suoi sentimenti erano, a un dipresso, identici a quelli loro, anche
se, per così dire, si trovavano in lui sopra un piano più alto…questo suo
messaggio si rivolgeva ai viventi e non ai posteri…Se mai arte severa e grande
appartenne al popolo e fu intesa, ammirata e amata dal popolo, questa fu la
tragedia attica”[18].
Qualche
cosa di simile scrive T. S. Eliot a proposito del teatro elisabettiano: “La struttura fornita ai drammaturghi
elisabettiani non fu semplicemente il blank
verse e il dramma in cinque atti e il palcoscenico elisabettiano; non fu
semplicemente la trama, poiché i poeti incorporarono, rimodellarono, adattarono
o inventarono, come le circostanze suggerivano. Fu anche l’u{lh per
metà già formata, il “tono dell’epoca” (espressione insoddisfacente), una
preparazione, un’abitudine da parte del pubblico a reagire a certi particolari
stimoli”[19].
Del
resto nello stesso Zibaldone, più
avanti, Leopardi entra in contraddizione con quanto scritto a p. 1856.
“le
arti che non possono esprimere passione, come l’architettura, sono tenute le
infime fra le belle, e le meno dilettevoli. E la drammatica e la lirica son
tenute fra le prime per la ragione (2362) contraria. Che vuol dir ciò? Non è
dunque la sola verità dell’imitazione, né la sola bellezza e dei soggetti e di
essa, che l’uomo desidera, ma la forza, l’energia, che lo metta in attività, e
lo faccia sentire gagliardamente”.
Sentiamo anche Ortega
y Gasset: “Ed è interessante ricordare…che la pagliacciata, combinata a un rito
religioso…è in tutti i popoli all’origine del teatro”[20].
All'inizio nel
dramma dovette essere di gran lunga preponderante la parte corale[21],
poi, da Eschilo in avanti, questa si restrinse. Aristotele ricorda che Eschilo
portò il numero degli attori da uno a due, ridusse la parte del coro, e rese
protagonista la parola (kai; ta; tou' corou' hjlavttwse kai; to; n lovgon
prwtagwnistei'n pareskeuvasen, Poetica, 1449a, 15 - 18).
Infatti il dramma
greco rispetto al melodramma moderno è logocentrico.
Con lovgo~ intendo più la parola parlata che quella
scritta: “Il mondo greco era anzitutto il mondo della parola parlata”[22].
Ad Atene i drammi
venivano rappresentati nel teatro di Dioniso situato sulle pendici meridionali
dell'acropoli.
In origine era di legno, poi subì diversi
sviluppi e cambiamenti, fino all'epoca dell'impero romano, quando vi si
svolgevano combattimenti di gladiatori e forse anche naumachie. Meglio
conservato e di struttura più unitaria è quello di Epidauro, creazione[23]
di un singolo architetto: Policleto il giovane.
In ogni modo il
teatro[24]
era senza tetto e constava di tre parti: la prima era la càvea (koi'lon), la gradinata dove sedeva il pubblico; la
seconda l'orchestra circolare, il luogo centrale sul quale danzava il coro, dove
sorgeva l'altare di Dioniso e si trovava una piattaforma (logei'on), forse leggermente elevata: questa era il
palcoscenico sul quale recitavano gli attori e stava nella parte dell'orchestra
più lontana dagli spettatori; infine, di seguito, si trovava la scena, in
origine una tenda (skhnhv) che consentiva ai personaggi di cambiarsi il costume senza essere visti
dal pubblico, poi divenne l'edificio di sfondo, un palazzo reale, un tempio, con
una o più entrate, e due ali sporgenti (paraskhvnia), oppure una caverna. L'attore, abbiamo detto, recitava davanti alla
scena, ma in certi casi appariva sul suo culmine o, impersonando un dio, su un
un tetto mobile (qeologei'on), o anche
sospeso in aria da una specie di gru (mhcanhv), e in tal caso era il deus ex
machina.
“Dove agivano gli
attori? Era riservato loro uno spazio distinto da quello del coro? Una
testimonianza di Vitruvio (V 7, 2) riferisce che essi recitavano su di un logheion, una scena rialzata di alcuni
metri rispetto alla sottostante orchestra ove stazionava il coro. La creazione
di questa struttura, con una conseguente rigida spartizione degli spazi, è un
prodotto dell’età ellenistica: essa interessò certamente anche il teatro di
Dioniso, ma non prima del III sec. a. C.
Le tragedie che noi leggiamo ci documentano
invece, in più di un caso, una stretta interazione tra coro e attori: le Supplici di Eschilo ci mostrano l’araldo
egizio che aggredisce le Danaidi e tenta di trascinarle via con la forza da
Argo; e nell’Edipo a Colono il coro
cerca di contrastare fisicamente il tentativo di Creonte di rapire Antigone. Le
stesse commedie di Aristofane, del resto, e ancor più il dramma satiresco - che,
non dimentichiamolo, venivano rappresentati nello stesso teatro di Dioniso - presuppongono
la prossimità di attori e coro. E’ evidente dunque che nel teatro del V sec. a.
C. non poteva esservi una netta separazione tra orchestra e logheion, o almeno non poteva esservi un
proscenio così alto come quello di cui parla Vitruvio…L’ipotesi che riscuote
maggiori consensi è che nel V secolo un logheion rialzato esistesse realmente, ma
che la sua altezza fosse tale da consentire facilmente, qualora la dinamica
scenica lo prevedesse, un avvicinamento e quasi un contatto tra coreuti e
attori”[25].
“Tra le convenzioni
del teatro greci rientra anche l’uso di macchine…Il più celebre di questi
strumenti è senza dubbio la macchina del volo (mhcanhv o anche gevrano~= “gru”) : un
congegno fissato al suolo su un basamento al margine dell’orchestra, dotato di
un lungo braccio mobile azionato per mezzo di funi e carrucole, alla cui
estremità doveva essere agganciata una bardatura che serviva ad imbragare
l’attore destinato ad essere sollevato in alto…della mhcanhv si fa uso nel Prometeo[26],
ove Oceano compare in groppa ad un fantastico essere alato…Della mechané Euripide si avvalse spesso per
l’apparizione improvvisa e miracolosa di una divinità che interviene dall’alto
a risolvere un conflitto drammatico altrimenti inestricabile. Una soluzione
certamente sorprendente e di facile presa spettacolare, come dimostra il fatto
che l’espressione qeo; ~ ajpo; th`~ mhcanh`~ (=deus ex machina) divenne proverbiale: la prima attestazione è
in Platone (Crat. 425d; Clitoph. 407a), e con ironia il comico
Antifane[27]
osserva che ai poeti tragici, quando essi non sanno più come sviluppare
l’azione, basta alzare la gru così come si alza un dito, ed ecco che ogni loro
problema è risolto (fr. 189 K. - A) ”[28].
Un'altra macchina, utile
a mostrare simbolicamente scene d'interno o a trasportare personaggi era l' ejkkuvklhma, un carrello basso su ruote, spinto fuori
attraverso l'apertura centrale della skhnhv.
Questa, tornando ad Aristotele, fu resa più
ricca e varia da Sofocle che introdusse la scenografia e il terzo attore (Poetica, 1449a, 19).
Gli attori erano
tutti maschi; ciascuno usava una maschera (provswpon, cfr. lat persona[29])
e poteva interpretare più parti in una stessa tragedia.
“Il medesimo attore
interpretava nelle Baccanti i
personaggi di Penteo e di Agave, con un sinistro effetto di ironia tragica, se
si pensa al finale del dramma e alla possibilità che nella voce della madre che
celebra il suo folle trionfo gli spettatori riconoscessero, al di là delle
variazioni messe in atto dall’interprete, la medesima voce del figlio da lei
dilaniato…nelle Baccanti un attore
impersonava Dioniso e Tiresia, un altro Penteo e Agave, un altro ancora Cadmo, il
servo e il primo Messaggero, mentre resta dubbia l’attribuzione del ruolo del
secondo Messaggero ”[30].
[1]
Definito da Archiloco: "il bel canto di Dioniso signore" fr. 120
West.
[2]
Da kwvmh - h~.
[3]
M. Cacciari, Hamletica, P. 14.
[4]
Hamletica, p. 100.
[5]
Ortega Y Gasset, Idea del teatro, p.
88. Ortega rimanda al v. 44 della Teogonia: “qew'n
gevno~ aijdoi'on” che io tradurrei piuttosto “stirpe veneranda degli
dèi.
[6]
Lanza, Dimenticare i Greci, in I
Greci Storia Cultura Arte Società, vol. 3, I Greci oltre la Grecia, p. 1455,
Einaudi, Torino, 2001.
[7]
M. Di Marco, La tragedia greca, p.
26.
[8]
Di Marco, Op. cit., p. 41
[9]
Di Marco, Op. cit., p. 41
[10]
Di Marco, Op. cit., pp. 41 - 42.
[11]
Di Marco, Op. cit., p. 43
[12]
R. Wagner, L’opera d’arte dell’avvenire
(del 1849), p. 252.
[13]
Dolore e grandezza di Wagner in Nobiltà dello spirito e altri saggi, Meridiani
Mondatori, p. 1023
[14]
J. Burckhardt, Storia della civiltà greca
(pubblicato nel 1898 da lezioni tenute tra il 1872 e il 1875), 1, p. 1139.
[15]
La poesia drammatica.
[16] Zibaldone, p. 4389.
[17]
Leopardi, Zibaldone, 145 - 146.
[18]
V. Ehrenberg, Sofocle e Pericle, p. 19.
[19]
T. S. Eliot, Il bosco sacro, p. 85.
[20]
J. Ortega y Gasset, Idea del teatro,
p. 55.
[21]
“Il coro originariamente è tutto”, J. Burckhardt, Storia della civiltà greca, 1, p. 1140.
[22]
M. Finley, La democrazia degli antichi e
dei moderni, p. 18.
[23]
350 a. C. ca.
[24]
Etimologicamente è “il luogo da dove si guarda”.
[25]
Di Marco, Op. cit., pp. 57 - 58
[26]
Il Prometeo incatenato (molto
probabilmente) di Eschilo: ne parleremo estesamente più avanti. Ndr.
[27]
Autore della cosiddetta “commedia di mezzo” che presentava spesso parodie
mitologiche, utilizzando spesso episodi di tragedia di Euripide, come
testimoniano alcuni titoli di Antifane: Medea,
Baccanti, Elena. Ndr.
[28]
Di Marco, Op. cit., p. 62.
[29]
“Un’opinione accreditata e diffusa vuole inoltre che il nome latino di “maschera”
(persona) non sia che il greco provswpon passato ai Romani attraverso
l’etrusco (donde la diversità delle due forme) ”. Prefazione di C. Questa a Plauto Anfitrione, p. 14.
[30]
Di Marco, Op. cit p. 85 e p. 88
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