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giovedì 3 settembre 2015

Introduzione alla tragedia greca. Parte I

Il Teatro di Taormina

Sommario

La Poetica di Aristotele.
La mimesi.
Differenza tra storia e poesia.
Polibio ripete formule tucididèe.
Aristotele e la catarsi.
Pietà e terrore.
Il misfatto deve essere compiuto di j aJmartivan tinav, per un errore.
Origini del dramma.
Le rappresentazioni.
L’opera drammatica come atto religioso.
Il dramma antico rispetto al melodramma è logocentrico.
Struttura del teatro.
La forma e la metrica della tragedia.
Le sei parti qualitative: favola, caratteri, linguaggio, pensiero, spettacolo visivo, musica.
Il racconto è parte la più importante.
Peripezia e riconoscimento.
Vari tipi di riconoscimento.
Critiche di Euripide (Elettra) al riconoscimento di Eschilo (Coefore).
Le cosiddette unità aristoteliche.
A. W. Schlegel e Manzoni.
I caratteri.
La verosimiglianza e la coerenza.
Critiche a Euripide.
Condanna del mostruoso.
La funzione del Coro.
Hegel, Leopardi, Manzoni, Nietzsche, A. W. Schlegel, Schiller, Murray.
Pregi del linguaggio poetico.
La metafora.
Idealismo di Sofocle e realismo di Euripide.
Le parti quantitative della tragedia: prologo, parodo, episodi, stasimi, commo, esodo.
Il ritardare è epico.
L’Estetica di Hegel.
Tragedia e Commedia.
La critica di A. Schopenhauer.
Ancora Nietzsche.
In L’uomo Mosè e la religione monoteistica Freud spiega l’origine della tragedia attraverso la storia dell’umanità primitiva.


Per un’introduzione al dramma antico partiamo dalla Poetica di Aristotele.
E’ un trattato di estetica che nella parte a noi giunta si occupa prevalentemente di poesia tragica. Fu scritta intorno al 335, durante la piena maturità del filosofo[1], e constava di due libri, dei quali ci è arrivato il primo. Il secondo riguardava principalmente la commedia.
Secondo Aristotele l'arte è essenzialmente mimèsi, imitazione della realtà e proprio per questo il teatro ne costituisce la quintessenza. Il poeta però, diversamente dallo storico che racconta cose avvenute, deve volgersi a quello che potrebbe sempre avvenire secondo verosimiglianza e necessità: “dio; kai; filosofwvteron kai; spoudaiovteron poivhsi~ iJstoriva~ ejstivn” (1451b, 5), e perciò la poesia è più filosofica e più importante della storia. Infatti la poesia esprime piuttosto l’universale[2], la storia il particolare.

Anche Polibio[3], ma da storico, distingue la tragedia dalla storia. Questa non deve tragw/dei'n, rappresentare tragedie. Lo scopo della storia e della tragedia non è lo stesso ma è opposto ("to; ga; r tevlo" iJstoriva" kai; tragw/diva" ouj taujtovn, ajlla; toujnantivon", Storie, II, 56, 11) in quanto la tragedia deve impressionare e affascinare momentaneamente gli spettatori attraverso i discorsi più persuasivi ("dei' dia; tw'n piqanwtavtwn lovgwn ejkplh'xai kai; yucagwgh'sai kata; to; paro; n tou; " ajkouvonta"", II, 56, 11), mentre la storia deve istruire e convincere per sempre con fatti e discorsi veritieri coloro che vogliono imparare ("dia; tw'n ajlhqinw'n e[rgwn kai; lovgwn eij" to; n pavnta crovnon didavxai kai; pei'sai tou; " filomaqou'nta""). Questo poiché nella tragedia prevale ciò che è persuasivo (hJgei'tai to; piqanovn), anche se falso, per creare illusione negli spettatori ("dia; th; n ajpavthn[4] tw'n qewmevnwn"), mentre nella storia ha la precedenza il vero, per l'utilità di quelli che vogliono imparare ("tajlhqe; " dia; th; n wjfevleian tw'n filomaqouvntwn", II, 56, 12). Quest’ultima affermazione è una delle tante leggi tucididee[5] presenti in Polibio.

Tucidide
 Lo storiografo della guerra del Peloponneso infatti aveva scritto: “ la mancanza del favoloso di questi fatti (to; mh; mqw'de~ aujtw'n), verosimilmente, apparirà meno piacevole all'ascolto, ma sarà sufficiente che li giudichino utili (wjfevlima krivnein aujta; ajrkouvntw~ e[xei) quanti vorranno esaminare la chiarezza degli avvenimenti accaduti e di quelli che potranno verificarsi ancora una volta, siffatti o molto simili, secondo la natura umana” (Tucidide, Storie, I, 22, 4).

La storia nasce dalla poesia
 La storia è comunque intarsiata di miti, non senza le iridescenti bugie di cui scrive Pindaro[6], tant’è vero che è preceduta e anzi, in un certo senso, “nasce” dalla poesia epica e i fatti storici, come hanno rilevato studiosi di levatura ed estimazione europea, sono stati cantati, o raccontati, prima dai poeti che dagli storiografi di professione.

Giambattista Vico afferma che "la storia romana si cominciò a scrivere da' poeti", e inoltre, utilizzando un passo di Strabone (I, 2, 6) sulla continuità tra l'epica ed Ecateo,: "prima d'Erodoto, anzi prima d'Ecateo milesio, tutta la storia de' popoli della Grecia essere stata scritta da' lor poeti"[7].
In effetti le guerre puniche vennero narrate prima da Nevio e da Ennio che da Tito Livio.

Un giudizio apprezzato anche da Pavese: "Ciò che si trova di grande in Vico - oltre il noto - è quel carnale senso che la poesia nasce da tutta la vita storica; inseparabile da religione, politica, economia; "popolarescamente" vissuta da tutto un popolo prima di diventare mito stilizzato, forma mentale di tutta una cultura"[8]. Storia e poesia insomma sono intrecciate insieme,

Wilde sulla mimèsi
 Oscar Wilde in La decadenza della menzogna (del 1889) sostiene che non è l’arte a imitare la vita, ma il contario: "La vita imita l'arte assai più di quanto l'arte imiti la vita... Un grande artista inventa un tipo, e la vita tenta di copiarlo, di riprodurlo in forma popolare... I greci, con il loro rapido istinto artistico, capirono questo, e mettevano nella stanza della sposa la statua di Ermes o di Apollo, affinché ella potesse generare figli altrettanto ben formati delle opere d'arte che contemplava nell'estasi o nel dolore. Sapevano che la vita non solo guadagna dall'arte la spiritualità, la profondità del pensiero e del sentimento, il turbamento o la pace dell'anima, ma che essa può formarsi sulle stesse linee e colori dell'arte, e può riprodurre la dignità di Fidia come la grazia di Prassitele... Schopenhauer ha analizzato il pessimismo che caratterizza il pensiero moderno, ma Amleto lo ha inventato. Il mondo è diventato triste perché una volta una marionetta fu malinconica.
Tucidide
Il nichilista, quello strano martire che non ha fede, che va al patibolo senza entusiasmo, e muore per quello in cui non crede, è un prodotto puramente letterario. Esso fu inventato da Turgenev e completato da Dostoevskij"[9].

Con Aristotele dunque l'arte si risolleva dalla condanna inflittale da Platone: essa non è la copia di una copia che ci allontana di un grado dalla realtà delle idee; anzi ci fa vedere l'universale. Allora non è vero che i poeti riproducano solo la parte esterna e superficiale delle cose, né che suscitino emozioni contrarie all'uso corretto della ragione. Infatti l'altro concetto fondamentale della Poetica è quello di catarsi: "La tragedia è dunque imitazione di azione seria e compiuta (mivmhsi~ pravxew~ spoudaiva~ kai; teleiva~) che, con una certa estensione e con parola ornata (hJdusmevnw/ lovgw/) …di attori che agiscono e non attraverso un racconto, per mezzo di pietà e terrore, compie la purificazione da tali affezioni" (di j ejlevou kai; fovbou peraivnousa th; n tw'n toiouvtwn paqhmavtwn kavqarsin, 1449b, 28).

Caatarsi e mimesi nell’Amleto di Shakespeare
Non molto diversamente l’Amleto di Shakespeare che dice: “I have heard - that guilty creatures, sitting at a play, - have, by the very cunning of the scene, - been struck so to the soul that presently - they have proclaim’d their malefactions” (Hamlet, II, 2), io ho udito che delle persone colpevoli, davanti a un dramma, sono state colpite, dall’abilità della scena, fin dentro l’anima, in maniera tale che hanno confessato subito i loro misfatti.

Più avanti anche la teoria della mimesi è espressa dall’Amleto di Shakespeare: egli definisce “the purpose of playing”, lo scopo dell’arte drammatica, “ whose end, both at the first and now, was and is, to hold as ‘twere, the mirror up to nature” (Hamlet, III, 2), il cui fine, all’inizio come ora, è sempre stato quello di reggere, per così dire, lo specchio alla natura.

Sentiamo una precisazione di Leopardi: “Il fine dei drammi non è, e non dev’ essere, d’insegnare a temere il delitto, coè di far che gli uomini temano di peccare. Meglio sarebbe una predica dell’inferno o del purgatorio; e meglio ancora una lettura del codice penale che si facesse sulla scena. Il loro scopo si è d’ispirare odio verso il delitto. Questo è ciò che le leggi non possono…Il dramma chiama la bontà e la malvagità col loro nome, e mostra il carattere e la condotta morale de’ felici e degl’infelici qual essa è veramente. Quindi la sua rande utilità, quindi l’odio e il disprezzo originato dal dramma verso i malvagi benché felici e viceversa”[10].
Quindi Leopardi si dichiara contrario al lieto fine della tragedia, in quanto non è educativo: “Quanto all’effetto morale, che odio, che ira verso il vizio può rimanere in chi l’ha visto totalmente abbattuto, vinto, umiliato e punito? Quella punizione che l’uditore gli avrebbe dato nel cuor suo, l’ha preoccupata il poeta; l’uditore non ha a far più nulla, e nulla fa…Dunque l’uditore parte dal dramma senza né odio né ira né altra passione alcuna contro i malvagi, il vizio, il delitto…. Si rappresentò in Bologna pochi anni fa l’Agamennone dell’Alfieri. Destò vivissimo interesse negli uditori, e fra l’altro, tanto odio verso Egisto, che quando Clitennestra esce dalla stanza del marito col pugnale insanguinato, e trova Egisto, la platea gridava furiosamente all’attrice che l’ammazzasse. Ma come in quella tragedia Egisto riesce fortunato e gl’innocenti restano oppressi, quivi si vide quello che possono le vere tragedie negli animi degli uditori, quando elle sono di tristo fine. Perché promettendo gli attori che la sera vegnente avrebbero rappresentato l’Oreste pur d’Alfieri, ove avrebbero veduto la morte di Egisto, la gente uscì dal teatro fremendo perché il delitto fosse rimasto ancora impunito, e dicendo che per qualunque prezzo erano risoluti l’indomani di trovarsi a veder la pena di questo scellerato. E l’altro dì prima di sera il teatro era già pieno in modo che più non ve ne capeva. O moralmente o poeticamente che si consideri un tanto odio verso un ribaldo di tremila anni addietro, potuto ispirare da quella tragedia, ed una passione così calda, un effetto così vivo, potuto da lei produrre o lasciare; per l’una e per l’altra parte si può vedere se le tragedie di lieto fine sieno poco utili o dilettevoli…Si potrà applicare tutto il passato discorso, colle debite modificazioni, a quei drammi ne’ quali l’infelicità de’ buoni o degli immeritevoli, non viene da’ cattivi, né da altri vizi o colpe, ma dal fato o da circostanze, quali sono l’ Edipo re di Sofocle, la Sofonisba d’Alfieri, e molte tragedie di varie età e lingue…[11] ”.

Ecco allora che la tragedia, ben lungi dall'assecondare gli impulsi irrazionali come afferma Platone[12], opera una depurazione dalle passioni e un rasserenamento.
“Aristotele ritiene che l’eccesso di compassione e di timore si scarichi mediante la tragedia, che lo spettatore torni a casa più freddo. Platone ritiene invece che lo spettatore diventi più emotivo e pauroso che mai”[13].
Quando le forze malefiche hanno compiuto tutta la loro distruzione, scopriamo che nell'anima nostra rimane qualche cosa che sfugge a quel potere ed ha la capacità di nobilitare la vita umana. Allora il male svanisce, e, come stelle nella notte, brillano la bellezza, la giustizia e la generosità.

Sentiamolo con le parole di Bertrand Russel citato da Murray: “What was eager and grasping, what was petty and transitory, has faded away. The things that were beautiful and eternal shine out like stars in the night[14], quanto c’era di avido e cupido, quanto c’era di insignificante e transitorio, è svanito. Le cose che erano belle ed eterne brillano come stelle nella notte.
Questo è il potere di trasfigurazione della poesia, e in particolare della tragedia greca.

Già Gorgia aveva indicato un nesso tra la poesia, la pietà e il terrore: nell’ Encomio di Elena il sofista dichiara di giudicare th; n poivhsin a{pasan, la poesia nel suo complesso, un discorso in versi, negli ascoltatori del quale si insinua kai; frivkh perivfobo~ kai; e[leo~ poluvdakru~ (9), un brivido pieno di terrore e una pietà grondante di lacrime.

Aristotele chiarisce meglio di che si tratta quando spiega che il protagonista non può essere un perfetto malvagio, se deve suscitare pietà, invece di soddisfazione, né può essere una persona ottima quella che finisce in rovina, poiché in questo caso provocherebbe ripugnanza. Insomma il personaggio tragico deve soffrire per un errore (di j aJmartivan tinav, 1453a, 10) un difetto intellettuale più che morale, piuttosto che un crimine voluto, un misfatto compiuto senza saperlo, come quello di Edipo che ha ucciso il padre suo e sposato la madre sua che non conosceva; inoltre è necessario che questo disgraziato, e delinquente per sbaglio, non sia troppo lontano dalla medietà: poiché la pietà è per chi non si merita i tormenti, il terrore per chi ci somiglia (e[leo~ me; n peri; to; n ajnavxion, fovbo~ de; peri; to; n o{moion, 1453a, 5).
“Nella Retorica Aristotele colloca l’aJmartiva a metà strada tra sfortuna (ajtuvchma) e ingiustizia (ajdivkhma) : l’aJmavrthma presuppone un atto volontario ma senza malvagità (mh; ajpo; ponhriva~), Rhet. 1374b”[15].

Racine nella Prefazione alla sua Fedra (1677) scrive che il carattere della protagonista: “ possiede tutte le qualità che Aristotele esige dall’eroe tragico e che sono adatte a provocare la compassione e il terrore. In verità Fedra non è del tutto colpevole né del tutto innocente. Essa è trascinata dal suo destino e dalla collera degli Dei in una passione illegittima, della quale è lei per prima ad essere inorridita”.

Leopardi nota che “la poesia, i drammi, i romanzi, le storie, le pitture ec. ec. non possono durevolmente né molto dilettare se versano sopra uomini di costumi, opinioni, indole ec. ec. e quasi natura affatto diversa dalla nostra…onde Aristotele non voleva che il protagonista della tragedia fosse troppo eroe…Da per tutto l’uomo cerca il suo simile, perché non cerca e non ha mai altro scopo che se stesso…”[16].

L'arte dunque è mimèsi, e, all'interno di tale categoria, la tragedia, la sofoclea in particolare, si propone, come Omero, di imitare personaggi migliori di quelli reali; la commedia peggiori.

Nel prologo del film Melinda e Melinda di Woody Allen c’è una battuta azzeccata sulla differenza fra tragedia e commedia: “tragedy confronts, comedy escapes”, la tragedia istituisce confronti, la commedia è evasione. Dopo la fine (lieta) delle vicende di Melinda, il medesimo personaggio della cornice teorica, un commediagrafo, conclude: “we laugh because it masks our real terror about mortality”, noi ridiamo per mascherare il reale terrore della nostra mortalità.



[1] Vissuto tra il 384 e il 322 a. C.
[2] “ Deve necessariamente esservi una differenza tra la vera poesia e la vera parola non poetica: qual è questa differenza? Su questo punto molte cose sono state scritte specialmente dagli ultimi critici tedeschi…Essi dicono, per esempio, che il poeta ha in sé una infinitudine, comunica una Unendlichkeit, un certo carattere “d’infinitudine”, a tutto quanto descrive” T. Carlyle, Gli eroi (del 1841), p. 118.
[3] 200ca - 118 ca a. C
[4] Gorgia di Leontini (490 ca - 385ca a. C.) aveva detto che la tragedia crea un inganno nel quale chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi è ingannato è più saggio di chi non è ingannato: “ o{ te ajpathvsa" dikaiovtero" tou' mh; ajpathvsanto" kai; oJ ajpathqei; " sofwvtero" tou' mh; ajpathqevnto"" (in Plutarco, de glor. Ath. 5 p. 348 C.).
[5] Tucidide legiferò (" oJ d j ou\n Qoukidivdh"... ejnomoqevthse") afferma Luciano (Come si deve scrivere la storia, 42). La legge della verità divenne ineludibile per i suoi seguaci. Nell'ultimo capitolo del suo opuscolo Luciano aggiunge che bisogna scrivere la storia con verità ("su; n tw'/ ajlhqei'") e con il pensiero rivolto alla speranza futura piuttosto che con adulazione mirando a compiacere quelli elogiati al momento presente ("pro; " to; hJdu; toi'" nu'n ejpainoumevnoi"", 63).
[6] Olimpica I, 29.
[7]La Scienza Nuova, Pruove filologiche, III e VIII.
[8]Il mestiere di vivere, 30 agosto 1938.
[9] In O. Wilde, Opere, trad. it. Mondadori, Milano, 1982, pp. 222 - 224
[10] Zibaldone, pp. 3448 - 3449 e p. 3451.
[11] Zibaldone, pp. 3457 - 3460.
[12] “Bisogna concedere che Omero sia sommamente poetico e il primo dei poeti tragici, ma sapere che si devono ammetere nella città solo inni agli dèi ed encomi per i buoni. Se invece accoglierai la Musa drogata (th; n hJdusmevnhn Mou'san), in canti lirici ed epici, piacere e il dolore regneranno nella tua città al posto della legge e del ragionamento che di volta in volta sembri essare il migliore per la comunità”, Platone, Repubblica, 607a.
[13] Nietzsche, Frammenti postumi, ottobre - dicembre 1876, 19 (99)
[14] Euripides and his age, p. 243.
[15] Avezzù - Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 325.
[16] Zibaldone, 1848. 

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