Aristotele dipinto da Raffaello |
Torniamo alla Poetica di Aristotele con un altro
argomento. Degne di nota sono le considerazioni sul linguaggio poetico: "Levxew~ de; ajreth; safh' kai; mh; tapeinh; n
ei\nai” (1458a, 18). Pregio del
linguaggio è essere chiaro e non pedestre.
Il poeta è libero di
variare rispetto all’usuale. Il linguaggio si scosta dall’ordinario quando usa
espressioni peregrine: “xeniko; n de; levgw glw'ttan kai; metafora; n kai; ejpevktasin kai; pa'n to; para; to; kuvrion” (1458a, 22), con peregrino intendo la glossa, la metafora, allungamento e ogni forma
contraria all’usuale. Glossa è la locuzione non comune, quella di cui non tutti
fanno uso (1457b, 4). Metafora è il trasferimento del nome da una cosa a
un’altra: “metafora;
dev ejstin ojnovmato~ ajllotrivou ejpiforav” (1457b, 7). Allungata (ejpektetamevnon, 1457, 35) è la parola adoperata con una vocale più lunga dell’ordinario o con
l’aggiunta di una sillaba; accorciata (ajfh/rhmevnon) quando si toglie qualche cosa (1458a, 1). Non si devono impiegare
tutti insieme questi elementi inusuali, altrimenti si produce l’enigma o il
barbarismo. Dalle glosse si producono i barbarismi, dalle metafore l’enigma, la
cui caratteristica è combinare insieme l’impossibile dicendo cose vere. (1458 a,
26) [1]. Per avere insieme elevatezza e chiarezza
dunque bisogna fare in un certo modo una mescolanza di queste forme: “dei' a[ra kekra'sqai
pw~ touvtoi~” (1458a, 31). Arifrade canzonava[2] i tragediografi poiché fanno uso di
espressioni che nessuno impiega parlando, come le anastrofi (oi|on to; dwmavtwn a[po ajlla; mh; ajpo; dwmavtwn, 1458a, 33, come
per esempio da casa via e non
via da casa), e ignorava che sono proprio le espressioni inusuali a produrre
nel linguaggio to;
mh; ijdiwtikovn (1459a, 3) il
non triviale.
E’dunque molto importante sapere usare queste
forme di abbellimento, e soprattutto le metafore
Questo fatto
creativo non può essere preso in prestito da altri: “ eujfui?a~ te shmei'ovn
ejsti: to; ga; r eu\ metafevrein to; to; o{moion qewrei'n ejstin” (1459a,
6 - 7), ed è segno di talento: infatti
trovare buone metafore significa osservare ciò che è somigliante[3].
“E’ in questo senso
che un poeta dice: “La realtà è un luogo comune dal quale sfuggiamo con la
metafora”. La metafora letteraria stabilisce una comunicazione analogica tra
realtà assai lontane e differenti, dando intensità affettiva
all’intelligibilità che produce. Generando onde analogiche, la metafora supera
la discontinuità e l’isolamento delle cose”[4].
“Le due realtà, identificandosi
nella metafora, cozzano l’una con l’altra, si annullano reciprocamente, si
neutralizzano, si materializzano. La metafora diviene la bomba atomica mentale”[5].
Nella Retorica
Aristotele dà questo suggerimento: "bisogna rendere peregrino il
linguaggio (dei'
poie'n xevnhn th; n diavlekton),
poiché gli uomini sono ammiratori delle cose lontane" (III, 1404b).
Un'affermazione che trova echi nello Zibaldone di Leopardi dove leggiamo: "le parole lontano, antico, e simili
sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non
determinabili e confuse" (1789). E, più avanti (4426) : "il poetico, in
un modo o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito,
nel vago".
La metafora del resto possiede in massimo
grado chiarezza (to; safev~), piacevolezza
(to; hJduv) e stranezza (to; xenikovn), e non è possibile prenderla da altri (Retorica, III, 1405a).
Diamo l’ esempio di una
bella sequenza polimetaforica dei Persiani
di Eschilo dove l’u{bri~ è congiunta all' a[th: "
u{bri"
ga; r ejxanqou's j ejkavrpwse stavcun - - a[th", o{qen pagklauvton
ejxama'/ qevro"" (vv. 821 - 822) la prepotenza infatti
fiorendo dà per frutto una spiga di/ accecamento, da dove falcia una messe
tutta di lacrime.
“I Persiani sono un dramma storico, ma
trascendono questo livello grazie all’interpretazione che in essi riceve
l’evento: la vittoria dei Greci è opera loro come degli dei che puniscono
l’eccesso con l’empietà…Il dramma resta naturalmente anche un documento storico
e non si dovrà dimenticare che il grande resoconto della battaglia fu scritto
da un uomo che vi prese personalmente parte”[6].
Tornando alla Poetica,
Aristotele ribadisce che il poeta è un imitatore: “ ejsti mimhth; ~ oJ
poihthv~ ” (1460b, 8), come un
pittore (wJsperei;
zwgravfo~) o un altro
ritrattista (eijkonopoiov~)
; allora è necessario che egli
imiti in uno dei tre modi che ci sono: o come le cose erano o sono, o come
dicono e sembrano, o come dovrebbero essere (1460b, 10). Ebbene Sofocle diceva
che rappresentava gli uomini come devono essere, Euripide come sono" (1460b,
34).
Questa famosa
affermazione attribuita dal filosofo stagirita al poeta di Colono dà un'idea
della differenza tra l'idealismo eroicizzante di Sofocle, e il realismo di
Euripide che comincia a degradare l’eroe[7].
Insomma: se il poeta
è un imitatore al pari di ogni altro artista, e si accusa il drammaturgo perché
ha ritratto cose non vere, allora può darsi che egli le abbia rifatte come
vorrebbe che fossero.
Riporto anche una divisione della tragedia in
parti quantitative (kata; de; to; posovn,
Poetica, 1452b, 15) che può essere
utile a uno studente di liceo. Il Prologo
è la parte (recitata) che precede l'ingresso del coro; la Parodo è il primo canto del coro (quello
di ingresso), i successivi si chiamano Stasimi
(canti sul posto) ; Aristotele definisce lo stasimo “canto del coro privo
di anapesti e trochei” (Poetica, 1452b,
24), che dovrebbe essere un canto moderato, simile al recitativo; gli Episodi sono gli atti recitati, compresi
tra un coro e l'altro; l'Esodo è la
parte finale, cui non segue un canto corale; il Commo è un lamento comune cantato (a voci alterne) dal coro e dalla
scena: kommo;
~ de; qrh'no~ koino; ~ corou' kai; ajpo; skhnh'~.
“Come sinonimo di
amebeo lirico viene spesso usato il termine kommov~. In realtà il kommov~ (da kovptomai= “percuotersi” il petto o il capo in segno di
lutto) è propriamente un canto antifonale di carattere funebre, un qrh`no~ che riprende forma e motivi dal lamento rituale
tradizionale, in cui un solista intona il lamento ed un coro risponde. Kommoiv di questo tipo sono ben attestati nella tragedia. Essi
si pongono su una linea di sostanziale continuità con le descrizioni di pianto
rituale già testimoniateci dai poemi omerici (ad esempio Il. 24, 719 - 776 e Od. 24,
35 - 94), con il ricorrere di elementi topici quali l’allocuzione al morto, l’autocommiserazione,
l’elogio dello scomparso, il ricordo nostalgico del passato, il riferimento
alla condizione del defunto e dei sopravvissuti, la promessa di adeguate
onoranze funebri…. L’esempio più antico di kommov~ tragico è quello dell’esodo dei Persiani di Eschilo tra Serse, che intona
e guida il lamento, e il Coro, la cui funzione è di rispondere e di amplificare
l’espressione di cordoglio. Oggetto del compianto è la sorte dei soldati che il
re ha portato alla disfatta nella sciagurata spedizione contro la Grecia (vv. 1038
ss.) ”[8].
Infine Aristotele giunge a un giudizio comparato tra epica e
dramma, assegnando il primo posto alla tragedia, poiché essa contiene tutti gli
elementi dell'epopea e in più lo spettacolo scenico e la musica. Inoltre il
dramma ha maggiore vivezza di rappresentazione e riesce più gradito anche
perché è meno diluito: l'Edipo re consta
di un numero di versi dieci volte inferiore a quello dell'Iliade (da 1500 a
15000 circa). “To;
ga; r ajqrowvteron h{dion h] pollw'/ kekramevnon tw'/ crovnw/ ” (1462b, 1), in effetti ciò che è
concentrato è più gradevole di quanto è diluito in molto tempo.
Sappiamo che
"il ritardare è epico"[9], mentre il tragico si affretta alla
conclusione; l'epos e il suo corrispettivo moderno, il romanzo, sono stati
paragonati a grandi fiumi dal lento fluire, il dramma potremmo assimilarlo a un
impetuoso torrente montano che precipita di roccia in roccia offrendo lo
spettacolo di catastrofi fatte di sangue e fragore il cui rombare prima ci
stordisce, poi ci libera dalla parte oscura e irrazionale.
Nell’introdurre i
tre grandi tragici, non avendo abbastanza posto per rendere conto di ogni
aspetto della loro poesia né dei loro contenuti, daremo uno spazio prevalente
al rapporto tra l’uomo e la donna, e alla condizione femminile.
Prima di passare ai
singoli autori, voglio riferire in estrema sintesi, commentare e chiarire con
esempi, il succo di quanto si legge nell'Estetica di Hegel sul dramma antico.
Si tratta di uno scritto uscito nel 1838, dopo la morte del filosofo, e
ricavato da appunti e lezioni tenute a Heidelberg e a Berlino negli anni tra il
1817 e il 1829.
Il dramma dunque
costituisce “la fase suprema della poesia e dell'arte”, siccome “riunisce in sé
l'oggettività dell'epos con il principio soggettivo della lirica”[10].
Per chiarire il
significato dell'oggettività del poema epico, quale l'Iliade, si può dire che esso rappresenta spesso lo spirito
originario di una nazione che mette alla prova se stessa attraverso una guerra.
Hegel nella parte dedicata all'epica sostiene che"la poesia drammatica
degli indiani o le tragedie di Sofocle non ci danno un'immagine così totale
come il Ramayana ed il Mahabharata oppure l'Iliade e l'Odissea " (p. 1383). L'epos dunque costituisce il fondamento
della coscienza di un popolo che viene rappresentato in collisione con un altro
popolo, di altra cultura. Anche nel dramma c'è lo scontro, ma al suo centro il
più delle volte vediamo un individuo che lotta con un antagonista, o con delle
situazioni, o con il destino.
Non sempre, vorrei
precisare: infatti nei Persiani [11] di Eschilo assistiamo ad una guerra tra due
civiltà, la greca e la persiana, che rappresentano rispettivamente la libertà e
il dispotismo, l'ordine civile e il caos barbarico.
Il conflitto può essere anche interiorizzato; allora
il protagonista ha l'avversario dentro se stesso, e vive in una contraddizione
che lo dilania. Medea soffre con
piena coscienza il conflitto tra passione e ragione, e lo teorizza quando cerca
il coraggio di uccidere i figli per punire Giasone che l'ha tradita (vv. 1078 -
1080). "Questo costante riferimento della realtà nel suo insieme
all'interno dell'individuo.. costituisce il principio propriamente lirico della
poesia drammatica" (Estetica, p.
1538).
Nell'Ippolito[12] Fedra, la matrigna innamorata del figliastro,
è e dilaniata da un conflitto interno che le suggerisce questa considerazione: "
il bene lo conosciamo e riconosciamo, /ma non lo costruiamo nella fatica, alcuni
per infingardaggine, /alcuni anteponendogli qualche altro piacere. / E sono
molti i piaceri della vita: /lunghe conversazioni, l'ozio, diletto cattivo, e
l'irrisolutezza" (vv. 380 - 385).
La luce di queste
citazioni rende relativamente chiara la proverbiale oscurità di Hegel[13].
Sentiamo anche
Cacciari: “Per l’eroe tragico è necessario il ‘contesto’, è necessario il
confronto con l’ethos. La
conciliazione tra il carattere dell’eroe e l’ethos comune, lo xynón, diviene problematica già nel corso della
tragedia classica, ma è assunta a tema nel dramma moderno”[14].
Caratteristica del dramma dunque è la
collisione, interna o esterna, tra due unilateralità che dopo aspra lotta dovrebbero arrivare ad
una sintesi finale corrispondente al "divino stesso come totalità in
sé" (Estetica, p. 1540). L'ampia
e profonda visione del poeta drammatico giunge a vedere la soluzione delle
unilateralità: “ Con eguale chiarezza deve stargli davanti quel che è giusto o
è sbagliato nelle passioni che tumultuano nel cuore umano e lo spingono ad
agire, affinché, laddove per gli uomini comuni sembra che dominino solo
oscurità, caso e confusione, si riveli per lui il reale effettuarsi di quel che
è in sé razionale e reale. Quindi il poeta drammatico non deve accontentarsi di
una visone meramente indeterminata di quel che si agita nella profondità
dell’animo, né deve solo fissare unilateralmente un qualsiasi esclusivo stato
d’animo e una limitata parzialità nel modo di sentire e di vedere il mondo, ma
ha necessità della più grande apertura e della più comprensiva vastità di
spirito. Infatti le potenze spirituali…nel dramma si presentano, secondo il
loro contenuto sostanziale semplice, reciprocamente
opposte come pathos di individui, per cui il dramma è la soluzione
dell’unilateralità di queste potenze che divengono autonome negli individui
" (p. 1541).
La collisione tra le
unilateralità può risolversi con la distruzione oppure con la conciliazione.
"Nella tragedia
gli individui si distruggono per l'unilateralità della loro ferma volontà e del
loro saldo carattere oppure devono rassegnarsi ad accogliere in sé ciò a cui si
oppongono in modo sostanziale" (p. 1589). L'Antigone viene considerata " l'opera d'arte più eccellente e
più soddisfacente" (p. 1613) [15].
Questa tragedia
sopprime le due unilateralità in conflitto: quella di Antigone e quella di
Creonte. " Antigone vive sotto il potere statale di Creonte; ella stessa è
figlia di re e promessa di Emone, cosicché dovrebbe ubbidienza al comando del
principe. Ma anche Creonte che è dal canto suo padre e sposo, dovrebbe
rispettare la santità del sangue e non comandare ciò che è contrario a questa
pietà. Così in entrambi è immanente ciò contro cui si ergono rispettivamente, ed
essi vengono presi e infranti da ciò che appartiene alla cerchia stessa della
loro esistenza.
Antigone subisce la morte prima di avere
gioito della danza nuziale, ma anche Creonte viene punito nel figlio e nella
moglie, che si danno la morte, il primo per quella di Antigone, l'altra per
quella di Emone. Di tutti i capolavori del mondo antico e moderno - li conosco
più o meno tutti ed ognuno dovrebbe e potrebbe conoscerli - l'Antigone mi pare per quest'aspetto come
l'opera d'arte più eccellente e più soddisfacente. L'esito tragico non ha però
sempre bisogno della morte dei protagonisti per sopprimere le due unilateralità
ed il loro grande onore. E' noto infatti che le Eumenidi di Eschilo non terminano con la morte di Oreste o con la
rovina delle Eumenidi, queste vendicatrici del sangue materno e della pietà di
fronte ad Apollo, che vuole salvaguardare la dignità e il rispetto del capo di
famiglia e del re e che ha istigato Oreste ad uccidere Clitennestra; ma ad
Oreste la punizione viene condonata e ad entrambe le divinità è fatto
onore"[16].
Hegel menziona le unità aristoteliche, notando che nella Poetica non c'è traccia di quella di
luogo, contraddetta del resto dalla prassi dei tragediografi: "nelle Eumenidi di Eschilo e nell'Aiace
di Sofocle la scena cambia" (Estetica,
p. 1543).
Infatti nella prima
tragedia la scena si sposta da Delfi ad Atene; nella seconda, a dire il vero, lo
spostamento è scarsamente rilevabile poiché il dramma si svolge tutto nel campo
greco sulla riva dell'Ellesponto.
Anche per Hegel "la
legge veramente inviolabile è l’unità di azione" (p. 1545) poiché essa si
basa sulle collisioni, e l'unità è necessaria per mostrare quel movimento
totale e al tempo stesso eliminare le contraddizioni.
Un’ altra regola ineliminabile è che la
progressione della tragedia sia più veloce di quella epica: "Il corso
propriamente drammatico è dato dal progredire continuo verso la catastrofe
finale" (p. 1548). Le scene episodiche, tipiche dell'epos, che "senza
portare avanti l'azione, si limitano ad ostacolare lo svolgimento, sono
contrarie al carattere del dramma" (p. 1549). Il poeta non deve dare
spazio alle ire sfrenate dei personaggi “e l’orrendo, in particolare, raffredda
più che non infiammi” (p. 1554).
Si può ricordare il to; teratw'de~ della Poetica
(1453b, 9).
“E non giova niente al poeta descrivere le
passioni in modo così commovente; il cuore si sente soltanto lacerato, e ci si
volge altrove. Infatti vi manca il positivo, la conciliazione, che non deve mai
essere assente nell'arte. Gli antichi, invece, nelle loro tragedie, operavano
soprattutto attraverso il lato oggettivo del pathos, a cui al contempo non
manca neppure, nella misura in cui l’antichità lo richiede, l’individualità
umana. Anche i drammi di Schiller posseggono questo pathos di un animo grande, un
pathos che penetra profondamente ed ovunque si mostra e si esprime come base
dell’azione. " (p. 1555).
Per quanto riguarda la metrica, Hegel
riconosce l'opportunità, nelle parti dialogate, del giambo: “Al metro
drammatico conviene una via di mezzo fra il calmo ed uniforme scorrere
dell’esametro e la misura sillabica più rotta e frazionata della lirica. A
questo proposito si raccomanda su tutti il metro giambico”[17].
In effetti il trimetro giambico si confà
all'apprendimento mnemonico del testo per il ritmo con il quale viene letto.
“Se si prescinde
dalle melodie e dai kommoí che erano
composti in metro lirico e dunque implicavano una resa affidata al canto, gli
attori interpretavano le parti loro assegnate recitando in trimetri giambici, assai
più raramente in tetrametri trocaici catalettici: questi ultimi venivano forse
resi in parakataloghé (recitativo) nelle
scene di più acuta tensione. I loro interventi prevedevano talora anche
sequenze (in recitato o in recitativo) composte in metro anapestico. Le parti
recitate erano in dialetto attico, con la mistione di alcuni elementi di ionico.
E ciò, oltre al metro, contribuiva a differenziarle dalle sezioni liriche, in primis da quelle corali, caratterizzate
da una lieve coloritura dorica”[18].
Il trimetro giambico
“sembra evolvere, nel corso del tempo, nella direzione di una sempre maggiore
flessibilità: il trimetro euripideo, ad esempio, soprattutto nelle tragedie più
tarde, conosce una percentuale di “soluzioni” (scioglimento dell’elemento lungo
in due brevi, per cui il “piede” finisce col constare di tre sillabe) molto più
elevata di quella del trimetro di Eschilo e di Sofocle. Proprio fondandosi sul
presupposto che all’aumento dei “piedi trisillabici” corrisponda una fase di
composizione più recente - il che sembra avvalorato, in linea generale, dall’evidenza
delle tragedie di cui sappiamo con certezza la data di rappresentazione - vari
studiosi hanno tentato di fissare la cronologia relativa dei drammi euripidei. E’
evidente tuttavia che il criterio non può essere applicato in modo meccanico: vero
è, ad esempio, che, secondo le statistiche di Ceadel, nell’Andromaca (rappresentata nei primi anni della guerra del
Peloponneso, tra il 429 e il 425 a. C.) la percentuale di soluzioni è dell’11%,
nelle Troiane (416 a. C.) è del 21, 2%
e nell’Oreste (408 a. C.) è del 39, 4%
”; ma nelle Baccanti e nell’Ifigenia in Aulide, che pure sono
posteriori all’Oreste, le percentuali
decrescono rispettivamente al 37, 6% e al 34, 7%”[19].
“La capitale richiesta” di Hegel al poeta
drammatico è “che egli debba pervenire ad una visione sommamente profonda
dell’essenza dell’agire umano e del governo divino del mondo, e ad
un’altrettale visione di una manifestazione chiara e viva di questa eterna
sostanza di tutti i caratteri, le passioni ed i destini umani” (p. 1564).
continua
[1]
Bettini utilizza questo passo di Aristotele per indicare un nesso tra enigma e
incesto: "Aristotele, definendo la aijnivgmato"
ijdeva, dice che il procedimento dell'enigma consiste nel "parlare
di cose vere legando fra loro adynata ", cioè cose che non possono
(almeno in apparenza) esser legate fra loro. L'incesto, naturalmente, verifica
per l'appunto questo principio. Come si può essere contemporaneamente
"padre" e "fratello" dei propri figli?" (M. Bettini, L'arcobaleno,
l'incesto e l'enigma a proposito dell'Oedipus di Seneca,
"Dioniso", 1983, p. 145).
Nell'Oedipus di Seneca
si trovano intrecci dove si mescolano e confondono entità diverse, e tali che
dovrebbero rimanere divise: "Effetto della malattia è appunto quello di
confondere, di identificare quello che altrimenti dovrebbe restare diviso. Non
c'è più distinzione di età o di sesso: i giovani muoiono contemporaneamente ai
vecchi, i figli contemporaneamente ai padri. Nella descrizione della peste,
Seneca sembra dunque applicare lo stesso principio codificato altrove da
Aristotele per l'enigma: sunavyai
ajduvnata. Come l'incesto ovviamente,
come l'arcobaleno" (M. Bettini, L'arcobaleno, l'incesto e l'enigma a
proposito dell'Oedipus di Seneca, "Dioniso", 1983, p. 148).
[2]
Forse è l’Arifrade ponerov~ che
viene a sua volta sbeffeggiato da Aristofane nei Cavalieri (vv. 1281 sgg. e nelle Vespe (1280 sgg,) per come ha appreso a lavorare di lingua,
inquinandosela nelle voluttà nefande dei bordelli.
[3] Intelligenza in greco si dice suvnesi" una parola che tradotta radicalmente significa
capacità di mettere insieme cose distanti, di vederne le somiglianze, e se è
vero, come afferma il Menone di
Platone, che "la natura è tutta imparentata con se stessa, " th'" fuvsew"
aJpavsh" suggenou'" ou[sh""
(81d), coglierne ed evidenziarne i legami di parentela è compito del genio, del
poeta. La stessa cosa afferma Dostoevskij in I fratelli Karamazov: "il mondo è come l'oceano; tutto scorre
e interferisce insieme, di modo che, se tu tocchi in un punto, il tuo contatto
si ripercuote magari all'altro capo della terra. E sia pure una follia chiedere
perdono agli uccelli; ma per gli uccelli, per i bambini, per ogni essere
creato, se tu fossi, anche soltanto un poco, più leale di quanto non sei ora,
la vita sarebbe certomigliore " (p. 402).
Facciamo l’esempio di una bella metafora,
tratto da Eschilo, l'autore che ce ne fornisce la scelta più ampia siccome
conserva la rigida grandiosità del rituale e l'enfasi ieratica del linguaggio
liturgico: "dia;
dev toi genu'n iJppivwn - kinuvrontai fovnon calinoiv", attraverso le mascelle dei cavalli, le briglie
arpeggiano strage (I sette a Tebe,
vv. 122 - 123).
[4]
E. Morin, La testa ben fatta, p. 94.
[5]
J. Ortega y Gasset, Idea del teatro,
p. 48.
[6]
A. Lesky, La poesia tragica dei Greci,
p. 125.
[7]
Cfr. F. Nietzsche: “mentre Sofocle dipinge ancora caratteri interi, aggiogando
il mito al loro raffinato sviluppo, Euripide dipinge ormai solo grandi tratti
caratteristici, che sanno rivelarsi in violente passioni; nella commedia attica
nuova ci sono soltanto maschere con una
sola espressione, vecchi frivoli, lenoni gabbati, schiavi scaltri in
instancabile ripetizione” (La nascita
della tragedia, p. 117).
[8]
Di Marco, Op. cit., p. 259.
[9] “Goethe e Schiller, che, verso la fine dell'aprile
1797 ebbero uno scambio di lettere... sul "ritardare" in genere nei
poemi omerici, lo misero addirittura in contrasto con la tensione; essi
veramente non usano questa espressione, ma è chiaro che cosa intendano quando
indicano il procedimento del ritardare come propriamente epico in opposizione a
quello tragico (lettere 19, 21, 22 aprile). Sembra anche a me che il ritardare
mediante digressioni stia nei poemi omerici in opposizione con l'anelito ad un
fine, e senza dubbio Schiller ha ragione per Omero quando pensa che questi ci
dia "soltanto la presenza e l'azione tranquilla delle cose secondo la loro
natura" e che il suo scopo sia "già in ogni punto del suo
movimento". Ma entrambi, tanto Schiller quanto Goethe, innalzano il procedimento
omerico a legge della poesia epica in generale; e le parole ora citate di
Schiller devono valere per i poeti epici in opposizione ai tragici" (E.
Auerbach, Mimesis, p. 5).
[10]
Estetica, p. 1533 - 1534.
[11]
Del 472 a. C.
[12]
Del 428 a. C.
[13] Tanto che Schopenhauer scriveva: "il fatto
insomma che il suo contenuto si riducesse alla chiacchiera più vuota e più
priva di senso, di cui mai si siano pasciuti gli imbecilli, e che la sua
esposizione... fosse il più disgustoso e più assurdo dei guazzabugli.. ", Parerga e Paralipomena, I, p. 206.
Si può per lo meno notare una
contraddizione nell’Estetica di Hegel
tra la “fase suprema” costituita dal dramma e l’”immagine totale” data
dall’epica. Nota p. 19
[14]
Hamletica, p. 83.
[15] “Il culto per Sofocle, retaggio dell’umanesimo
classicistico di Lessing e di Winckelmann, dilagava fra i filosofi così come
fra i filologi, concordi nel celebrare i tre drammi sul ciclo di Edipo come
massimo picco dell’arte tragica greca. Fra gli stessi maestri e amici di
Droysen, né Hegel, né Boeckh, né Wilcker, né Bergk erano immuni dalla
venerazione per Sofocle e dalla diffidenza verso Euripide. Perciò doveva
destare quasi stupore il fatto che Droysen, traduttore entusiasta di Eschilo,
s’impegnasse in una riabilitazione di Euripide. Beninteso, egli condivideva il
giudizio estetico dei suoi contemporanei circa la superiorità dei due tragici
più anziani; tuttavia rivalutava l’arte di Euripide dal punto di vista storico
e filosofico” (J. G. Droysen, Aristofane,
a cura di G. Boncina, p. 56 dell’Introduzione.
[16]Hegel,
Estetica, pp. 1612 - 1613
[17]
Hegel, Estetica, p. 1555.
[18]
Di Marco, Op. cit., p. 217.
[19]
Di Marco, Op. cit., p. 218.
Mi piace. Giovanna Tocco P.S. anche se Antigone DEVE morire e ,a me,sinceramente,sta simpatica.
RispondiElimina