Tullio De Mauro
Storia linguistica
dell’Italia Repubblicana
Dal 1946 ai nostri
giorni
Editori Laterza, Roma-Bari 2014
Presentazione III
De Mauro nota che tra lingue parlate in Europa nel primo
millennio, hanno avuto massima persistenza il greco, il basco, le parlate
celtiche in Gran Bretagna e quelle della nostra penisola.
“L’Europa linguistica riflette oggi, nel complesso, gli
assetti che raggiunse nel tardo Medioevo. L’Italia linguistica del 1946,
invece, aveva una configurazione che rifletteva non solo la latinizzazione,
realizzatasi molto lentamente, e mai del tutto compiutasi, tra III sec. a. C. e
inizi dell’età imperiale, ma anche le condizioni più antiche (… ) Una forte e
stabilizzata differenziazione etnico-linguistica delle popolazioni caratterizzò
l’Italia preromana rispetto a ogni altra area europea. A metà del primo
millennio a. C. l’Italia era occupata da popolazioni di assai varia provenienza
e inserimento nel territorio, e quindi da una varia selva di idiomi eterogenei,
indoeuropei e non indoeuropei, alcuni di più remoto radicamento nel suolo
italiano, come l’etrusco e il sardo, altri importati in fasi più recenti da
oltre le Alpi e attraverso l’Adriatico e il Mediterraneo centrale come il
messapico, il greco, il punico ” (p. 25)
Segue un elenco di
lingue parlate allora in Italia.
Del resto Leopardi nell’Ottocento
continua a considerare la lingua italiana
“piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è
unica” ha maggiore facoltà rispetto alle altre “di adattarsi alle forme
straniere…Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra
lingua, si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca.
Perché alle forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente,
più che qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso
genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per
ragioni di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di
natura e di carattere” (Zibaldone, 964 e 965).
Per quanto riguarda la lingua
greca, più avanti leggiamo“Chi vuole vedere un piccolo esempio della infinita
varietà della lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato di più lingue
che una lingua sola, secondo che ho detto altrove, e vuol vederlo in uno stesso
scrittore e in uno stesso libro; legga il Fedro
di Platone. Nel quale troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue, l’una
nelle parole che compongono il dialogo tra Socrate e Fedro, la quale è la
solita e propria di Platone, l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in
persona di Lisia e di Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode
dell’amore.” (Zibaldone, 2717).
Ma torniamo a De Mauro e
all’Italia della metà del I millennio a. C.: “Il latino era parlato solo dalle
popolazioni di una piccola area compresa tra Monti Tiburtini, Colli Albani e
foce del Tevere, contornate e incalzate da popolazioni che parlavano etrusco,
osco umbro e greco, quest’ultimo portato nel cuore della città di Roma da
mercanti. Nell’Italia moderna la sola diretta sopravvivenza di tanti idiomi
diversi dal latino è il greco, che nel Medioevo continuò a essere parlato
estesamente in Sicilia, nel Sud e nella stessa città di Roma e, secondo una
tesi accreditata, sopravviverebbe ancora nelle parlate neogreche della Calabria
e del Salento. Per il resto dominano non le dirette sopravvivenze degli idiomi
non latini, bensì le continuazioni del latino, o meglio le sopravvivenze di ciò
che il latino era andato diventando sulle bocche delle varie popolazioni di
diverso idioma (…) Le radici dell’Italia linguistica moderna e del Novecento
stanno ancora nell’assetto linguistico dell’Italia alla fine del I millennio a.
C. e nella persistenza, per quanto indiretta, della politica linguistica della Romana res publica. Non si intende il
presente senza almeno rievocare quelle radici ” (p. 26).
La conoscenza del latino amplia
sicuramente la visione mentale. A questo proposito, Schopenhauer ha lasciato
un’immagine efficace: “ L'uomo che non
conosce il latino somiglia a colui che si trova in un bel posto, mentre
il tempo è nebbioso: il suo orizzonte è assai limitato; egli vede con chiarezza
solamente quello che gli sta vicino, alcuni passi più in là tutto diventa
indistinto. Invece l'orizzonte del latinista si stende assai lontano,
attraverso i secoli più recenti, il Medioevo e l'antichità.-Il greco o
addirittura il sanscrito allargano certamente ancor più l'orizzonte.-Chi non
conosce affatto il latino, appartiene al volgo, anche se fosse un grande
virtuoso nel campo dell'elettricità e avesse nel crogiuolo il radicale
dell'acido di spato di fluoro"[1].
“Roma non impose mai in modo pianificato la sua lingua. E, del resto,
anche all’interno del suo più stretto territorio tradizionale non impose mai la
norma colta urbana e lasciò che sopravvivesse il sermo rusticus. Entro la stessa Urbe fu tollerato che a diversi
livelli sociali avessero corso parlate altre dal latino e al livello più alto
fu privilegiato e, almeno dal tempo degli Scipioni e di Catone Censore, perfino
idoleggiato il greco. Perciò dalle diverse popolazioni dell’Italia la lingua di
Roma fu appresa in tempi e con modalità differenti, trasferendo nelle varianti
locali del latino modi fonetici ed elementi lessicali dei preesistenti idiomi
locali”. (p. 27)
Nel Satyricon si trova un sermo familiaris che si alterna spesso
col sermo plebeius e col sermo rusticus . Il realismo di Petronio lo porta ad attribuire a ogni personaggio il
modo di esprimersi del ceto cui appartiene
A proposito di realismo antico
Auerbach sostiene che il Satyricon rappresenta la realtà in maniera più ampia
e meno stilizzata dei realisti alessandrini, quali Teocrito nelle Siracusane
(XV) o Eroda nel lenone (III). " Petronio, " come un realista
moderno, pone la sua ambizione artistica nell'imitare senza stilizzazione un
qualsiasi ambiente d'ogni giorno e contemporaneo, e nel far parlare alle
persone il loro gergo. Con ciò raggiunge il limite estremo a cui sia arrivato
il realismo antico"[2].
Auerbach riporta
alcune frasi del liberto Ermerote e
trova che il suo linguaggio sia
"quello un po’ becero e snervato d'un mercante cittadino incolto, pieno di
frasi fatte" e, aggiunge, "vi si sente il tono sanguigno con cui
vengono espressi sentimenti vivaci ma triviali"[3].
giovanni ghiselli
continua
La conoscenza è potere e togliere il latino dalle scuole medie è stato un modo per togliere potere al popolo . Giovanna Tocco
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