NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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venerdì 18 settembre 2015

Introduzione alla tragedia greca. Parte V


Ora veniamo al riconoscimento
Esso è, come dice la parola ejx ajgnoiva~ eij~ gnw'sin metabolhv (1452a, 30) un cambiamento dalla non conoscenza alla conoscenza.
Il miglior riconoscimento è quello di Oreste che si rivela da sé, dicendo quello che vuole il poeta, non ciò che esige il racconto.
Poi, kallivsth de; ajnagnwvrisi~ è quello che avviene insieme con la peripezia (o{tan a{ma peripeteiva/ gevnhtai, 1452 a, 32 - 33) come per esempio nell’Edipo re.
Il terzo tipo di riconoscimento avviene attraverso la memoria (hJ trivth dia; mnhvmh~, 1454b, 37) come nella narrazione di Alcinoo. Si tratta ancora dell’Odissea quando Odisseo si commuove sentendo Demodoco che alla corte dei Feaci canta la lite tra Achille Pelide e lo stesso Laerziade[1].

Varie sono le forme del riconoscimento (ei[dh de; ajnagnwrivsew~, 1454b, 20). La prima, più usata e più estranea all’arte (hJ ajtecnotavth) avviene attraverso segni (dia; tw'n shmeivwn, 1454b, 21) che possono essere congeniti (suvmfuta) o acquisiti (ejpivkthta 1454b, 23). Esempio di segno congenito è la lancia che portavano sulla pelle i Ghgenei'~, i figli della terra progenitori dei Tebani, mentre i segni acquisiti possono essere ferite (oujlaiv, 1454b, 24) impresse sul corpo, come la cicatrice di Odisseo[2], oppure oggetti esterni al corpo, come collane, o la culla a forma di barca attraverso la quale nella Tiro di Sofocle la madre riconosce i figli Pelio e Neleo che vi erano stati esposti. Ci sono poi i riconoscimenti di secondo tipo, quelli fatti dal poeta, e nemmeno questi sono artistici. Nell’Ifigenia fra i Tauri, la protagonista si rivela attraverso la lettera (dia; th'~ ejpistolh'~, 1454b, 34)

C’è un quarto tipo di riconoscimento: quelli che avviene ejk sullogismou' (1455a, 4), attraverso un sillogismo, come nelle Coefore di Eschilo, dove Elettra deduce che il fratello è arrivato, con un ragionamento fatto dopo avere trovato sulla tomba del padre "un ricciolo tagliato" (oJrw' tomai'on tovnde bovstrucon tavfw/, Coefore, v. 168) [3], una ciocca di capelli simili ai propri: qualcuno che mi assomiglia è stato qui, ma solo Oreste mi somiglia, dunque quello era Oreste. Quindi Elettra trova un secondo indizio: tracce di piedi simili alle sue: “kai; mh; n stivboi ge, deuvteron tekmhvrion, - podw'n, oJmoi'oi, toi'~ t j ejmoi'sin” (Coefore, vv. 205 - 206).

 Nemmeno questo è il riconoscimento ottimo, ma quello che deriva dagli stessi fatti (pasw'n de; beltivsth ajnagnwvrisi~ hJ ejx aujtw'n tw'n pragmavtwn1455a, 16), come nell’Edipo di Sofocle e nell’Ifigenia poiché era verosimile voler mandare una lettera (eijko; ~ ga; r bouvlesqai ejpiqei'nai gravmmata, 1455a, 19).

Il riconoscimento delle Coefore viene criticato più duramente da Euripide nell'Elettra[4] dove la stessa figlia di Agamennone polemizza con il sillogismo di Eschilo riproposto dal vecchio che l’ha allevata, in quanto, dice, i capelli di Oreste non possono essere simili ai miei, siccome egli è un uomo cresciuto nelle palestre; io invece sono una donna che usa il pettine; del resto molti hanno riccioli simili senza essere parenti (Elettra, vv. 527 - 531). Altrettanto aspramente viene confutato l'indizio delle orme che il prevsbu~, quasi echeggiando Eschilo, le fa notare (i[cno~ajrbuvlh~, v. 532, l’impronta dello stivale), dopo i "riccioli recisi dalla testa bionda" (Elettra, v. 515). Le impronte infatti sulla roccia, replica Elettra, non restano neppure, e anche se rimanessero, quelle del fratello non sarebbero uguali a quelle della sorella, ma più grandi (Elettra, vv. 534 - 537). Il riconoscimento avviene comunque poco più avanti attraverso il segno convincente di una cicatrice sul sopracciglio (oulh; [5] par j ojfruvn) che Oreste si procurò inseguendo con la sorella un cerbiatto nel palazzo del padre (Elettra, vv. 573 - 574).

Ho riferito questi versi euripidei per dare un saggio di come la tendenza al ragionare si sviluppa dal poeta più antico a quello più recente in un crescendo che, secondo i detrattori di Euripide, giunge ad uccidere lo spirito dionisiaco e la pietà tragica.


Il riconoscimento è cruciale per l’avvio alla catarsi. Il non riconoscimento, nella tragedia greca, come nel Nuovo Testamento è qualche cosa di negativo. “Il non - riconoscimento sostituisce, nel mondo degli uomini, la lucida opposizione delle potenze demoniache nel mondo spirituale (il disconoscimento, il non riconoscimento potrebbe quindi essere la figura umana dell’ostilità del demone) ”[6].

Tornando ancora alla Poetica che mi sembra la propedeutica più seria, seppure meno brillante di altre, alla tragedia greca, Aristotele sostiene che il pensiero (diavnoia) mette in grado di dire quanto è possibile e appropriato (ta; ejnovnta kai; ta; aJrmovttonta1450b, 5), e questo poi è il compito della politica e della retorica riguardo ai discorsi: infatti gli antichi rappresentavano personaggi che parlavano politicamente, i moderni invece retoricamente (1450b, 7 - 8).
Direi che i personaggi della tragedia parlano tutti politicamente.
Infatti per l'uomo greco che viveva nella povli" democratica la solitudine dell’impolitico è una condizione innaturale: "benché si muovesse liberamente, l' individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello stato, nella famiglia, nel fato. Questa determinazione sostanziale è la vera e propria fatalità della tragedia greca, e la sua vera e propria caratteristica. La rovina dell'eroe non è perciò solo una conseguenza della sua azione, ma è anche un patire"[7].
Allora l’eroe della tragedia, secondo Kierkegaard, come per Aristotele, non è del tutto colpevole. Ma l’attenuazione della colpa non riduce la pena: “La pena è più profonda poiché la colpa ha l’ambiguità estetica”[8].




Quanto alle cosiddette "unità aristoteliche", per quella di tempo l'autore dice che la tragedia "cerca (peira'tai) di stare il più possibile in un sol giro di sole o di eccederne di poco" (1449b, 13). Come si vede non si tratta di una prescrizione, ma, per dirla con il Manzoni che cita “il signor Schlegel”[9] approvandolo, della " semplice notizia di un fatto"[10]; eppure i critici del Rinascimento ne dedussero la regola dell'unità di tempo. Più prescrittivo è Aristotele a proposito dell'unità di azione: "la tragedia - afferma - è imitazione di un'azione compiuta e intera che abbia una certa grandezza" (1450b, 24 - 25), e questa non deve essere eccessiva né da una parte né dall'altra, ma offrire con la sua giusta misura una buona sinossi, o visione d'insieme (1451a, 4).
Quanto all’unità di luogo cui Aristotele nemmeno fa cenno, sentiamo ancora Manzoni: “è nata dal fatto che la più parte delle tragedie greche imitano un’azione la quale si compie in un sol luogo, e dalla idea che il teatro greco sia un esemplare perpetuo ed esclusivo di perfezione drammatica”[11].

Vediamo invece quanto prescrive Aristotele riguardo ai caratteri (peri; de; ta; h[qh, 1454a, 16).
“Per il filosofo il carattere è la disposizione alla virtù o al vizio quale si rivela nella proairesis, ossia nell’intenzione etica che il soggetto, attraverso l’azione o le parole, consapevolmente esprime quando si trova ad affrontare scelte significative (Poet. 6, 1450 b 8 s.) : “carattere è ciò che rivela quale sia il proponimento (perciò non hanno carattere quei discorsi da cui manca ogni riferimento a ciò che il parlante si propone o vuole evitare) ”[12].

Insomma il carattere di una persona è dato dal suo orientamento, dalla sua preferenza, dal suo modo di scegliere (proaivresi~ appunto).
I caratteri devono innanzitutto essere buoni (crhstav). Anche la donna e lo schiavo, ammette generosamente il filosofo, possono esserlo, benché, precisa poi, la donna sia una creatura inferiore (cei'ron 1454a, 21) e lo schiavo una cosa di poco conto (fau'lon).
“Aristotele è, al contrario di Platone, un cultore del senso comune anche se, come lui, è un tantino antidemocratico. Ed è forse proprio il suo senso comune quello che più annebbia la sua visione”[13].

La seconda qualità del carattere è che sia appropriato. Alla donna per esempio non si addice essere tanto virile e terribile (oujc aJrmovtton gunaiki; ou{tw~ ajndreivan h] deinh; n ei\nai, 1454a, 23).
Quanto all’essere deinhv della donna, Medea impersona queste terribilità: così la presenta la Nutrice nel Prologo della tragedia: “ Siccome è tremenda (deinh; gavr) : nessuno certo che abbia stretto/odio con lei, intonerà facilmente il canto della vittoria (Medea, vv. 44 - 45).

La terza qualità del carattere è la somiglianza (to; o{moion, 1454a, 24). Aristotele non dice a cosa e non fa esempi; sarà la verosimiglianza, ossia la somiglianza al vero, secondo il principio della mimesi. Poi viene la coerenza (to; oJmalovn, 1454a, 26).
Aristotele procede indicando modelli negativi: Menelao nell'Oreste[14] di Euripide costituisce un esempio di malvagità di carattere non necessaria, mentre la ragazza protagonista dell’ Ifigenia in Aulide[15] è un paradigma di incoerenza (tou' de; ajnwmavlou, 1454a, 31).
Tornerò su questi aspetti del dramma, ma intanto chiarisco che Euripide è incline a caricare di vizi e crudeltà i personaggi identificabili come “Spartani" nelle tragedie rappresentate durante gli anni della Guerra del Peloponneso[16], con lo scopo di dare un'immagine negativa della città nemica di Atene.
Quanto a Ifigenia, quella "che supplica (hJ iJketeuvousa) non assomiglia per niente alla successiva" (1454a, 32).
Nella tragedia di Euripide la fanciulla prima piange e prega il padre suo di risparmiarla (Ifigenia in Aulide, vv. 1211 - 1252) arrivando a dire, come Achille nell’Ade, che vivere male è meglio che morire bene (kakw'~ zh'n krei'sson h] kalw'~ qanei'n, v. 1252) [17], poi cambia idea e, con tutta l’anima nobile della quale Achille infatti si innamora (gennaiva ga; r ei\, v. 1411), offre il suo corpo per l’Ellade: “ divdwmi sw'ma toujmo; n jEllavdi”, v. 1397.
“In realtà è tutta la tragedia nel suo complesso che sembra voler esplorare il tema della mutevolezza psichica. Nella prima parte del dramma, infatti, a cambiare due volte parere circa l’alternativa di fronte a cui sono posti - o rinunciare alla guerra contro Troia o sacrificare Ifigenia - sono addirittura i due capi della spedizione, Agamennone e Menelao, che in maniera quasi paradossale a turno sostengono tesi speculari ed opposte”[18].
In effetti Euripide ama raffigurare slanci repentini e inopinati di giovani mossi da impulsi generosi e irrazionali. Ma Aristotele pretende che l'rrazionale (a[logon, 1454b, 5) rimanga fuori dalla tragedia come nell'Edipo di Sofocle. La Medea di Euripide viene criticata poiché la soluzione del racconto non avviene per effetto del racconto stesso ma attraverso una macchina (ajpo; mhcanh'~, 1454b, 2).
 Contro questa pretesa di ridurre in termini di logica il dramma dove coesistono apollineo e dionisiaco in una coincidentia oppositorum, insorgerà Nietzsche, come vedremo.

Interessante è anche la condanna del mostruoso, to; teratw'de~ (1453b, 9) : coloro che lo mettono al posto del legittimo pauroso (to; foberovn), "non hanno nulla in comune con la tragedia".
Ho riferito questa affermazione poiché, invece è tipico del decadentismo, e di quasi tutta l'arte del Novecento, evidenziare gli aspetti patologici e deformi della realtà, insomma il ritorno e la rivincita del Caos: "se l'umanità fosse capace di fare un sogno collettivo, sognerebbe Moosbrugger"[19] che era un idiota squartatore di prostitute, pensa il raffinato e indolente protagonista del romanzo di Musil.

 Notevole è pure la prescrizione secondo la quale il racconto va composto e il linguaggio rifinito avendo sempre situati davanti agli occhi (pro; ojmmavtwn) la composizione (1455a, 23), ossia il poeta deve calarsi negli eventi, "come se fosse in mezzo ai fatti stessi". Su questo punto, che costituisce sempre un ottimo monito per chi scrive, insistono diversi autori: Nietzsche, per esempio, in La nascita della tragedia afferma che il genio nell'atto della creazione artistica “è contemporaneamente soggetto e oggetto, contemporeanamente poeta, attore e spettatore”[20].
Stanislavskij che studia l'altro versante, quello dell’attore, sostiene che il testo debba essere esperienzializzato, siccome "il vero artista arde con ciò che gli succede intorno, è attratto dalla vita che è divenuta oggetto del suo studio e della sua passione, si pasce avidamente di ciò che vede, si sforza di marcare quanto riceve dall’esterno"[21].
E ancora: “Ricordate il mio consiglio: non si può entrare a teatro con le scarpe sporche. Pulitevi le suole prima di entrare, lasciate il fango fuori dalla porta. Lasciate in anticamera insieme alle soprascarpe, tutte le piccole preoccupazioni, i fastidi, le meschinità che avviliscono la vita quotidiana, e vi distraggono dall’arte”[22].
Tuttavia nella tragedia greca non si richiedeva l’adeguamento emotivo dell’attore al personaggio perché gli attori non erano più di tre e ciascuno attore recitava più di una parte.
“Una tarda testimonianza di Apuleio (Flor. 18 comoedus sermocinatur, tragoedus vociferatur) differenzia in modo netto la recitazione degli attori comici e degli attori tragici: di tipo fortemente colloquiale l’una, fortemente sostenuta e incline alla declamazione potente l’altra”[23].
Qualche cosa di analogo dice Ovidio a proposito dello stile tragico e di quello comico: “Grande sonant tragici: tragicos decet ira coturnos; usibus e mediis soccus habendus erit[24], i tragici hanno un suono forte: l’ira si addice ai coturni tragici: la commedia va tratta dall’esperienza quotidiana.
Anche il coro, afferma Aristotele, deve essere parte del tutto e partecipare all'azione, al pari di uno degli attori, non come in Euripide, ma come in Sofocle (1456a, 27).
Dopo Euripide le parti cantate non sono connesse al racconto, e dopo l’esempio dato da Agatone ejmbovlima a{/dousin (1456a, 29) si cantano intermezzi.


continua



[1]Odissea, VIII, vv. 75 e sgg. Leopardi nota la poeticità di questa situazione e di altre simili " chi non sente come sia poetico quello scendere di Penelope dalle sue stanze solamente perch'ha udito il canto di Femio, a pregarlo acciocché lasci quella canzone che racconta il ritorno de' Greci da Troia, dicendo com'ella incessantemente l'affanna per la rimembranza e il desiderio del marito, famoso in Grecia ed in Argo; e le lagrime di Ulisse udendo a cantare i suoi casi, che volendole occultare, si cuopre la faccia, e così va piangendo sotto il lembo della veste finattanto ch'il cantore non fa pausa, e allora asciugandosi gli occhi, sempre che il canto ricomincia, si ricuopre e ripiange; e cento altre cose di questa fatta?" Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, p. 71.
[2] Cfr. Odissea, XIX, 386 e sgg.
[3] Il versante tragico di quella che sarà la chioma di Berenice.
[4] Composta in una anno tra il 416 e il 413.
[5] Cfr. il riconoscimento di Odisseo da parte di Euriclea il XIX canto dell’Odissea.
[6] J, Starobinski, Tre furori, p. 84. l’autore sta commentando l’episodio evangelico dell’indemoniato di Gerasa i cui abitanti non riconoscono Cristo (Marco, v, 1 - 20).
[7]S. Kierkegaard, Enten - Eller, Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, Tomo Secondo, p. 24.
[8] S. Kierkegaard, Enten - Eller, Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, Tomo Secondo, p. 30.
[9] A. W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, (1808) Lezione X
[10] A. Manzoni, Il conte di Carmagnola, Prefazione (del 1820).
[11] Opera e luogo citati sopra.
[12] Di Marco, Op. cit., p. 137.
[13] G. Murray, Le origini dell’Epica Greca, p. 30.
[14] Del 408 a. C.
[15] Rappresentata postuma, nel 405 a. C.
[16] 431 - 404 a. C. Fa eccezione l’Elena (del 412), una tragedia anomala, a lieto fine, che evidenzia l’assurdità della guerra di Troia combattuta per un fantasma. Tale giudizio contro la guerra si trova anche
alla fine dell’Elettra euripidea, quando Castore annuncia a Oreste che Elena sta arrivando, insieme con Menelao, dall'Egitto, dalla casa di Proteo, poiché a Troia non è mai andata, “Zeu; ~ d j, wJ" e[ri" gevnoito kai; fovno" brotw'n, - ei[dwlon JElevnh~ ejxevpemy j ej~ [Ilion ” (Elettra, vv. 1282 - 1283), ma Zeus mandò a Ilio un'immagine (ei[dwlon) di lei, affinché ci fosse guerra e strage dei mortali.
[17] E' il ribaltamento della sapienza silenica che considera primo bene non essere nati, poi, come secondo, morire appena nati. "Per esprimere con impressionante efficacia il suo rimpianto per la vita, il morto Achille dice a Odisseo che lo incontra nell'oltretomba: vorrei lavorare come un thes (qhteuevmen, Od. XI, 489) " F. Codino, Introduzione a Omero, p. 128.
Sentiamo una formulazione dostoevskijana di questo rovesciamento: “Dove ho mai letto”, pensò Raskolnikov proseguendo il cammino, “ dove posso mai aver letto che quel condannato a morte, un’ora prima dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna e l’eterna procella, e rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita, per mille anni, per l’eternità, ebbene preferirebbe vivere così piuttosto che morire all’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualche modo, ma vivere!... Che verità, Signore Iddio, che verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è un vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco, “ aggiunse subito dopo” F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p. 178.
[18] Di Marco, Op. cit., p. 139.
[19] L'uomo senza qualità, p. 71.
[20] La nascita della tragedia, p. 43.
[21] K. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, p. 133.
[22] Op. cit, p. 176.
[23] M Di Marco, Op. cit., p. 90.
[24] Remedia amoris, 375 - 376. 

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