Ora veniamo al riconoscimento
Esso è, come dice la
parola ejx
ajgnoiva~ eij~ gnw'sin metabolhv
(1452a, 30) un cambiamento dalla non conoscenza alla conoscenza.
Il miglior
riconoscimento è quello di Oreste che si rivela da sé, dicendo quello che vuole
il poeta, non ciò che esige il racconto.
Poi, kallivsth de; ajnagnwvrisi~ è quello che avviene insieme con la
peripezia (o{tan
a{ma peripeteiva/ gevnhtai, 1452 a, 32 - 33) come per esempio nell’Edipo re.
Il terzo tipo di
riconoscimento avviene attraverso la memoria (hJ trivth dia; mnhvmh~, 1454b, 37) come nella narrazione di Alcinoo. Si
tratta ancora dell’Odissea quando Odisseo
si commuove sentendo Demodoco che alla corte dei Feaci canta la lite tra Achille
Pelide e lo stesso Laerziade[1].
Varie sono le forme
del riconoscimento (ei[dh de; ajnagnwrivsew~,
1454b, 20). La prima, più usata e più estranea all’arte (hJ ajtecnotavth) avviene attraverso segni (dia; tw'n shmeivwn, 1454b, 21) che possono essere congeniti (suvmfuta) o acquisiti (ejpivkthta 1454b, 23). Esempio di segno congenito è la lancia che portavano sulla
pelle i Ghgenei'~,
i figli della terra progenitori
dei Tebani, mentre i segni acquisiti possono essere ferite (oujlaiv, 1454b, 24) impresse sul corpo, come la
cicatrice di Odisseo[2], oppure oggetti esterni al corpo, come
collane, o la culla a forma di barca attraverso la quale nella Tiro di Sofocle la madre riconosce i
figli Pelio e Neleo che vi erano stati esposti. Ci sono poi i riconoscimenti di
secondo tipo, quelli fatti dal poeta, e nemmeno questi sono artistici. Nell’Ifigenia fra i Tauri, la protagonista si
rivela attraverso la lettera (dia; th'~ ejpistolh'~, 1454b, 34)
C’è
un quarto tipo di riconoscimento: quelli che avviene ejk sullogismou' (1455a,
4), attraverso un sillogismo, come nelle Coefore
di Eschilo, dove Elettra deduce che il fratello è arrivato, con un ragionamento
fatto dopo avere trovato sulla tomba del padre "un ricciolo tagliato"
(oJrw'
tomai'on tovnde bovstrucon tavfw/, Coefore,
v. 168) [3], una
ciocca di capelli simili ai propri: qualcuno che mi assomiglia è stato qui, ma
solo Oreste mi somiglia, dunque quello era Oreste. Quindi Elettra trova un
secondo indizio: tracce di piedi simili alle sue: “kai; mh; n stivboi ge, deuvteron
tekmhvrion, - podw'n, oJmoi'oi, toi'~ t j ejmoi'sin” (Coefore,
vv. 205 - 206).
Nemmeno questo è il riconoscimento ottimo, ma
quello che deriva dagli stessi fatti (pasw'n de; beltivsth ajnagnwvrisi~ hJ ejx
aujtw'n tw'n pragmavtwn1455a, 16), come nell’Edipo di Sofocle e nell’Ifigenia poiché era verosimile voler mandare una lettera (eijko; ~ ga; r bouvlesqai
ejpiqei'nai gravmmata, 1455a, 19).
Il
riconoscimento delle Coefore viene criticato più duramente da Euripide nell'Elettra[4] dove la stessa figlia di Agamennone polemizza con
il sillogismo di Eschilo riproposto dal vecchio che l’ha allevata, in quanto, dice,
i capelli di Oreste non possono essere simili ai miei, siccome egli è un uomo
cresciuto nelle palestre; io invece sono una donna che usa il pettine; del
resto molti hanno riccioli simili senza essere parenti (Elettra, vv. 527 - 531). Altrettanto aspramente viene
confutato l'indizio delle orme che il prevsbu~, quasi echeggiando Eschilo, le fa notare (i[cno~…ajrbuvlh~, v. 532, l’impronta dello stivale), dopo i
"riccioli recisi dalla testa bionda" (Elettra, v. 515). Le impronte infatti sulla roccia, replica
Elettra, non restano neppure, e anche se rimanessero, quelle del fratello non
sarebbero uguali a quelle della sorella, ma più grandi (Elettra, vv. 534 - 537). Il riconoscimento avviene
comunque poco più avanti attraverso il segno convincente di una cicatrice sul
sopracciglio (oulh; [5]
par j ojfruvn) che Oreste si procurò
inseguendo con la sorella un cerbiatto nel palazzo del padre (Elettra, vv. 573 - 574).
Ho
riferito questi versi euripidei per dare un saggio di come la tendenza al
ragionare si sviluppa dal poeta più antico a quello più recente in un crescendo
che, secondo i detrattori di Euripide, giunge ad uccidere lo spirito dionisiaco
e la pietà tragica.
Il riconoscimento è
cruciale per l’avvio alla catarsi. Il non riconoscimento, nella tragedia greca,
come nel Nuovo Testamento è qualche cosa di negativo. “Il non - riconoscimento
sostituisce, nel mondo degli uomini, la lucida opposizione delle potenze
demoniache nel mondo spirituale (il disconoscimento, il non riconoscimento
potrebbe quindi essere la figura
umana dell’ostilità del demone) ”[6].
Tornando ancora alla
Poetica che mi sembra la propedeutica
più seria, seppure meno brillante di altre, alla tragedia greca, Aristotele sostiene
che il pensiero (diavnoia) mette in
grado di dire quanto è possibile e appropriato (ta; ejnovnta kai; ta; aJrmovttonta1450b, 5), e questo poi è il compito della
politica e della retorica riguardo ai discorsi: infatti gli antichi
rappresentavano personaggi che parlavano politicamente, i moderni invece
retoricamente (1450b, 7 - 8).
Direi che i
personaggi della tragedia parlano tutti politicamente.
Infatti per l'uomo
greco che viveva nella povli"
democratica la solitudine dell’impolitico è una condizione innaturale: "benché
si muovesse liberamente, l' individuo restava nell'ambito delle determinazioni
sostanziali, nello stato, nella famiglia, nel fato. Questa
determinazione sostanziale è la vera e propria fatalità della tragedia greca, e
la sua vera e propria caratteristica. La rovina dell'eroe non è perciò solo una
conseguenza della sua azione, ma è anche un patire"[7].
Allora
l’eroe della tragedia, secondo Kierkegaard,
come per Aristotele, non è del tutto colpevole. Ma l’attenuazione della colpa
non riduce la pena: “La pena è più profonda poiché la colpa ha l’ambiguità
estetica”[8].
Quanto alle
cosiddette "unità aristoteliche",
per quella di tempo l'autore dice che la tragedia "cerca (peira'tai) di stare il più possibile in un sol giro di
sole o di eccederne di poco" (1449b, 13). Come si vede non si tratta di
una prescrizione, ma, per dirla con il Manzoni che cita “il signor Schlegel”[9] approvandolo, della " semplice notizia
di un fatto"[10]; eppure i critici del Rinascimento ne
dedussero la regola dell'unità di tempo. Più prescrittivo è Aristotele a
proposito dell'unità di azione: "la tragedia - afferma - è imitazione di
un'azione compiuta e intera che abbia una certa grandezza" (1450b, 24 - 25),
e questa non deve essere eccessiva né da una parte né dall'altra, ma offrire
con la sua giusta misura una buona sinossi, o visione d'insieme (1451a, 4).
Quanto all’unità di
luogo cui Aristotele nemmeno fa cenno, sentiamo ancora Manzoni: “è nata dal
fatto che la più parte delle tragedie greche imitano un’azione la quale si
compie in un sol luogo, e dalla idea che il teatro greco sia un esemplare
perpetuo ed esclusivo di perfezione drammatica”[11].
Vediamo invece
quanto prescrive Aristotele riguardo ai caratteri (peri; de; ta; h[qh, 1454a, 16).
“Per il filosofo il
carattere è la disposizione alla virtù o al vizio quale si rivela nella proairesis, ossia nell’intenzione etica
che il soggetto, attraverso l’azione o le parole, consapevolmente esprime
quando si trova ad affrontare scelte significative (Poet. 6, 1450 b 8 s.) : “carattere
è ciò che rivela quale sia il proponimento (perciò non hanno carattere quei
discorsi da cui manca ogni riferimento a ciò che il parlante si propone o vuole
evitare) ”[12].
Insomma il carattere
di una persona è dato dal suo orientamento, dalla sua preferenza, dal suo modo
di scegliere (proaivresi~ appunto).
I caratteri devono
innanzitutto essere buoni (crhstav).
Anche la donna e lo schiavo, ammette generosamente il filosofo, possono esserlo,
benché, precisa poi, la donna sia una creatura inferiore (cei'ron 1454a, 21) e lo schiavo una cosa di poco
conto (fau'lon).
“Aristotele è, al
contrario di Platone, un cultore del senso comune anche se, come lui, è un
tantino antidemocratico. Ed è forse proprio il suo senso comune quello che più
annebbia la sua visione”[13].
La seconda qualità
del carattere è che sia appropriato. Alla donna per esempio non si addice
essere tanto virile e terribile (oujc aJrmovtton gunaiki; ou{tw~ ajndreivan h] deinh; n
ei\nai, 1454a, 23).
Quanto all’essere deinhv della donna, Medea impersona queste terribilità: così la presenta la Nutrice nel Prologo della
tragedia: “ Siccome è tremenda (deinh; gavr)
: nessuno certo che abbia stretto/odio con lei, intonerà facilmente il canto
della vittoria (Medea, vv. 44 - 45).
La terza qualità del
carattere è la somiglianza (to; o{moion, 1454a, 24). Aristotele non dice a cosa e non fa esempi; sarà la
verosimiglianza, ossia la somiglianza al vero, secondo il principio della
mimesi. Poi viene la coerenza (to; oJmalovn, 1454a, 26).
Aristotele procede
indicando modelli negativi: Menelao nell'Oreste[14] di Euripide costituisce un esempio di
malvagità di carattere non necessaria, mentre la ragazza protagonista dell’ Ifigenia in Aulide[15] è un paradigma di incoerenza (tou' de; ajnwmavlou, 1454a, 31).
Tornerò su questi aspetti
del dramma, ma intanto chiarisco che Euripide è incline a caricare di vizi e
crudeltà i personaggi identificabili come “Spartani" nelle tragedie
rappresentate durante gli anni della Guerra del Peloponneso[16], con lo scopo di dare un'immagine negativa della
città nemica di Atene.
Quanto a Ifigenia, quella
"che supplica (hJ iJketeuvousa) non
assomiglia per niente alla successiva" (1454a, 32).
Nella tragedia di
Euripide la fanciulla prima piange e prega il padre suo di risparmiarla (Ifigenia in Aulide, vv. 1211 - 1252) arrivando
a dire, come Achille nell’Ade, che vivere male è meglio che morire bene (kakw'~ zh'n krei'sson
h] kalw'~ qanei'n, v. 1252) [17], poi cambia idea e, con tutta l’anima nobile
della quale Achille infatti si innamora (gennaiva ga; r ei\, v. 1411), offre il suo corpo per l’Ellade: “ divdwmi sw'ma toujmo; n
jEllavdi”,
v. 1397.
“In realtà è tutta
la tragedia nel suo complesso che sembra voler esplorare il tema della
mutevolezza psichica. Nella prima parte del dramma, infatti, a cambiare due
volte parere circa l’alternativa di fronte a cui sono posti - o rinunciare alla
guerra contro Troia o sacrificare Ifigenia - sono addirittura i due capi della
spedizione, Agamennone e Menelao, che in maniera quasi paradossale a turno
sostengono tesi speculari ed opposte”[18].
In effetti Euripide
ama raffigurare slanci repentini e inopinati di giovani mossi da impulsi
generosi e irrazionali. Ma Aristotele pretende che l'rrazionale (a[logon, 1454b, 5) rimanga fuori dalla tragedia come
nell'Edipo di Sofocle. La Medea di
Euripide viene criticata poiché la soluzione del racconto non avviene per
effetto del racconto stesso ma attraverso una macchina (ajpo; mhcanh'~, 1454b, 2).
Contro questa pretesa di ridurre in termini di
logica il dramma dove coesistono apollineo e dionisiaco in una coincidentia oppositorum, insorgerà
Nietzsche, come vedremo.
Interessante è anche
la condanna del mostruoso, to; teratw'de~ (1453b, 9) : coloro che lo mettono al posto del legittimo pauroso (to; foberovn), "non hanno nulla in comune con la
tragedia".
Ho riferito questa
affermazione poiché, invece è tipico del decadentismo, e di quasi tutta l'arte
del Novecento, evidenziare gli aspetti patologici e deformi della realtà, insomma
il ritorno e la rivincita del Caos: "se
l'umanità fosse capace di fare un sogno collettivo, sognerebbe
Moosbrugger"[19] che era un idiota squartatore di prostitute,
pensa il raffinato e indolente protagonista del romanzo di Musil.
Notevole è pure la prescrizione secondo la
quale il racconto va composto e il linguaggio rifinito avendo sempre situati
davanti agli occhi (pro; ojmmavtwn) la
composizione (1455a, 23), ossia il poeta deve calarsi negli eventi, "come
se fosse in mezzo ai fatti stessi". Su questo punto, che costituisce
sempre un ottimo monito per chi scrive, insistono diversi autori: Nietzsche, per
esempio, in La nascita della tragedia
afferma che il genio nell'atto della creazione artistica “è contemporaneamente
soggetto e oggetto, contemporeanamente poeta, attore e spettatore”[20].
Stanislavskij che studia l'altro versante, quello
dell’attore, sostiene che il testo debba essere esperienzializzato, siccome
"il vero artista arde con ciò che gli succede intorno, è attratto dalla
vita che è divenuta oggetto del suo studio e della sua passione, si pasce
avidamente di ciò che vede, si sforza di marcare quanto riceve
dall’esterno"[21].
E ancora: “Ricordate
il mio consiglio: non si può entrare a teatro con le scarpe sporche. Pulitevi
le suole prima di entrare, lasciate il fango fuori dalla porta. Lasciate in
anticamera insieme alle soprascarpe, tutte le piccole preoccupazioni, i fastidi,
le meschinità che avviliscono la vita quotidiana, e vi distraggono dall’arte”[22].
Tuttavia nella
tragedia greca non si richiedeva l’adeguamento emotivo dell’attore al
personaggio perché gli attori non erano più di tre e ciascuno attore recitava
più di una parte.
“Una tarda
testimonianza di Apuleio (Flor. 18 comoedus sermocinatur, tragoedus vociferatur) differenzia in modo
netto la recitazione degli attori comici e degli attori tragici: di tipo
fortemente colloquiale l’una, fortemente sostenuta e incline alla declamazione
potente l’altra”[23].
Qualche cosa di
analogo dice Ovidio a proposito dello stile tragico e di quello comico: “Grande sonant tragici: tragicos decet ira
coturnos; usibus e mediis soccus habendus erit”[24], i tragici hanno un suono forte: l’ira si
addice ai coturni tragici: la commedia va tratta dall’esperienza quotidiana.
Anche il coro, afferma
Aristotele, deve essere parte del tutto e partecipare all'azione, al pari di uno
degli attori, non come in Euripide, ma come in Sofocle (1456a, 27).
Dopo Euripide le
parti cantate non sono connesse al racconto, e dopo l’esempio dato da Agatone ejmbovlima a{/dousin (1456a, 29) si cantano intermezzi.
continua
[1]Odissea, VIII, vv. 75 e sgg. Leopardi nota la poeticità di
questa situazione e di altre simili " chi non sente come sia poetico
quello scendere di Penelope dalle sue stanze solamente perch'ha udito il canto
di Femio, a pregarlo acciocché lasci quella canzone che racconta il ritorno de'
Greci da Troia, dicendo com'ella incessantemente l'affanna per la rimembranza e
il desiderio del marito, famoso in Grecia ed in Argo; e le lagrime di Ulisse udendo
a cantare i suoi casi, che volendole occultare, si cuopre la faccia, e così va
piangendo sotto il lembo della veste finattanto ch'il cantore non fa pausa, e
allora asciugandosi gli occhi, sempre che il canto ricomincia, si ricuopre e
ripiange; e cento altre cose di questa fatta?" Discorso di un italiano intorno alla
poesia romantica, p. 71.
[2]
Cfr. Odissea, XIX, 386 e sgg.
[3]
Il versante tragico di quella che sarà la chioma di Berenice.
[4]
Composta in una anno tra il 416 e il 413.
[5]
Cfr. il riconoscimento di Odisseo da parte di Euriclea il XIX canto dell’Odissea.
[6]
J, Starobinski, Tre furori, p. 84.
l’autore sta commentando l’episodio evangelico dell’indemoniato di Gerasa i cui
abitanti non riconoscono Cristo (Marco, v, 1 - 20).
[7]S.
Kierkegaard, Enten - Eller, Il
riflesso del tragico antico nel tragico moderno, Tomo Secondo, p. 24.
[8]
S. Kierkegaard, Enten - Eller, Il
riflesso del tragico antico nel tragico moderno, Tomo Secondo, p. 30.
[9]
A. W. Schlegel, Corso di letteratura
drammatica, (1808) Lezione X
[10]
A. Manzoni, Il conte di Carmagnola,
Prefazione (del 1820).
[11]
Opera e luogo citati sopra.
[12]
Di Marco, Op. cit., p. 137.
[13]
G. Murray, Le origini dell’Epica Greca,
p. 30.
[14]
Del 408 a. C.
[15]
Rappresentata postuma, nel 405 a. C.
[16] 431 - 404 a. C. Fa eccezione l’Elena (del 412), una tragedia anomala, a lieto fine, che evidenzia
l’assurdità della guerra di Troia combattuta per un fantasma. Tale giudizio
contro la guerra si trova anche
alla
fine dell’Elettra euripidea, quando Castore annuncia a Oreste che Elena sta
arrivando, insieme con Menelao, dall'Egitto, dalla casa di Proteo, poiché a
Troia non è mai andata, “Zeu;
~ d j,
wJ" e[ri"
gevnoito kai; fovno" brotw'n, - ei[dwlon JElevnh~ ejxevpemy j ej~ [Ilion ” (Elettra, vv. 1282 - 1283), ma Zeus mandò
a Ilio un'immagine (ei[dwlon) di lei,
affinché ci fosse guerra e strage dei mortali.
[17] E' il ribaltamento della sapienza silenica che
considera primo bene non essere nati, poi, come secondo, morire appena nati.
"Per esprimere con impressionante efficacia il suo rimpianto per la vita,
il morto Achille dice a Odisseo che lo incontra nell'oltretomba: vorrei
lavorare come un thes (qhteuevmen, Od. XI, 489) " F. Codino, Introduzione
a Omero, p. 128.
Sentiamo una formulazione
dostoevskijana di questo rovesciamento: “Dove ho mai letto”, pensò Raskolnikov
proseguendo il cammino, “ dove posso mai aver letto che quel condannato a
morte, un’ora prima dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima
a uno scoglio, su una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due
piedi, con intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna e l’eterna procella, e
rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita,
per mille anni, per l’eternità, ebbene preferirebbe vivere così piuttosto che morire
all’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualche modo, ma
vivere!... Che verità, Signore Iddio, che verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è
un vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco, “ aggiunse subito dopo” F.
Dostoevskij, Delitto e castigo, p.
178.
[18]
Di Marco, Op. cit., p. 139.
[19]
L'uomo senza qualità, p. 71.
[20]
La nascita della tragedia, p. 43.
[21]
K. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore,
p. 133.
[22]
Op. cit, p. 176.
[23]
M Di Marco, Op. cit., p. 90.
[24]
Remedia amoris, 375 - 376.
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