NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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lunedì 28 settembre 2015

L'inizio del lavoro di insegnante. XI parte

Con Fulvio ad Atene nel 2005
Nefertiti. La puszta. Fulvio e le donne

Finito l’anno scolastico del santo mio martirio, nel giugno del 1976 ripresi la snellezza che si addice alla mia persona, eliminando il grasso dei tanti animali che avevo aggiunto, sciaguratamente, alla mia forma umana.
 In luglio tornai a Debrecen dove passai troppe ore di tristezza e di noia con una bellina assai e non poco cretina. Si chiamava Susanna, era di Palermo, studiava scienze biologiche.
Ero partito da Pesaro con l’intenzione di cercare una ragazza di cui potermi fidare: ancora credevo, per inesperienza, che l’angoscia dell’accoppiamento mi derivasse dalle dissolutezze inaudite della compagna di letto. Di complicità negli adultèri credevo di averne avuto abbastanza.
 In questa nuova puntata di Debrecen invece compresi che l’angoscia del dopo coito mi salta addosso, dopo essersi raggomitolata come un felino affamato, dalla povertà mentale della ganza, un’inopia spirituale che è quasi sempre accoppiata, in un osceno connubio, con la miseria morale. Questa giovane donna era del resto di aspetto gradevole: assomigliava alle note immagini di Nefertiti, la moglie del faraone Amenofi IV-Ekhnaton, mio correligionario in quanto adoratore del Sole. Facemmo l’amore la prima sera, in automobile, appena ci fummo conosciuti e piaciuti durante la festa iniziale, quella della conoscenza appunto. Avevamo bevuto. Ma il giorno dopo già prima di sera pensavo: “non c’è cosa più amara della stupidità”. E aggiungevo: “val davvero la pena esser solo per essere sempre più solo”[1]. Nei giorni seguenti non poche volte sentii la sonora sghignazzata del diavolo dopo la copula. Presi coscienza del fatto che il terrore della solitudine ha una componente estetica che lo placa e lo autorizza. Meglio terrore e bellezza che la noia dell’insignificanza.

Ricordo un tardo pomeriggio di agosto, quando l’amante oramai era scoperta in tutte le pieghe della sua anima. Camminavo con Fulvio sul ponte a nove arcate che a Hortobàgy passa sopra una palude di canne canute, moscerini e zanzare. Susanna era rimasta con una sua amica, dentro la csàrda, dove i violini zigani suonavano le danze ungheresi di Brahms. Note eterne del mio fatale andare. Verso la morte certo, ma non senza avere imparato il più possibile.
 Durante le settimane passate avevamo litigato tanto, poiché ci mancavano argomenti di cui parlare con calma e attenzione reciproca. Non avevamo interessi comuni e l’unico verso per provare emozioni, forse anche per eccitarci sessualmente, era litigare con astio su questioni senza importanza, tipo il colore degli occhi del cane del bidello dell’università estiva, o la lunghezza delle maniche della cameriera della mensa. Quel pomeriggio però avevamo superato il limite dell’emozione eccitante seppure cattiva: la sensazione credo di entrambi era talmente disgustosa che non ci consentiva più di stare vicini. Uscito dunque con Fulvio, camminavamo sul ponte verso Budapest, verso occidente: dietro le spalle lasciavamo la csàrda con le due donne, sotto si stendeva una palude fangosa, sulla testa avevamo un cielo scuro, afoso, opprimente; tutt’intorno c’era la puszta punteggiata di turisti che fotografavano con mani frenetiche i cavalli solidungoli incalzati dagli schiocchi delle fruste dei butteri, fotografavano le mucche, fotografavano i buoi dalle lunghe corna, i porci immondi, e i tipici pozzi ungheresi muniti di lunghe antenne. Da tutte le parti soffiava un vento caldo che sollevava una polvere, o sabbia, di granelli neri e aguzzi: micidiali per i miei poveri occhi coperti ma per niente difesi dalle lenti a contatto. Fulvio l’amico già decennale, era uscito con me per darmi conforto, ché dopo il litigio assurdo provavo dolore. Soffrivo proprio per l’insensatezza dello scontro, una collisione nello stesso tempo tragica e idiota. “Non c’è cosa più amara di quella che mai capirà, non c’è cosa più ignobile della stupidità” pensavo.
Fulvio disse: “Gianni, devi rassegnarti alle amanti imperfette, perché una donna come la cerchi tu, un’Antigone forse o una Cordelia, non si trova su questa terra. Vedi che dopo quattro anni di matrimonio e di reclusione con una donna del resto non spregevole, sono tornato a Debrecen senza peso di moglie. Ti ho conosciuto qui dieci anni fa. Allora ti andava molto, ma molto peggio. Dovresti essere contento e ringraziare gli dèi. Non ti ricordi la disperata fame sessuale del ’66? Eri grasso di cibo e denutrito di amore, di donne, di sesso[2]. Eri imbruttito, eri brutto. Susanna è attraente, Non lamentarti: è un atto di empia ingratitudine verso gli dèi che ti hanno fatto la grazia. Ti hanno miracolato. Sei perfino diventato bello, o quasi. Quante ne hai beccate da allora quando temevi di morire vergine e la sera prima di spengere la luce annunciavi il proposito di ammazzarti la mattina seguente subito dopo la colazione? Ameno una ventina ne hai beccate, una migliore dell’altra, e senza lasciarti inchiodare come è successo a molti, me compreso. Ora hai tra le mani una femmina piacente, istruita, elegante; che ti importa se non ti capisce? Non possiamo pretendere che la nostra levatura mentale sia a portata di tante persone: “non cape in quelle anguste fronti ugual concetto”[3].
Una folata di vento gettò un pugno di granelli acuminati tra i miei poveri occhi e le lenti a contatto.
“Fulvio è ottimo-pensai- ma non capisce le donne”.
Poi, lacrimando, risposi: “Hai ragione Fulvio. Non piango per come mi è andata. Mi danno noia le lenti a contatto. Non mi lamento. Però io vivo sempre senza l’amore. Da allora mi è passata la pena della frustrazione sessuale, quella l’ho medicata con successi allora insperabili. Ma non ho appagato il mio eterno bisogno. Io impiegherò tutta la vita, se necessario, nel cercare una femmina umana buona, bella, fine, intelligente e colta. Credo che ce ne siano, e non solo nei nostri autori, ma anche qui sulla terra”.

continua
il blog è arrivato a 271271



[1] Cfr. Cesare Pavese,  Lavorare stanca e Lo steddazzu
[2] Cfr. L’arrivo a Debrecen presente nel blog.
[3] Cfr. Leopardi, Aspasia, 52-53

1 commento:

  1. La ricerca del bello ,del buono, del giusto e di un'anima gemella che li rappresenti credo accomuni tutti noi,ma tu sai raccontarlo. Trovo che i tuoi racconti siano universali Gianni.Io mi sento molto fortunata perchè ho incontrato Stefano eppure mi specchio nelle tue parole .Giovanna Tocco

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