Con Fulvio ad Atene nel 2005 |
Nefertiti. La puszta.
Fulvio e le donne
Finito l’anno scolastico del santo mio martirio, nel giugno
del 1976 ripresi la snellezza che si addice alla mia persona, eliminando il
grasso dei tanti animali che avevo aggiunto, sciaguratamente, alla mia forma umana.
In luglio tornai a
Debrecen dove passai troppe ore di tristezza e di noia con una bellina assai e
non poco cretina. Si chiamava Susanna, era di Palermo, studiava scienze
biologiche.
Ero partito da Pesaro con l’intenzione di cercare una
ragazza di cui potermi fidare: ancora credevo, per inesperienza, che l’angoscia
dell’accoppiamento mi derivasse dalle dissolutezze inaudite della compagna di
letto. Di complicità negli adultèri credevo di averne avuto abbastanza.
In questa nuova
puntata di Debrecen invece compresi che l’angoscia del dopo coito mi salta
addosso, dopo essersi raggomitolata come un felino affamato, dalla povertà
mentale della ganza, un’inopia spirituale che è quasi sempre accoppiata, in un
osceno connubio, con la miseria morale. Questa giovane donna era del resto di
aspetto gradevole: assomigliava alle note immagini di Nefertiti, la moglie del
faraone Amenofi IV-Ekhnaton, mio correligionario in quanto adoratore del Sole.
Facemmo l’amore la prima sera, in automobile, appena ci fummo conosciuti e
piaciuti durante la festa iniziale, quella della conoscenza appunto. Avevamo
bevuto. Ma il giorno dopo già prima di sera pensavo: “non c’è cosa più amara della
stupidità”. E aggiungevo: “val davvero la pena esser solo per essere sempre più
solo”[1]. Nei
giorni seguenti non poche volte sentii la sonora sghignazzata del diavolo dopo
la copula. Presi coscienza del fatto che il terrore della solitudine ha una
componente estetica che lo placa e lo autorizza. Meglio terrore e bellezza che
la noia dell’insignificanza.
Ricordo un tardo pomeriggio di agosto, quando l’amante
oramai era scoperta in tutte le pieghe della sua anima. Camminavo con Fulvio
sul ponte a nove arcate che a Hortobàgy passa sopra una palude di canne canute,
moscerini e zanzare. Susanna era rimasta con una sua amica, dentro la csàrda,
dove i violini zigani suonavano le danze ungheresi di Brahms. Note eterne del
mio fatale andare. Verso la morte certo, ma non senza avere imparato il più
possibile.
Durante le settimane
passate avevamo litigato tanto, poiché ci mancavano argomenti di cui parlare
con calma e attenzione reciproca. Non avevamo interessi comuni e l’unico verso
per provare emozioni, forse anche per eccitarci sessualmente, era litigare con
astio su questioni senza importanza, tipo il colore degli occhi del cane del
bidello dell’università estiva, o la lunghezza delle maniche della cameriera
della mensa. Quel pomeriggio però avevamo superato il limite dell’emozione
eccitante seppure cattiva: la sensazione credo di entrambi era talmente
disgustosa che non ci consentiva più di stare vicini. Uscito dunque con Fulvio,
camminavamo sul ponte verso Budapest, verso occidente: dietro le spalle
lasciavamo la csàrda con le due donne, sotto si stendeva una palude fangosa,
sulla testa avevamo un cielo scuro, afoso, opprimente; tutt’intorno c’era la
puszta punteggiata di turisti che fotografavano con mani frenetiche i cavalli
solidungoli incalzati dagli schiocchi delle fruste dei butteri, fotografavano
le mucche, fotografavano i buoi dalle lunghe corna, i porci immondi, e i tipici
pozzi ungheresi muniti di lunghe antenne. Da tutte le parti soffiava un vento
caldo che sollevava una polvere, o sabbia, di granelli neri e aguzzi: micidiali
per i miei poveri occhi coperti ma per niente difesi dalle lenti a contatto.
Fulvio l’amico già decennale, era uscito con me per darmi conforto, ché dopo il
litigio assurdo provavo dolore. Soffrivo proprio per l’insensatezza dello
scontro, una collisione nello stesso tempo tragica e idiota. “Non c’è cosa più
amara di quella che mai capirà, non c’è cosa più ignobile della stupidità”
pensavo.
Fulvio disse: “Gianni, devi rassegnarti alle amanti
imperfette, perché una donna come la cerchi tu, un’Antigone forse o una
Cordelia, non si trova su questa terra. Vedi che dopo quattro anni di
matrimonio e di reclusione con una donna del resto non spregevole, sono tornato
a Debrecen senza peso di moglie. Ti ho conosciuto qui dieci anni fa. Allora ti
andava molto, ma molto peggio. Dovresti essere contento e ringraziare gli dèi. Non
ti ricordi la disperata fame sessuale del ’66? Eri grasso di cibo e denutrito
di amore, di donne, di sesso[2]. Eri
imbruttito, eri brutto. Susanna è attraente, Non lamentarti: è un atto di empia
ingratitudine verso gli dèi che ti hanno fatto la grazia. Ti hanno miracolato.
Sei perfino diventato bello, o quasi. Quante ne hai beccate da allora quando
temevi di morire vergine e la sera prima di spengere la luce annunciavi il
proposito di ammazzarti la mattina seguente subito dopo la colazione? Ameno una
ventina ne hai beccate, una migliore dell’altra, e senza lasciarti inchiodare
come è successo a molti, me compreso. Ora hai tra le mani una femmina piacente,
istruita, elegante; che ti importa se non ti capisce? Non possiamo pretendere
che la nostra levatura mentale sia a portata di tante persone: “non cape in
quelle anguste fronti ugual concetto”[3].
Una folata di vento gettò un pugno di granelli acuminati tra
i miei poveri occhi e le lenti a contatto.
“Fulvio è ottimo-pensai- ma non capisce le donne”.
Poi, lacrimando, risposi: “Hai ragione Fulvio. Non piango
per come mi è andata. Mi danno noia le lenti a contatto. Non mi lamento. Però
io vivo sempre senza l’amore. Da allora mi è passata la pena della frustrazione
sessuale, quella l’ho medicata con successi allora insperabili. Ma non ho
appagato il mio eterno bisogno. Io impiegherò tutta la vita, se necessario, nel
cercare una femmina umana buona, bella, fine, intelligente e colta. Credo che
ce ne siano, e non solo nei nostri autori, ma anche qui sulla terra”.
continua
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La ricerca del bello ,del buono, del giusto e di un'anima gemella che li rappresenti credo accomuni tutti noi,ma tu sai raccontarlo. Trovo che i tuoi racconti siano universali Gianni.Io mi sento molto fortunata perchè ho incontrato Stefano eppure mi specchio nelle tue parole .Giovanna Tocco
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