Arthur Schopenhauer |
Vediamo ora una
critica contrastiva: quella di A. Schopenhauer,
il quale denigra la tragedia greca in quanto essa non insegna la rassegnazione,
la rinunzia e la negazione della volontà. Sentiamo il filosofo anti - idealista
e anti - storicista che Nietzsche, nella terza delle Considerazioni inattuali, quattordici anni dopo la sua morte (1874),
esaltò come il solo educatore della nuova Germania.
“Il nostro godimento
della tragedia non appartiene al
sentimento del bello, ma a quello del sublime; anzi è il più alto grado di quel
sentimento. Poiché, come noi alla vista del sublime nella natura ci togliamo
dall’interesse della volontà, per mantenerci puramente contemplativi; così
nella catastrofe tragica ci rivolgiamo via dalla stessa volontà alla vita. Nella tragedia
dunque ci viene presentato il lato terribile della vita, lo strazio
dell'umanità, il dominio del caso e dell'errore, la caduta del giusto, il
trionfo del malvagio... A tale vista noi ci sentiamo spinti a distogliere la
nostra volontà dalla vita, a non volerla e a non amarla più…Nel momento della
catastrofe tragica sorge in noi, più chiara che mai, la persuasione che la vita
sia un affannoso sogno, dal quale dobbiamo destarci…Ciò che dà al tragico, in
qualunque forma esso si presenti, la vera spinta alla sublimità, è il sorgere
della conoscenza che il mondo e la vita non possano concedere vera
soddisfazione, quindi non meritino il nostro attaccamento: in ciò consiste lo
spirito tragico: esso perciò conduce alla rassegnazione"[1].
Tale
rassegnazione secondo Schopenhauer non è messa abbastanza in rilievo dalla
tragedia greca, e non è assoluta: “Ammetto che nella tragedia degli antichi
questo spirito di rassegnazione raramente appaia e venga espresso in modo
diretto. A Colono Edipo muore invero volontariamente e rassegnatamente; però lo
consola la vendetta contro la sua patria. Ifigenia giovinetta è assai disposta
a morire; però è il pensiero del bene della Grecia che la consola e produce il
mutamento del suo animo, per cui ella accetta volontariamente la morte, alla
quale voleva prima in tutti i modi sfuggire. Cassandra, nell'Agamennone
del grande Eschilo, muore di buon grado, ajrkeivtw bivo" (v. 1306)
[2]; ma
anche ella è consolata dal pensiero della vendetta.
Ercole,
nelle Trachinie, cede alla necessità,
muore tranquillo, ma non rassegnato" [3]. Anche
Ippolito “come quasi tutti gli eroi tragici degli antichi, mostra dedizione al
fato inevitabile ed alla volontà inflessibile degli dèi, ma nessuna rinunzia
alla volontà di vivere”[4].
“Edipo,
dal canto suo, scende tra i morti tutt’altro che pacificato: non ha assolto chi
lo ha offeso, non ha chiesto perdono per i suoi misfatti (il perdono e la
riconciliazione, in ogni caso, sarebbero concetti anacronistici, applicati alla
cultura greca di età classica)”[5].
Meglio dunque, secondo
Schopenhauer fa la "tragedia cristiana" in quanto"espone la
rinunzia di tutta la volontà alla vita, il lieto abbandono del mondo, nella
coscienza della sua vanità e nullità". Quindi: "Shakespeare è molto
più grande di Sofocle: in confronto all'Ifigenia
di Goethe si potrebbe trovare quasi rozza e volgare quella di Euripide. Le Baccanti di Euripide sono un indegno
pasticcio in onore dei sacerdoti pagani. Molti drammi antichi non hanno alcuna
tendenza tragica; come l'Alcesti e l'Ifigenia fra i Tauri di Euripide; alcuni
hanno motivi repellenti, o perfino nauseanti; come l'Antigone ed il Filottete.
Quasi tutti mostrano il genere umano sotto l'orribile dominio del caso e
dell'errore, ma senza la rassegnazione da ciò provocata e di ciò redentrice. Tutto
questo perché gli antichi non erano giunti ancora al sommo ed al fine della
tragedia, anzi della concezione dell vita in generale…Quindi l’esortazione alla
rinunzia della volontà alla vita rimane la vera tendenza della tragedia[6]".
La tragedia classica
in effetti non è “solo rappresentazione di eventi terribili (deinav). Euripide, in particolare, è autore di
tragedie a lieto fine che per la loro peculiare natura hanno imbarazzato, sin
dall’antichità, numerosi critici. Una delle hypotheseis
all’Alcesti
giudica il dramma “vicino ai modi del dramma satiresco” (saturikwvteron) ; e tragedie come lo Ione, l’Ifigenia Taurica e
l’Elena sono state variamente
definite dagli studiosi moderni “tragicommedie”
o “melodrammi”[7].
Più avanti, negli
stessi Supplementi, Schopenhauer
mette in rilievo che “i greci assumevano per eroi della tragedia sempre persone
regali; e per lo più anche i moderni”. Poi continua: “Anche la tragedia
borghese non è da rigettarsi incodizionatamente. Le persone però di grande
potenza e di grande prestigio sono le più appropriate alla tragedia, perché la
infelicità, nella quale noi dobbiamo riconoscere il destino della vita umana, deve
avere una sufficiente grandezza, per apparire terribile allo spettatore, chiunque
esso sia. Euripide stesso dice: feu`, feu`, ta; megavla megavla kai; pavscei kakav [8] (Stob.
Flor., II, 299)... Alle persone
borghesi manca quindi l’altezza di caduta”[9].
Nel terzo libro di Il mondo come volontà e rappresentazione
Schopenhauer indica alcune tragedie “cristiane” come esemplari in quanto
aiutano a squarciare l’ingannevole velo di Maja: “Una è identica volontà è
quella, che in tutti vive e si manifesta, ma le sue manifestazioni si
combattono e si dilaniano a vicenda”[10]. Non senza grande dolore. In alcuni
individui la conoscenza “purificata ed elevata mediante il dolore stesso, tocca
il punto in cui il fenomeno, il velo di Maja, non più l’inganna. Allora la
forma del fenomeno, il principium
individuationis, viene visto bene addentro; e perciò l’egoismo che su
questo si fonda è spento, sì che motivi prima poderosi perdono la loro forza, e
in luogo di quelli la piena cognizione dell’essenza del mondo, agendo come
quietivo della volontà, fa nascer la rassegnazione, la rinunzia non alla vita
soltanto, ma all’intera volontà di vivere. Così vediamo nella tragedia i più
nobili caratteri da ultimo rinunziar per sempre, dopo un lungo combattere e
soffrire, agli scopi fino allora sì vivamente perseguiti, e a tutti i piaceri
della vita, o la vita stessa abbandonare volenterosi e lieti. Così il principe
Costante di Calderón; così
Margherita nel Faust[11]; così Amleto…così ancora la Pulcella d’Orléans[12], la Fidanzata di Messina[13]: tutti muoiono purificati dal dolore, ossia
quando in loro la volontà di vivere è già morta…Il vero senso della tragedia è
la cognizione... che l'eroe non sconta i suoi peccati personali, ma il peccato
universale, ossia la colpa stessa dell'essere:
Pues
el delito mayor
come apertamente afferma Calderón... Il rappresentare una grande sventura
è la sola cosa essenziale alla tragedia. Ma le molte vie, per le quali la
sventura può essere introdotta dal poeta, sono di tre specie.
Può accadere per la straordinaria
perfidia, spinta a toccare gli estremi limiti della possibilità, d’un carattere,
il qual diventa causa della sventura: esempi di questo genere sono Riccardo III,
Jago dell’Otello, Shylock nel Mercante di Venezia, Franz Moor[15], la Fedra di Euripide, Creonte nell’Antigone e così via.
Oppure può accadere per un cieco
destino, ossia caso ed errore: di tale specie è un vero modello il re Edipo di Sofocle, ed anche le Trachinie, e in genere la maggior
parte delle tragedie antiche; tra le moderne sono esempi Romeo e Giulietta, il Tancred
di Voltaire, la Fidanzata di Messina.
La sventura può essere cagionata
in fine dalla semplice situazione rispettiva delle persone, dai loro
rapporti…Quest’ultima specie sembra a me di molto preferibile alle altre due: imperocché
ci fa apparire la più grande delle sventure non come un’eccezione, non come effetto
di circostanze rare o di mostruosi caratteri, ma come alcunché venuto
facilmente e spontaneamente, quasi per naturale necessità, dall’azione e dai
caratteri degli uomini; e appunto perciò la rende in terribile modo vicina a
noi stessi…Allora rabbrividendo ci sentiamo già in mezzo all’inferno”[16]. Quale
perfetto modello del genere tragico Schopenhauer indica il dramma Clavigo di Goethe. Poi continua: “Della
stessa natura è in un certo senso Amleto,
se non guardiamo che alla situazione del protagonista davanti a Laerte ed
Ofelia; anche il Wallenstein[17] ha
questo merito; tale è pure il Faust, se
si considera soltanto ciò che accade a Margherita ed a suo fratello; così il
Cid di Corneille, al quale manca nondimeno l’esito tragico, che invece si trova
nell’analoga situazione di Max rispetto a Tecla nel Wallenstein”[18].
Diversi anni dopo le Considerazioni
inattuali, Nietzsche rifiuta
questa interpretazione e confessa il proprio pentimento per " avere
oscurato e guastato con formule schopenhaueriane intuizioni dionisiache"[19]. Leggiamo quanto scrive nei Frammenti
Postumi: "Schopenhauer sbaglia quando fa di certe opere d'arte
uno strumento del pessimismo. La tragedia non insegna la
"rassegnazione". Il
rappresentare le cose terribili e problematiche è esso stesso già un istinto di
potenza e di magnificenza nell'artista: egli non le teme. Non c'è un'arte
pessimistica. L'arte afferma"[20].
Possiamo trovare una nota addirittura ottimistica
nelle Supplici di Euripide, del 422, quando si profilava la pur malsicura
pace di Nicia. Teseo, il re di Atene, confuta quanti sostengono che il male
prevalga, e afferma che invece per gli uomini è maggiore il bene che il male. Se
fosse maggiore il male non vivremmo nella luce.
Dunque il Pericle in vesti eroiche elogia
quello tra gli dèi che ha regolato la nostra vita da confusa e bestiale (p. 25) che era (ejk pefurmevnou[21] - kai; qhriwvdou"), innanzitutto mettendoci dentro
l’intelligenza, poi dandoci la lingua messaggera delle parole, in modo da
capire la voce (vv. 201 - 205).
Nelle Supplici Teseo elogia la
costituzione democratica dialogando con l'araldo mandato da Creonte, re, anzi
tiranno di Tebe. Atene, a differenza della città beota non è comandata da un
uomo solo, ma è libera (ejleuqevra
povli", v. 405).
Teseo è lo stratego
ideale: il messo che racconta la battaglia contro i Tebani conclude la sua rJh`si~ elogiando il re ateniese che ha vinto la
battaglia ma non ha voluto distruggere Tebe: bisogna proprio scegliere un
comandante come Teseo che misei` uJbristh; n laovn (v. 728), odia la massa tracotante la quale, se ha
successo, cerca di salire sul gradino più alto[22] e distrugge il vantaggio conseguito prima. E’
un appello ai cittadini perché non eleggano un altro Cleone il quale dopo il
successo di Sfacteria aveva indotto gli Ateniesi a rifiutare proposte di pace
ed era succeduta la disfatta di Delio (424).
continua
[1]
Supplementi al III libro di Il
mondo come volontà e rappresentazione, in Arthur Schopenhauer, Scritti sulla musica e le arti, discanto
edizioni, p. 112.
[2] Basta la vita! In realtà è il v. 1314. A questa
espressione sconsolata di Cassandra se ne può accostare una simile dell'Elettra
di Sofocle che del resto desidera la vendetta non meno della figlia di Priamo:
"tou' bivou d
j oujdei; " povqo" " (Elettra, v. 822), non ho nessun
desiderio di vivere. ndr
[3]
Schopenhauer, Supplementi, pp. 112 - 113.
[4]
Supplementi al III libro di Il
mondo come volontà e rappresentazione, in Arthur Schopenhauer, Scritti sulla musica e le arti, discanto
edizioni, p. 113..
[5]
G. Guidorizzi, Op. cit., p. XIV.
[6]
A. Schopenhauer, Supplementi, p. 113.
[7]
Di Marco, Op. cit., p. 129.
[8]
E’ un frammento (Nauck, 80) dell’Alcmeone:
“ahi, ahi, le cose grandi subiscono mali anche grandi. Ndr.
[9]
Schopenhauer, Supplementi, p. 116
[10]
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e
rappresentazione, III. 51, p. 341.
[11]
Di Goethe ovviamente ndr.
[12]
Di F. Schiller, 1801 ndr.
[13]
Pure di F. Schiller, 1802 ndr.
[14]
poiché il delitto maggiore
dell'uomo è essere nato, La vita è sogno,
I, 2.
[15]
Personaggio di I masnadieri (1781) di
Schiller.
[16]A.
Schopenhauer, Il mondo come volontà e
rappresentazione, III. 51, pp. 341 - 343.
[17]
Trilogia di F. Schiller.
[18].
Schopenhauer, Il mondo come volontà e
rappresentazione, III. 51, p. 344
[19]
Tentativo di autocritica (aggiunto nel 1886) alla Nascita della
tragedia (del 1876), p. 12.
[20]
Scelta di frammenti postumi, primavera 1888 - 14, p. 229.
[21]
Participio perfetto medio passivo di fuvrw.
La confusione anche qui è emblema di male.
[22]
Come Capanno, poi colpito dal fulmine di Zeus.
Leggendo questa splendida lezione si capisce bene la differenza tra le grandi opere tragiche e tanti scritti moderni privi di nerbo. Giovanna Tocco
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