Il coro di Agamennone, 2014 foto G. L. Carnera, Archivio Fondazione Inda |
La funzione del coro
Senofonte, Demostene, Hegel,
Leopardi, Manzoni, Nietzsche, A. W. Schlegel, Schiller, Murray.
Voglio riferire
alcune interpretazioni sulla funzione
del coro nella tragedia
Senofonte nei Memorabili fa dire a
Socrate che i cori tragici sono un modello di ordine e disciplina: “non vedi - dice
a Pericle che si lamentava della scarsa disciplina degli Ateniesi - come nei
cori tragici non sono inferiori a nessuno nell’obbedire agli istruttori?” (3, 5,
18).
Un analogo elogio
dei cori si trova nella I Filippica di Demostene il quale contrappone la serietà dell’organizzazione delle
feste Dionisie e Panatenee al disordine, alla confusione e all’improvvisazione
delle spedizioni militari. Le feste infatti sono rigorosamente disciplinate: nulla
in queste viene trascuratamente lasciato privo di esame e non ben definito: “oujde; n ajnexevtaston
oujd j ajovriston ejn touvtoi~ hjmevlhtai (36).
Il coro è la "coscienza sostanziale, superiore, che distoglie dai falsi
conflitti e prepara la soluzione.. è, di fronte ai singoli eroi, il popolo
quale terreno fecondo da cui gli individui, quali fiori e piante tese in alto, nascono
dal loro proprio suolo" (Estetica,
p. 1604).
Il coro può
anche"essere paragonato al tempio dell'architettura il quale circonda la
statua del dio, che qui diviene l'eroe in azione" (p. 1605).
Leopardi nello Zibaldone afferma che l'uso del coro è
"parte di quel vago, di quell'indefinito ch'è la principal cagione dello charme dell'antica poesia e bella
letteratura. L'individuo è sempre cosa piccola, spesso brutta, spesso
disprezzabile. Il bello e grande ha bisogno dell'indefinito, e questo
indefinito non si poteva introdurre sulla scena, se non introducendovi la
moltitudine" (2804). Il canto corale, a più voci, dunque entra nella sua
poetica del vago e dell’indefinito
Manzoni nella Prefazione a Il conte di
Carmagnola sostiene che dei "Cori dei greci" si possa rinnovare
lo spirito "inserendo degli squarci lirici composti sull'idea di que'
Cori". Questi squarci, per il fatto di essere indipendenti dall'azione, possono
avere "uno slancio più lirico, più variato e più fantastico. Hanno inoltre
sugli antichi il vantaggio d'essere senza inconvenienti: non essendo legati con
l'orditura dell'azione, non saranno mai cagione che questa si alteri e si
scomponga per farceli stare. Hanno finalmente un altro vantaggio per l'arte, in
quanto, riserbando al poeta un cantuccio dov'egli possa parlare in persona
propria, gli diminuiranno la tentazione d'introdursi nell'azione, e di prestare
ai personaggi i propri sentimenti".
In La nascita della tragedia Nietzsche ricorda la tradizione la
quale "ci dice con piena risolutezza che
la tragedia è sorta dal coro tragico, e che originariamente essa era
soltanto coro e niente altro che coro; donde ci viene l’obbligo di scrutare nel
cuore di questo coro tragico come nel vero e proprio dramma originario, senza
in qualche modo accontentarci delle frasi retoriche correnti - che esso era lo
spettatore ideale o che doveva rappresentare il popolo di fronte alla regione
regale della scena... dato che da quelle origini puramente religiose rimane
esclusa tutta la contrapposizione tra popolo e re, e in genere qualsiasi sfera
politico - sociale "[2].
L'idea di
identificare il coro come lo spettatore ideale risale ad A. W. Schlegel[3] e deve avere fatto epoca, poiché la ricorda
anche Manzoni nella già menzionata Prefazione: “ Mi rimane a render conto del
Coro introdotto una volta in questa tragedia, il quale, per non essere nominati
personaggi che lo compongano, può parere un capriccio o un enimma. Non posso
meglio spiegarne l’intenzione, che riportando in parte ciò che il signor
Schlegel ha detto dei Cori greci: Il Coro
è da riguardarsi come la personificazione de’ pensieri morali che l’azione
ispira, come l’organo de’ sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera
umanità. E poco sotto: Vollero i
Greci che in ogni dramma il Coro…fosse prima di tutto il rappresentante dell’umanità:
il Coro era insomma lo spettatore ideale: esso temperava l’impressioni violente
e dolorose d’un azione qualche volta troppo vicina al vero; e riverberando, per
così dire, allo spettatore reale le sue proprie emozioni, gliele rimandava
raddolcite dalla vaghezza d’un espressione lirica e armonica e lo conduceva
così nel campo più tranquillo della contemplazione. Ora m’è parso che, se i
Cori dei greci non sono combinabili col sistema tragico moderno, si possa però
ottenere in parte il loro fine, e rinnovarne lo spirito, inserendo degli
squarci lirici composti sull’idea di que’ Cori”[4]. Così siamo tornati e ci colleghiamo alla
citazione precedente.
Nietzsche invece rifiuta, quasi con sdegno, l’asserzione che il coro corrisponda
allo spettatore ideale: “un'affermazione rozza e non scientifica, ma brillante,
che però ha ricevuto il suo splendore solo dalla forma concentrata della sua
espressione, dalla prevenzione prettamente germanica a favore di tutto ciò che
viene detto ideale, e dal nostro stupore momentaneo"[5].
La formula non regge
siccome lo spettatore e il coro sono entità differenti.
Il pubblico ha la
consapevolezza di assistere a un'opera d'arte, non a una realtà empirica, mentre
il "coro tragico dei Greci è costretto a riconoscere nelle figure della
scena esistenze concrete. Il coro delle Oceanidi crede di vedere realmente
davanti a sé il titano Prometeo, e ritiene se stesso altrettanto reale quanto
il dio della scena"[6].
Maggiore credito
viene data dal filosofo tedesco alla definizione proposta nella "famosa prefazione alla Sposa di Messina, da Schiller,
che considerava il coro come un muro vivente che la tragedia tracciava intorno a sé, per isolarsi nettamente
dal mondo reale e per serbare il suo terreno ideale e la sua libertà
poetica…L’introduzione del coro è il passo decisivo, con il quale viene
dichiarata apertamente e lealmente la guerra a ogni naturalismo in arte... Certo
è un terreno "ideale" quello su cui, secondo la giusta veduta di
Schiller, suole muoversi il coro greco dei Satiri, il coro della tragedia
originaria; è un terreno molto al di sopra del sentiero reale dei mortali... La
tragedia si è sviluppata su questo fondamento e certo già per questo è stata
fin dal principio dispensata da una penosa riproduzione della realtà…Il satiro
come coreuta dionisiaco vive in una realtà religiosamente riconosciuta sotto la
sanzione del mito e del culto... il Satiro, il finto essere naturale, sta
rispetto all'uomo civile nello stesso rapporto in cui la musica dionisiaca sta
rispetto alla civiltà. Di quest'ultima Richard Wagner dice che viene annullata
dalla musica, come il lume della lampada dalla luce del giorno. In ugual
maniera, io credo, l’uomo civile greco si sentiva annullato al cospetto del
coro dei Satiri; e l'effetto immediato della tragedia dionisiaca consiste in
questo, che Stato e la società, e in genere gli abissi fra uomo e uomo, cedono
a un soverchiante sentimento di unità che riconduce al cuore della natura. La
consolazione metafisica, lasciata alla fine in noi da ogni vera tragedia - lo
dico fin d’ora - per cui la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente
potente e gioiosa, questa consolazione, appare in corposa chiarezza come coro
dei Satiri, come coro di esseri naturali, che per così dire vivono incorruttibili
dietro ogni civiltà, e, nonostante ogni mutamento delle generazioni e della
storia dei popoli, rimangono eternamente gli stessi "[7].
Da una parte è vero
che l'uomo moderno "non è se non un centauro storpio e mutilato il quale
ricostituisce il mito primitivo riconnettendo indissolubilmente il suo genio
all'energia atroce della natura"[8]. Né è falso quanto afferma Bernardin De
Saint - Pierre che noi Europei sin dall'infanzia abbiamo "la mente piena
di pregiudizi contrari alla felicità" e non possiamo più comprendere
"quanti lumi e piaceri possa dare la natura"[9].
D’altra parte la
componente istintiva, prima repressa poi scatenata alla distruzione, mai
applicata all'incremento della vita, porta Gustav
Aschenbach alla morte, preannunciata da una fantasia onirica memore dei
riti orgiastici delle Baccanti: " Al ritmo dei timpani si squassava
il suo cuore, il cervello vorticava; ira accecamento, stordimento voluttuoso
invadevano la sua anima, smaniosa di accordarsi al tripudio del dio. Ed ecco, enorme,
ligneo, scoprirsi e innalzarsi l'osceno simbolo; a quella vista tra sfrenati
clamori, tutti gridarono la formula rituale e con la schiuma alle labbra si
precipitarono in un'orgia pazzesca. Ridenti, singhiozzanti, si eccitavano a
vicenda con gesti sconci e carezze lubriche, e si cacciavano l'un l'altro i
pungoli nelle carni, leccando il sangue che colava sulle membra"[10].
Quanto alla
“consolazione metafisica”, la cui scomparsa Nietzsche in La nascita della tragedia, attribuisce a Euripide[11], quale colpa, nel Tentativo di autocritica aggiunto nel 1886 a quest’opera giovanile,
essa verrà ripudiata come un errore dovuto alla prolissità della giovinezza
appunto, all’influenza del romanticismo e del cristianesimo: “metafisicamente
consolati, insomma come finiscono i romantici, cristianamente…No! Dovreste prima imparare l’arte della
consolazione dell’al di qua”. Ma torniamo alle pagine e alla consolazione
metafisica della stesura del 1871.
“Con questo coro
trova consolazione il Greco profondo, dotato in modo unico per la sofferenza
più delicata e più aspra, che ha contemplato con sguardo tagliente il terribile
processo di distruzione della cosiddetta storia universale, come pure la
crudeltà della natura, e corre il pericolo di anelare a una buddistica
negazione della volontà. Lo salva l’arte, e mediante l’arte lo salva a sé la
vita…In questo senso l’uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno
gettato una volta uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno conosciuto, e provano nausea di fronte
all’agire; giacché la loro azione non può mutare nulla nell’essenza eterna
delle cose, ed essi sentono come ridicolo o infame che si pretenda da loro che
rimettano in sesto il mondo che è fuori dai cardini [12] La conoscenza uccide l'azione, per agire
occorre essere avvolti nell'illusione"[13].
L'arte però ci salva
dalla negazione della volontà: "Ed ecco, in questo estremo pericolo della
volontà, si avvicina, come maga che salva e risana, l'arte; soltanto lei è capace di volgere quei
pensieri di disgusto per l’atrocità o l’assurdità dell’esistenza in
rappresentazioni con cui si possa vivere: queste sono il sublime come
repressione artistica dell’atrocità e il comico come sfogo artistico del
disgusto per l’assurdo. Il coro dei satiri del ditirambo, ecco l'azione
salvatrice dell'arte greca "[14].
Il coro "può essere inteso soltanto come causa della tragedia e del tragico in
genere"[15].
Sofocle però comincia a ridurre questa
funzione: "Già in Sofocle appare quella perplessità riguardo al coro - un
segno importante che già in lui il terreno dionisiaco della tragedia comincia a
sgretolarsi. Egli non osa più affidare al coro la parte principale e più
efficace, e ne limita invece a tal punto il dominio, che esso appare ora quasi
coordinato agli attori, come se venisse sollevato dall'orchestra e portato in
scena: con ciò certo la sua essenza è totalmente distrutta, per quanto
Aristotele[16] dia la sua approvazione proprio a questa
concezione del coro. Quello spostamento della posizione del coro, che comunque
Sofocle ha raccomandato con la sua prassi e, secondo la tradizione, addirittura
con uno scritto, è il primo passo verso la distruzione
del coro, le cui fasi si susseguono con spaventosa rapidità in Euripide, in
Agatone e nella commedia nuova. La dialettica ottimistica scaccia la musica dalla tragedia con la sferza dei
suoi sillogismi, cioè distrugge l'essenza della tragedia, che si può
interpretare unicamente come una manifestazione e raffigurazione di stati
dionisiaci, come simbolizzazione della musica, come il mondo di sogno di
un'ebbrezza dionisiaca"[17].
Certo è che dal
ditirambo originario, a Eschilo a Euripide, così come pure nella commedia, dal
primo all’ultimo Aristofane, il coro perde progressivamente importanza, a mano
a mano che ne acquista l'individuo. sganciandosi sempre più dalla città, dalla
religione, dalla stirpe.
Il
coro è sempre la parte che irrora il complesso dell'opera di splendore lirico. Esso,
sostiene il Murray[18]
traduce il particolare in universale, e trasforma la sventura in poesia. Le
sofferenze vengono redente in bellezza dalle parole, dalla musica e dalla danza.
I coreuti talora sono esseri soprannaturali come le Eumenidi, talora umani invasati o attraversati da grandi emozioni, come
le Baccanti. Il canto di queste
creature ci porta lontano dal contingente, a volte dalla stessa trama del
dramma. Murray fa l'esempio del quinto
Stasimo della Medea, il canto
successivo all'infanticidio. Nella seconda antistrofe (vv. 1282 - 1292) le
donne di Corinto, che più volte hanno espresso solidarietà a Medea, cantano:
"Di
una sola donna tra quelle che vissero un tempo/ho sentito dire che scagliò le
mani contro i figli: /Ino resa pazza dagli dèi, quando la moglie/di Zeus la
cacciò da casa di corsa. /Si getta la disgraziata nel mare/dopo l'empia strage
dei figli, /e avere teso il piede oltre la riva marina, /e muore una morte
comune con le sue creature. /Quale altra atrocità potrebbe accadere?/oh letto
delle donne/causa di molti travagli, quanti mali hai già fatto ai
mortali!".
Il
coro dunque, commenta il Murray, ci porta lontano. L'urlo di morte non viene
dalla stanza accanto, ma è l'eco di un pianto che risuona dal fondo dei secoli.
La tragedia di Medea è assimilata a quella di Ino, figlia di Cadmo, la quale, fatta
impazzire da Era, uccise i propri figli.
La Memoria, madre delle Muse ha compiuto la
sua opera. Ansie, attaccamenti, frivolezze, ogni cosa transitoria svanisce, e, come
stelle nella notte, brillano il bello e l'eterno.
Tale potenza di trasfigurazione dunque si
ottiene per mezzo del coro che canta non solo la sofferenza ma anche la
felicità dell'uomo. Quando le forze malefiche hanno compiuto tutta la loro
distruzione, scopriamo che rimane nell'anima qualche cosa che sfugge per sempre
al loro potere e ha la forza di rendere bella la vita. Così Euripide trasfigura
la realtà tragica in poesia.
Così
i delitti più atroci, perfino l’assassinio dei figli, o dei genitori, possono
assumere una dignità estetica e religiosa: “ Proust ricordava che nessun altare fu considerato dagli antichi più
sacro, circondato da più profonda venerazione e superstizione quanto le tombe
d’Edipo a Colono e di Oreste a Sparta”[19].
"La realizzazione delle parti corali
della tragedia greca costituisce il punto dolente di ogni allestimento moderno.
Il teatro borghese da Menandro a Pirandello e oltre non ammette la coralità. Nella
prefazione al Conte di Carmagnola, Manzoni dichiarava di avere
riservato, mediante il Coro, un cantuccio all'autore, per un momento di
riflessione. Forse, nella nostra civiltà letteraria manca proprio la capacità di ascoltare e incarnare in un coro le voci provenienti
dall'interno della società. Nel teatro di questo secolo si possono citare solo due eccezioni: la banda di
straccioni e mendicanti della brechtiana
Opera da tre soldi e le povere donne di Canterbury in Assassinio
nella Cattedrale, un dramma speciale e classicistico di T. S. Eliot[20]".
continua
[1]Estetica, p. 1429.
[2]
F. Nietzsche, La nascita della tragedia,
pp. 50 - 51.
[3]
Corso di letteratura drammatica,
lezione III.
[4]
A. Manzoni, Il conte di Carmagnola,
Prefazione.
[5]
F. Nietzsche, La nascita della tragedia,
p. 51.
[6]
F. Nietzsche, La nascita della tragedia,
p. 52.
[7]La nascita della tragedia, pp. 52 sgg.
[8]
G. D'Annunzio, Faville del maglio, La resurrezione del centauro (1907).
[9]
Paul e Virginie (del 1788), p, 135.
[10]
T. Mann, La morte a Venezia (del 1913) p. 139.
[11] Con Euripide "Al posto della consolazione
metafisica è subentrato il deus ex
machina... ossia il dio delle macchine e dei crogiuoli" (La
nascita della tragedia, p. 117 e p. 118.)
[12] "The time is out of joint" (Amleto,
I, 5)., il tempo si è disarticolato, dice il principe di Danimarca dopo avere
visto e sentito lo spettro del padre che chiede vendetta del turpe e snaturato
assassinio Così pure il mondo del Thyestes di Seneca è uscito dai
cardini. Il retrocedere del sole suggerisce queste parole al quarto coro
atterrito: "Nos e tanto visi populo/digni, premeret quos everso/cardine
mundus; /in nos aetas ultima venit. /O nos dura sorte creatos, /seu perdidimus
solem miseri, /sive expulimus! " (vv. 876 - 882), noi tra tanta gente
siamo sembrati degni di essere schiacciati dal mondo dopo il rovescio dei
cardini; l'ultima era è arrivata su di noi. O creati con dura sorte, sia che
abbiamo perduto il sole, disgraziati, sia che l'abbiamo cacciato (ndr).
[13]
La nascita della tragedia, p. 55.
[14]
La nascita della tragedia, p. 56.
[15]La nascita della tragedia, p. 96.
[16]Cfr.
Poetica 1456a già citato.
[17]La nascita della tragedia, pp. 96 - 97.
[18]Euripide
e i suoi tempi,
Laterza, 1932.
[19]
Giovanni Macchia, L’angelo della notte,
p. 166.
[20]
U. Albini, Nel nome di Dioniso, p. 73.
bellissimo,come sempre.....mi fa pensare molto il punto dove parli dell'infanticidio. Nella cronaca attuale tante madri imitano Medea. Sicuramente esiste un pubblico che assiste. Esiste un omologo del coro? Ti leggo sempre con grande piacere. Giovanna Tocco
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