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domenica 20 settembre 2015

Introduzione alla tragedia greca. Parte VI

Il coro di Agamennone, 2014
foto G. L. Carnera, Archivio Fondazione Inda

La funzione del coro
Senofonte, Demostene, Hegel, Leopardi, Manzoni, Nietzsche, A. W. Schlegel, Schiller, Murray.

Voglio riferire alcune interpretazioni sulla funzione del coro nella tragedia

Senofonte nei Memorabili fa dire a Socrate che i cori tragici sono un modello di ordine e disciplina: “non vedi - dice a Pericle che si lamentava della scarsa disciplina degli Ateniesi - come nei cori tragici non sono inferiori a nessuno nell’obbedire agli istruttori?” (3, 5, 18).
Un analogo elogio dei cori si trova nella I Filippica di Demostene il quale contrappone la serietà dell’organizzazione delle feste Dionisie e Panatenee al disordine, alla confusione e all’improvvisazione delle spedizioni militari. Le feste infatti sono rigorosamente disciplinate: nulla in queste viene trascuratamente lasciato privo di esame e non ben definito: “oujde; n ajnexevtaston oujd j ajovriston ejn touvtoi~ hjmevlhtai (36).

Secondo Hegel il Coro della tragedia "non agisce ed ha dinanzi a sé solo l'universale"[1].
Il coro è la "coscienza sostanziale, superiore, che distoglie dai falsi conflitti e prepara la soluzione.. è, di fronte ai singoli eroi, il popolo quale terreno fecondo da cui gli individui, quali fiori e piante tese in alto, nascono dal loro proprio suolo" (Estetica, p. 1604).
Il coro può anche"essere paragonato al tempio dell'architettura il quale circonda la statua del dio, che qui diviene l'eroe in azione" (p. 1605).

Leopardi nello Zibaldone afferma che l'uso del coro è "parte di quel vago, di quell'indefinito ch'è la principal cagione dello charme dell'antica poesia e bella letteratura. L'individuo è sempre cosa piccola, spesso brutta, spesso disprezzabile. Il bello e grande ha bisogno dell'indefinito, e questo indefinito non si poteva introdurre sulla scena, se non introducendovi la moltitudine" (2804). Il canto corale, a più voci, dunque entra nella sua poetica del vago e dell’indefinito

Manzoni nella Prefazione a Il conte di Carmagnola sostiene che dei "Cori dei greci" si possa rinnovare lo spirito "inserendo degli squarci lirici composti sull'idea di que' Cori". Questi squarci, per il fatto di essere indipendenti dall'azione, possono avere "uno slancio più lirico, più variato e più fantastico. Hanno inoltre sugli antichi il vantaggio d'essere senza inconvenienti: non essendo legati con l'orditura dell'azione, non saranno mai cagione che questa si alteri e si scomponga per farceli stare. Hanno finalmente un altro vantaggio per l'arte, in quanto, riserbando al poeta un cantuccio dov'egli possa parlare in persona propria, gli diminuiranno la tentazione d'introdursi nell'azione, e di prestare ai personaggi i propri sentimenti".

In La nascita della tragedia Nietzsche ricorda la tradizione la quale "ci dice con piena risolutezza che la tragedia è sorta dal coro tragico, e che originariamente essa era soltanto coro e niente altro che coro; donde ci viene l’obbligo di scrutare nel cuore di questo coro tragico come nel vero e proprio dramma originario, senza in qualche modo accontentarci delle frasi retoriche correnti - che esso era lo spettatore ideale o che doveva rappresentare il popolo di fronte alla regione regale della scena... dato che da quelle origini puramente religiose rimane esclusa tutta la contrapposizione tra popolo e re, e in genere qualsiasi sfera politico - sociale "[2].
L'idea di identificare il coro come lo spettatore ideale risale ad A. W. Schlegel[3] e deve avere fatto epoca, poiché la ricorda anche Manzoni nella già menzionata Prefazione: “ Mi rimane a render conto del Coro introdotto una volta in questa tragedia, il quale, per non essere nominati personaggi che lo compongano, può parere un capriccio o un enimma. Non posso meglio spiegarne l’intenzione, che riportando in parte ciò che il signor Schlegel ha detto dei Cori greci: Il Coro è da riguardarsi come la personificazione de’ pensieri morali che l’azione ispira, come l’organo de’ sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera umanità. E poco sotto: Vollero i Greci che in ogni dramma il Coro…fosse prima di tutto il rappresentante dell’umanità: il Coro era insomma lo spettatore ideale: esso temperava l’impressioni violente e dolorose d’un azione qualche volta troppo vicina al vero; e riverberando, per così dire, allo spettatore reale le sue proprie emozioni, gliele rimandava raddolcite dalla vaghezza d’un espressione lirica e armonica e lo conduceva così nel campo più tranquillo della contemplazione. Ora m’è parso che, se i Cori dei greci non sono combinabili col sistema tragico moderno, si possa però ottenere in parte il loro fine, e rinnovarne lo spirito, inserendo degli squarci lirici composti sull’idea di que’ Cori”[4]. Così siamo tornati e ci colleghiamo alla citazione precedente.

Nietzsche invece rifiuta, quasi con sdegno, l’asserzione che il coro corrisponda allo spettatore ideale: “un'affermazione rozza e non scientifica, ma brillante, che però ha ricevuto il suo splendore solo dalla forma concentrata della sua espressione, dalla prevenzione prettamente germanica a favore di tutto ciò che viene detto ideale, e dal nostro stupore momentaneo"[5].
La formula non regge siccome lo spettatore e il coro sono entità differenti.
Il pubblico ha la consapevolezza di assistere a un'opera d'arte, non a una realtà empirica, mentre il "coro tragico dei Greci è costretto a riconoscere nelle figure della scena esistenze concrete. Il coro delle Oceanidi crede di vedere realmente davanti a sé il titano Prometeo, e ritiene se stesso altrettanto reale quanto il dio della scena"[6].

Maggiore credito viene data dal filosofo tedesco alla definizione proposta nella "famosa prefazione alla Sposa di Messina, da Schiller, che considerava il coro come un muro vivente che la tragedia tracciava intorno a sé, per isolarsi nettamente dal mondo reale e per serbare il suo terreno ideale e la sua libertà poetica…L’introduzione del coro è il passo decisivo, con il quale viene dichiarata apertamente e lealmente la guerra a ogni naturalismo in arte... Certo è un terreno "ideale" quello su cui, secondo la giusta veduta di Schiller, suole muoversi il coro greco dei Satiri, il coro della tragedia originaria; è un terreno molto al di sopra del sentiero reale dei mortali... La tragedia si è sviluppata su questo fondamento e certo già per questo è stata fin dal principio dispensata da una penosa riproduzione della realtà…Il satiro come coreuta dionisiaco vive in una realtà religiosamente riconosciuta sotto la sanzione del mito e del culto... il Satiro, il finto essere naturale, sta rispetto all'uomo civile nello stesso rapporto in cui la musica dionisiaca sta rispetto alla civiltà. Di quest'ultima Richard Wagner dice che viene annullata dalla musica, come il lume della lampada dalla luce del giorno. In ugual maniera, io credo, l’uomo civile greco si sentiva annullato al cospetto del coro dei Satiri; e l'effetto immediato della tragedia dionisiaca consiste in questo, che Stato e la società, e in genere gli abissi fra uomo e uomo, cedono a un soverchiante sentimento di unità che riconduce al cuore della natura. La consolazione metafisica, lasciata alla fine in noi da ogni vera tragedia - lo dico fin d’ora - per cui la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa, questa consolazione, appare in corposa chiarezza come coro dei Satiri, come coro di esseri naturali, che per così dire vivono incorruttibili dietro ogni civiltà, e, nonostante ogni mutamento delle generazioni e della storia dei popoli, rimangono eternamente gli stessi "[7].
Da una parte è vero che l'uomo moderno "non è se non un centauro storpio e mutilato il quale ricostituisce il mito primitivo riconnettendo indissolubilmente il suo genio all'energia atroce della natura"[8]. Né è falso quanto afferma Bernardin De Saint - Pierre che noi Europei sin dall'infanzia abbiamo "la mente piena di pregiudizi contrari alla felicità" e non possiamo più comprendere "quanti lumi e piaceri possa dare la natura"[9].
D’altra parte la componente istintiva, prima repressa poi scatenata alla distruzione, mai applicata all'incremento della vita, porta Gustav Aschenbach alla morte, preannunciata da una fantasia onirica memore dei riti orgiastici delle Baccanti: " Al ritmo dei timpani si squassava il suo cuore, il cervello vorticava; ira accecamento, stordimento voluttuoso invadevano la sua anima, smaniosa di accordarsi al tripudio del dio. Ed ecco, enorme, ligneo, scoprirsi e innalzarsi l'osceno simbolo; a quella vista tra sfrenati clamori, tutti gridarono la formula rituale e con la schiuma alle labbra si precipitarono in un'orgia pazzesca. Ridenti, singhiozzanti, si eccitavano a vicenda con gesti sconci e carezze lubriche, e si cacciavano l'un l'altro i pungoli nelle carni, leccando il sangue che colava sulle membra"[10].
Quanto alla “consolazione metafisica”, la cui scomparsa Nietzsche in La nascita della tragedia, attribuisce a Euripide[11], quale colpa, nel Tentativo di autocritica aggiunto nel 1886 a quest’opera giovanile, essa verrà ripudiata come un errore dovuto alla prolissità della giovinezza appunto, all’influenza del romanticismo e del cristianesimo: “metafisicamente consolati, insomma come finiscono i romantici, cristianamente…No! Dovreste prima imparare l’arte della consolazione dell’al di qua”. Ma torniamo alle pagine e alla consolazione metafisica della stesura del 1871.
“Con questo coro trova consolazione il Greco profondo, dotato in modo unico per la sofferenza più delicata e più aspra, che ha contemplato con sguardo tagliente il terribile processo di distruzione della cosiddetta storia universale, come pure la crudeltà della natura, e corre il pericolo di anelare a una buddistica negazione della volontà. Lo salva l’arte, e mediante l’arte lo salva a sé la vita…In questo senso l’uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno gettato una volta uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno conosciuto, e provano nausea di fronte all’agire; giacché la loro azione non può mutare nulla nell’essenza eterna delle cose, ed essi sentono come ridicolo o infame che si pretenda da loro che rimettano in sesto il mondo che è fuori dai cardini [12] La conoscenza uccide l'azione, per agire occorre essere avvolti nell'illusione"[13].
L'arte però ci salva dalla negazione della volontà: "Ed ecco, in questo estremo pericolo della volontà, si avvicina, come maga che salva e risana, l'arte; soltanto lei è capace di volgere quei pensieri di disgusto per l’atrocità o l’assurdità dell’esistenza in rappresentazioni con cui si possa vivere: queste sono il sublime come repressione artistica dell’atrocità e il comico come sfogo artistico del disgusto per l’assurdo. Il coro dei satiri del ditirambo, ecco l'azione salvatrice dell'arte greca "[14].
 Il coro "può essere inteso soltanto come causa della tragedia e del tragico in genere"[15].
 Sofocle però comincia a ridurre questa funzione: "Già in Sofocle appare quella perplessità riguardo al coro - un segno importante che già in lui il terreno dionisiaco della tragedia comincia a sgretolarsi. Egli non osa più affidare al coro la parte principale e più efficace, e ne limita invece a tal punto il dominio, che esso appare ora quasi coordinato agli attori, come se venisse sollevato dall'orchestra e portato in scena: con ciò certo la sua essenza è totalmente distrutta, per quanto Aristotele[16] dia la sua approvazione proprio a questa concezione del coro. Quello spostamento della posizione del coro, che comunque Sofocle ha raccomandato con la sua prassi e, secondo la tradizione, addirittura con uno scritto, è il primo passo verso la distruzione del coro, le cui fasi si susseguono con spaventosa rapidità in Euripide, in Agatone e nella commedia nuova. La dialettica ottimistica scaccia la musica dalla tragedia con la sferza dei suoi sillogismi, cioè distrugge l'essenza della tragedia, che si può interpretare unicamente come una manifestazione e raffigurazione di stati dionisiaci, come simbolizzazione della musica, come il mondo di sogno di un'ebbrezza dionisiaca"[17].
Certo è che dal ditirambo originario, a Eschilo a Euripide, così come pure nella commedia, dal primo all’ultimo Aristofane, il coro perde progressivamente importanza, a mano a mano che ne acquista l'individuo. sganciandosi sempre più dalla città, dalla religione, dalla stirpe.
Il coro è sempre la parte che irrora il complesso dell'opera di splendore lirico. Esso, sostiene il Murray[18] traduce il particolare in universale, e trasforma la sventura in poesia. Le sofferenze vengono redente in bellezza dalle parole, dalla musica e dalla danza. I coreuti talora sono esseri soprannaturali come le Eumenidi, talora umani invasati o attraversati da grandi emozioni, come le Baccanti. Il canto di queste creature ci porta lontano dal contingente, a volte dalla stessa trama del dramma. Murray fa l'esempio del quinto Stasimo della Medea, il canto successivo all'infanticidio. Nella seconda antistrofe (vv. 1282 - 1292) le donne di Corinto, che più volte hanno espresso solidarietà a Medea, cantano:
"Di una sola donna tra quelle che vissero un tempo/ho sentito dire che scagliò le mani contro i figli: /Ino resa pazza dagli dèi, quando la moglie/di Zeus la cacciò da casa di corsa. /Si getta la disgraziata nel mare/dopo l'empia strage dei figli, /e avere teso il piede oltre la riva marina, /e muore una morte comune con le sue creature. /Quale altra atrocità potrebbe accadere?/oh letto delle donne/causa di molti travagli, quanti mali hai già fatto ai mortali!".
Il coro dunque, commenta il Murray, ci porta lontano. L'urlo di morte non viene dalla stanza accanto, ma è l'eco di un pianto che risuona dal fondo dei secoli. La tragedia di Medea è assimilata a quella di Ino, figlia di Cadmo, la quale, fatta impazzire da Era, uccise i propri figli.
 La Memoria, madre delle Muse ha compiuto la sua opera. Ansie, attaccamenti, frivolezze, ogni cosa transitoria svanisce, e, come stelle nella notte, brillano il bello e l'eterno.
 Tale potenza di trasfigurazione dunque si ottiene per mezzo del coro che canta non solo la sofferenza ma anche la felicità dell'uomo. Quando le forze malefiche hanno compiuto tutta la loro distruzione, scopriamo che rimane nell'anima qualche cosa che sfugge per sempre al loro potere e ha la forza di rendere bella la vita. Così Euripide trasfigura la realtà tragica in poesia.
Così i delitti più atroci, perfino l’assassinio dei figli, o dei genitori, possono assumere una dignità estetica e religiosa: “ Proust ricordava che nessun altare fu considerato dagli antichi più sacro, circondato da più profonda venerazione e superstizione quanto le tombe d’Edipo a Colono e di Oreste a Sparta”[19].
 "La realizzazione delle parti corali della tragedia greca costituisce il punto dolente di ogni allestimento moderno. Il teatro borghese da Menandro a Pirandello e oltre non ammette la coralità. Nella prefazione al Conte di Carmagnola, Manzoni dichiarava di avere riservato, mediante il Coro, un cantuccio all'autore, per un momento di riflessione. Forse, nella nostra civiltà letteraria manca proprio la capacità di ascoltare e incarnare in un coro le voci provenienti dall'interno della società. Nel teatro di questo secolo si possono citare solo due eccezioni: la banda di straccioni e mendicanti della brechtiana Opera da tre soldi e le povere donne di Canterbury in Assassinio nella Cattedrale, un dramma speciale e classicistico di T. S. Eliot[20]".


continua




[1]Estetica, p. 1429.
[2] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, pp. 50 - 51.
[3] Corso di letteratura drammatica, lezione III.
[4] A. Manzoni, Il conte di Carmagnola, Prefazione.
[5] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 51.
[6] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 52.
[7]La nascita della tragedia, pp. 52 sgg.
[8] G. D'Annunzio, Faville del maglio, La resurrezione del centauro (1907).
[9] Paul e Virginie (del 1788), p, 135.
[10] T. Mann, La morte a Venezia (del 1913) p. 139.
[11] Con Euripide "Al posto della consolazione metafisica è subentrato il deus ex machina... ossia il dio delle macchine e dei crogiuoli" (La nascita della tragedia, p. 117 e p. 118.)
[12] "The time is out of joint" (Amleto, I, 5)., il tempo si è disarticolato, dice il principe di Danimarca dopo avere visto e sentito lo spettro del padre che chiede vendetta del turpe e snaturato assassinio Così pure il mondo del Thyestes di Seneca è uscito dai cardini. Il retrocedere del sole suggerisce queste parole al quarto coro atterrito: "Nos e tanto visi populo/digni, premeret quos everso/cardine mundus; /in nos aetas ultima venit. /O nos dura sorte creatos, /seu perdidimus solem miseri, /sive expulimus! " (vv. 876 - 882), noi tra tanta gente siamo sembrati degni di essere schiacciati dal mondo dopo il rovescio dei cardini; l'ultima era è arrivata su di noi. O creati con dura sorte, sia che abbiamo perduto il sole, disgraziati, sia che l'abbiamo cacciato (ndr).
[13] La nascita della tragedia, p. 55.
[14] La nascita della tragedia, p. 56.
[15]La nascita della tragedia, p. 96.
[16]Cfr. Poetica 1456a già citato.
[17]La nascita della tragedia, pp. 96 - 97.
[18]Euripide e i suoi tempi, Laterza, 1932.
[19] Giovanni Macchia, L’angelo della notte, p. 166.
[20] U. Albini, Nel nome di Dioniso, p. 73. 

1 commento:

  1. bellissimo,come sempre.....mi fa pensare molto il punto dove parli dell'infanticidio. Nella cronaca attuale tante madri imitano Medea. Sicuramente esiste un pubblico che assiste. Esiste un omologo del coro? Ti leggo sempre con grande piacere. Giovanna Tocco

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