Il Teatro di Taormina |
Sommario
La mimesi.
Differenza tra storia e poesia.
Polibio ripete formule tucididèe.
Aristotele e la catarsi.
Pietà e terrore.
Il misfatto deve essere compiuto di j aJmartivan tinav, per un errore.
Origini del dramma.
Le rappresentazioni.
L’opera drammatica come atto religioso.
Il dramma antico rispetto al melodramma è
logocentrico.
Struttura del teatro.
La forma e la metrica della tragedia.
Le sei parti qualitative: favola, caratteri, linguaggio,
pensiero, spettacolo visivo, musica.
Il racconto è parte la più importante.
Peripezia e riconoscimento.
Vari tipi di riconoscimento.
Critiche di Euripide (Elettra) al riconoscimento di Eschilo (Coefore).
Le cosiddette unità aristoteliche.
A. W. Schlegel e Manzoni.
I caratteri.
La verosimiglianza e la coerenza.
Critiche a Euripide.
Condanna del mostruoso.
La funzione del Coro.
Hegel, Leopardi, Manzoni, Nietzsche, A. W. Schlegel,
Schiller, Murray.
Pregi del linguaggio poetico.
La metafora.
Idealismo di Sofocle e realismo di Euripide.
Le parti quantitative della tragedia: prologo,
parodo, episodi, stasimi, commo, esodo.
Il ritardare è epico.
L’Estetica
di Hegel.
Tragedia e Commedia.
La critica di A. Schopenhauer.
Ancora Nietzsche.
In L’uomo
Mosè e la religione monoteistica Freud spiega l’origine della tragedia
attraverso la storia dell’umanità primitiva.
Per un’introduzione al dramma antico partiamo
dalla Poetica di Aristotele.
E’ un trattato di
estetica che nella parte a noi giunta si occupa prevalentemente di poesia
tragica. Fu scritta intorno al 335, durante la piena maturità del filosofo[1], e constava di due libri, dei quali ci è
arrivato il primo. Il secondo riguardava principalmente la commedia.
Secondo Aristotele
l'arte è essenzialmente mimèsi, imitazione della realtà e proprio per questo il
teatro ne costituisce la quintessenza. Il poeta però, diversamente dallo
storico che racconta cose avvenute, deve volgersi a quello che potrebbe sempre
avvenire secondo verosimiglianza e necessità: “dio; kai; filosofwvteron kai; spoudaiovteron
poivhsi~ iJstoriva~ ejstivn” (1451b,
5), e perciò la poesia è più filosofica e più importante della storia. Infatti
la poesia esprime piuttosto l’universale[2], la storia il particolare.
Anche Polibio[3], ma da storico, distingue la tragedia dalla
storia. Questa non deve tragw/dei'n,
rappresentare tragedie. Lo scopo della storia e della tragedia
non è lo stesso ma è opposto ("to; ga; r tevlo" iJstoriva" kai; tragw/diva"
ouj taujtovn, ajlla; toujnantivon", Storie, II, 56, 11) in quanto la tragedia deve impressionare e
affascinare momentaneamente gli spettatori attraverso i discorsi più persuasivi
("dei'
dia; tw'n piqanwtavtwn lovgwn ejkplh'xai kai; yucagwgh'sai kata; to; paro; n
tou; " ajkouvonta"", II, 56, 11), mentre la storia
deve istruire e convincere per sempre con fatti e discorsi veritieri coloro che
vogliono imparare ("dia; tw'n ajlhqinw'n e[rgwn kai; lovgwn eij" to; n
pavnta crovnon didavxai kai; pei'sai tou; " filomaqou'nta"").
Questo poiché nella tragedia prevale ciò che è persuasivo (hJgei'tai to; piqanovn), anche
se falso, per creare illusione negli spettatori ("dia; th; n ajpavthn[4] tw'n qewmevnwn"),
mentre nella storia ha la precedenza il vero, per l'utilità di quelli che
vogliono imparare ("tajlhqe; " dia; th; n wjfevleian tw'n
filomaqouvntwn",
II, 56, 12). Quest’ultima affermazione è una delle tante leggi tucididee[5]
presenti in Polibio.
Tucidide
Lo storiografo della guerra del Peloponneso
infatti aveva scritto: “ la mancanza del favoloso di questi fatti (to; mh; mqw'de~
aujtw'n),
verosimilmente, apparirà meno piacevole all'ascolto, ma sarà sufficiente che li
giudichino utili (wjfevlima krivnein aujta; ajrkouvntw~ e[xei) quanti
vorranno esaminare la chiarezza degli avvenimenti accaduti e di quelli che
potranno verificarsi ancora una volta, siffatti o molto simili, secondo la
natura umana” (Tucidide, Storie, I, 22,
4).
La
storia nasce dalla poesia
La storia è comunque intarsiata di miti, non
senza le iridescenti bugie di cui scrive Pindaro[6], tant’è
vero che è preceduta e anzi, in un certo senso, “nasce” dalla poesia epica e i
fatti storici, come hanno rilevato studiosi di levatura ed estimazione europea,
sono stati cantati, o raccontati, prima dai poeti che dagli storiografi di professione.
Giambattista
Vico
afferma che "la storia romana si cominciò a scrivere da' poeti", e
inoltre, utilizzando un passo di Strabone (I, 2, 6) sulla continuità tra
l'epica ed Ecateo,: "prima d'Erodoto, anzi prima d'Ecateo milesio, tutta
la storia de' popoli della Grecia essere stata scritta da' lor poeti"[7].
In
effetti le guerre puniche vennero narrate prima da Nevio e da Ennio che da Tito
Livio.
Un
giudizio apprezzato anche da Pavese: "Ciò che si trova di grande in Vico -
oltre il noto - è quel carnale senso che la poesia nasce da tutta la vita
storica; inseparabile da religione, politica, economia; "popolarescamente"
vissuta da tutto un popolo prima di diventare mito stilizzato, forma mentale di
tutta una cultura"[8]. Storia
e poesia insomma sono intrecciate insieme,
Wilde sulla mimèsi
Oscar Wilde in La decadenza della menzogna (del 1889) sostiene che non è l’arte a
imitare la vita, ma il contario: "La vita imita l'arte assai più di quanto
l'arte imiti la vita... Un grande artista inventa un tipo, e la vita tenta di
copiarlo, di riprodurlo in forma popolare... I greci, con il loro rapido
istinto artistico, capirono questo, e mettevano nella stanza della sposa la
statua di Ermes o di Apollo, affinché ella potesse generare figli altrettanto
ben formati delle opere d'arte che contemplava nell'estasi o nel dolore. Sapevano
che la vita non solo guadagna dall'arte la spiritualità, la profondità del
pensiero e del sentimento, il turbamento o la pace dell'anima, ma che essa può
formarsi sulle stesse linee e colori dell'arte, e può riprodurre la dignità di
Fidia come la grazia di Prassitele... Schopenhauer ha analizzato il pessimismo
che caratterizza il pensiero moderno, ma Amleto lo ha inventato. Il mondo è
diventato triste perché una volta una marionetta fu malinconica.
Tucidide |
Il
nichilista, quello strano martire che non ha fede, che va al patibolo senza
entusiasmo, e muore per quello in cui non crede, è un prodotto puramente
letterario. Esso fu inventato da Turgenev e completato da Dostoevskij"[9].
Con Aristotele
dunque l'arte si risolleva dalla condanna inflittale da Platone: essa non è la
copia di una copia che ci allontana di un grado dalla realtà delle idee; anzi
ci fa vedere l'universale. Allora non è vero che i poeti riproducano solo la
parte esterna e superficiale delle cose, né che suscitino emozioni contrarie
all'uso corretto della ragione. Infatti l'altro concetto fondamentale della Poetica è quello di catarsi: "La
tragedia è dunque imitazione di azione seria e compiuta (mivmhsi~ pravxew~
spoudaiva~ kai; teleiva~) che, con
una certa estensione e con parola ornata (hJdusmevnw/ lovgw/) ……di attori che agiscono e non attraverso un
racconto, per mezzo di pietà e terrore, compie la purificazione da tali
affezioni" (di j ejlevou kai; fovbou
peraivnousa
th; n tw'n toiouvtwn paqhmavtwn kavqarsin, 1449b, 28).
Caatarsi e mimesi nell’Amleto di Shakespeare
Non molto
diversamente l’Amleto di Shakespeare che dice: “I have heard - that guilty
creatures, sitting at a play, - have, by the very cunning of the scene, - been
struck so to the soul that presently - they have proclaim’d their malefactions”
(Hamlet, II, 2), io ho udito che
delle persone colpevoli, davanti a un dramma, sono state colpite, dall’abilità
della scena, fin dentro l’anima, in maniera tale che hanno confessato subito i
loro misfatti.
Più avanti anche la
teoria della mimesi è espressa dall’Amleto di Shakespeare: egli definisce “the purpose of playing”, lo scopo
dell’arte drammatica, “ whose end, both
at the first and now, was and is, to hold as ‘twere, the mirror up to nature”
(Hamlet, III, 2), il cui fine, all’inizio
come ora, è sempre stato quello di reggere, per così dire, lo specchio alla
natura.
Sentiamo una
precisazione di Leopardi: “Il fine dei drammi non è, e non dev’ essere, d’insegnare
a temere il delitto, coè di far che gli uomini temano di peccare. Meglio
sarebbe una predica dell’inferno o del purgatorio; e meglio ancora una lettura
del codice penale che si facesse sulla scena. Il loro scopo si è d’ispirare
odio verso il delitto. Questo è ciò che le leggi non possono…Il dramma chiama
la bontà e la malvagità col loro nome, e mostra il carattere e la condotta
morale de’ felici e degl’infelici qual essa è veramente. Quindi la sua rande
utilità, quindi l’odio e il disprezzo originato dal dramma verso i malvagi
benché felici e viceversa”[10].
Quindi Leopardi si dichiara
contrario al lieto fine della tragedia, in quanto non è educativo: “Quanto
all’effetto morale, che odio, che ira verso il vizio può rimanere in chi l’ha
visto totalmente abbattuto, vinto, umiliato e punito? Quella punizione che
l’uditore gli avrebbe dato nel cuor suo, l’ha preoccupata il poeta; l’uditore
non ha a far più nulla, e nulla fa…Dunque l’uditore parte dal dramma senza né
odio né ira né altra passione alcuna contro i malvagi, il vizio, il delitto…. Si
rappresentò in Bologna pochi anni fa l’Agamennone
dell’Alfieri. Destò vivissimo interesse negli uditori, e fra l’altro, tanto
odio verso Egisto, che quando Clitennestra esce dalla stanza del marito col
pugnale insanguinato, e trova Egisto, la platea gridava furiosamente
all’attrice che l’ammazzasse. Ma come in quella tragedia Egisto riesce
fortunato e gl’innocenti restano oppressi, quivi si vide quello che possono le
vere tragedie negli animi degli uditori, quando elle sono di tristo fine. Perché
promettendo gli attori che la sera vegnente avrebbero rappresentato l’Oreste pur d’Alfieri, ove avrebbero
veduto la morte di Egisto, la gente uscì dal teatro fremendo perché il delitto
fosse rimasto ancora impunito, e dicendo che per qualunque prezzo erano risoluti
l’indomani di trovarsi a veder la pena di questo scellerato. E l’altro dì prima
di sera il teatro era già pieno in modo che più non ve ne capeva. O moralmente
o poeticamente che si consideri un tanto odio verso un ribaldo di tremila anni
addietro, potuto ispirare da quella tragedia, ed una passione così calda, un
effetto così vivo, potuto da lei produrre o lasciare; per l’una e per l’altra
parte si può vedere se le tragedie di lieto fine sieno poco utili o
dilettevoli…Si potrà applicare tutto il passato discorso, colle debite
modificazioni, a quei drammi ne’ quali l’infelicità de’ buoni o degli
immeritevoli, non viene da’ cattivi, né da altri vizi o colpe, ma dal fato o da
circostanze, quali sono l’ Edipo re
di Sofocle, la Sofonisba d’Alfieri, e
molte tragedie di varie età e lingue…[11] ”.
Ecco allora che la
tragedia, ben lungi dall'assecondare gli impulsi irrazionali come afferma Platone[12], opera una depurazione dalle passioni e un
rasserenamento.
“Aristotele ritiene
che l’eccesso di compassione e di timore si scarichi mediante la tragedia, che
lo spettatore torni a casa più freddo.
Platone ritiene invece che lo spettatore diventi più emotivo e pauroso che mai”[13].
Quando le forze
malefiche hanno compiuto tutta la loro distruzione, scopriamo che nell'anima
nostra rimane qualche cosa che sfugge a quel potere ed ha la capacità di
nobilitare la vita umana. Allora il male svanisce, e, come stelle nella notte, brillano
la bellezza, la giustizia e la generosità.
Sentiamolo con le parole di Bertrand Russel citato da
Murray: “What was eager and grasping, what
was petty and transitory, has faded away. The things that were beautiful and
eternal shine out like stars in the night”[14], quanto
c’era di avido e cupido, quanto c’era di insignificante e transitorio, è svanito.
Le cose che erano belle ed
eterne brillano come stelle nella notte.
Questo è il potere
di trasfigurazione della poesia, e in particolare della tragedia greca.
Già Gorgia aveva
indicato un nesso tra la poesia, la pietà e il terrore: nell’ Encomio di Elena il sofista dichiara di
giudicare th;
n poivhsin a{pasan, la poesia
nel suo complesso, un discorso in versi, negli ascoltatori del quale si insinua
kai; frivkh
perivfobo~ kai; e[leo~ poluvdakru~
(9), un brivido pieno di terrore e una pietà grondante di lacrime.
Aristotele chiarisce
meglio di che si tratta quando spiega che il protagonista non può essere un
perfetto malvagio, se deve suscitare pietà, invece di soddisfazione, né può
essere una persona ottima quella che finisce in rovina, poiché in questo caso
provocherebbe ripugnanza. Insomma il personaggio tragico deve soffrire per un
errore (di
j aJmartivan tinav, 1453a, 10) un difetto intellettuale più che morale, piuttosto che un
crimine voluto, un misfatto compiuto senza saperlo, come quello di Edipo che ha
ucciso il padre suo e sposato la madre sua che non conosceva; inoltre è
necessario che questo disgraziato, e delinquente per sbaglio, non sia troppo
lontano dalla medietà: poiché la pietà è per chi non si merita i tormenti, il
terrore per chi ci somiglia (e[leo~ me; n peri; to; n ajnavxion, fovbo~ de; peri; to;
n o{moion, 1453a, 5).
“Nella Retorica Aristotele colloca l’aJmartiva a metà strada tra sfortuna (ajtuvchma) e ingiustizia (ajdivkhma) : l’aJmavrthma presuppone un atto volontario ma senza malvagità (mh; ajpo; ponhriva~), Rhet. 1374b”[15].
Racine
nella Prefazione alla sua Fedra (1677)
scrive che il carattere della protagonista: “ possiede tutte le qualità che
Aristotele esige dall’eroe tragico e che sono adatte a provocare la compassione
e il terrore. In verità Fedra non è del tutto colpevole né del tutto innocente.
Essa è trascinata dal suo destino e dalla collera degli Dei in una passione
illegittima, della quale è lei per prima ad essere inorridita”.
Leopardi
nota che “la poesia, i drammi, i romanzi, le storie, le pitture ec. ec. non
possono durevolmente né molto dilettare se versano sopra uomini di costumi, opinioni,
indole ec. ec. e quasi natura affatto diversa dalla nostra…onde Aristotele non
voleva che il protagonista della tragedia fosse troppo eroe…Da per tutto l’uomo
cerca il suo simile, perché non cerca e non ha mai altro scopo che se stesso…”[16].
L'arte dunque è
mimèsi, e, all'interno di tale categoria, la tragedia, la sofoclea in
particolare, si propone, come Omero, di imitare personaggi migliori di quelli
reali; la commedia peggiori.
[1]
Vissuto tra il 384 e il 322 a. C.
[2] “ Deve necessariamente esservi una differenza tra la
vera poesia e la vera parola non poetica: qual è questa differenza? Su questo
punto molte cose sono state scritte specialmente dagli ultimi critici
tedeschi…Essi dicono, per esempio, che il poeta ha in sé una infinitudine, comunica una Unendlichkeit, un certo carattere
“d’infinitudine”, a tutto quanto descrive” T. Carlyle, Gli eroi (del 1841), p. 118.
[3]
200ca - 118 ca a. C
[4] Gorgia di Leontini (490 ca - 385ca a. C.) aveva detto
che la tragedia crea un inganno nel quale chi inganna è più giusto di chi non
inganna, e chi è ingannato è più saggio di chi non è ingannato: “ o{ te ajpathvsa" dikaiovtero"
tou' mh; ajpathvsanto" kai; oJ ajpathqei; " sofwvtero" tou' mh; ajpathqevnto"" (in Plutarco, de glor. Ath. 5 p. 348 C.).
[5] Tucidide legiferò (" oJ d j ou\n Qoukidivdh"... ejnomoqevthse") afferma Luciano (Come si deve scrivere la storia, 42). La legge della verità divenne
ineludibile per i suoi seguaci. Nell'ultimo capitolo del suo opuscolo Luciano
aggiunge che bisogna scrivere la storia con verità ("su; n tw'/ ajlhqei'") e con il pensiero rivolto alla speranza futura
piuttosto che con adulazione mirando a compiacere quelli elogiati al momento
presente ("pro;
" to; hJdu; toi'" nu'n ejpainoumevnoi"", 63).
[6]
Olimpica I, 29.
[7]La Scienza Nuova, Pruove filologiche, III
e VIII.
[8]Il mestiere di vivere, 30 agosto 1938.
[9] In O. Wilde, Opere, trad. it. Mondadori, Milano, 1982, pp. 222 - 224
[10]
Zibaldone, pp. 3448 - 3449 e p. 3451.
[11]
Zibaldone, pp. 3457 - 3460.
[12]
“Bisogna concedere che Omero sia sommamente poetico e il primo dei poeti
tragici, ma sapere che si devono ammetere nella città solo inni agli dèi ed
encomi per i buoni. Se invece accoglierai la Musa drogata (th;
n hJdusmevnhn Mou'san), in canti lirici ed epici, piacere e il dolore
regneranno nella tua città al posto della legge e del ragionamento che di volta
in volta sembri essare il migliore per la comunità”, Platone, Repubblica, 607a.
[13]
Nietzsche, Frammenti postumi, ottobre - dicembre 1876, 19 (99)
[14]
Euripides and his age, p. 243.
[15]
Avezzù - Guidorizzi, Edipo a Colono, p.
325.
[16]
Zibaldone, 1848.
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