Dioniso |
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Capitolo X (pp. 71-75)
Le figure famose della scena greca come Edipo e Prometeo
sono tutte maschere di Dioniso. L’unico Dioniso dunque appare in una
molteplicità di personaggi che hanno la
maschera dell’eroe in lotta preso nella rete della volontà individuale. Dioniso
dunque appare come un individuo che lotta e che soffre. Ma è il dio che soffre
il dolore dell’individuazione che è la fonte e la causa prima di ogni
sofferenza.
Dalle lacrime di Dioniso sono nati gli uomini, dal suo
sorriso gli dèi olimpici. Egli fu fatto a pezzi dai Titani e in questo stato
venne venerato come Zagreus. E’ la
versione orfica della nascita di Dioniso-Zagreus. (in Nonno di Panopoli IV-V
sec., Dyon. 6. 165-176 e in frammenti
orfici).
Le Dionisiache constano di 48 libri e più di 20 mila versi
In quanto dio smembrato, Dioniso ha la doppia natura di un
demone crudele e selvaggio e di un dominatore mite e dolce (p. 72).
Cfr. Iliade VI,
130-140 Diwvnuso~ fobhqeiv~ (135) duvseq j
aJlo;~ kata; ku`ma, le Baccanti
di Euripide e le Rane di Aristofane.
Per i poeti il
mito è come una parola contenuta in un dizionario: quando essa entra in un
testo, mantiene soltanto uno dei suoi possibili significati.
Così avviene
per Dioniso
Arriano ci fa sapere che gli Ateniesi venerano un altro
Dioniso, figlio di Zeus e di Core, e il
canto Iacco dei misteri viene intonato a questo dio, non a quello tebano (Anabasi di Alessandro, 2, 16, 3).
Così forse si spiega la differenza tra il Dioniso feroce
delle Baccanti e quello di Omero, un
dio impaurito (Iliade, VI, 135 Diwvnuso" de; fobhqeiv" ) e
infantile, che, minacciato da Licurgo, si getta in mare dove Tetide lo accolse
in seno spaventato e tremante per le grida dell’uomo. Poi c’è il Dioniso ridicolo delle Rane di Aristofane. In questa commedia
il dio fugge terrorizzato da Empusa tra
le braccia del suo sacerdote (v. 297). Più avanti Dioniso si caca addosso dalla
paura di Empusa (v. 479) e viene apostrofato dal servo Xantia con:" oh tu, davvero il più vigliacco
degli dèi e degli uomini!"(v. 486). Empusa era un fantasma del corteggio
di Ecate. Beveva (cfr. ejmpivnw) il
sangue degli uomini.
Hegel mette il Bacco delle Rane tra i personaggi “tratteggiati come stolti” delle commedie di
Aristofane: “ Così per Strepsiade, che vuole rivolgersi ai filosofi per sbarazzarsi
dei debiti; così per Socrate che si offre come maestro di Strepsiade e di suo
figlio; egualmente per Bacco, che egli fa scendere nel mondo sotterraneo per
ricondurre alla luce un vero tragico; e lo stesso dicasi di Cleone, delle
donne, dei greci che vogliono trarre dal pozzo la dea della pace ecc.” Sono
personaggi risibili per “la fiducia che tutte queste figure hanno in se stesse,
fiducia tanto più incrollabile quanto meno si mostrano capaci di eseguire ciò
che intraprendono. Gli stolti sono dei semplicioni…che non perdono mai questa
sicurezza ingenua della soggettività”[1].
Woody Allen fa dire a un personaggio del film Crimini e misfatti (1989): “Comedy is tragedy plus time”, la
commedia è la tragedia più del tempo, nel senso che con il passare del tempo i
fatti tragici possono diventare ridicoli.
Dioniso era comunque
un altro modello per Alessandro Magno,
che talora manifestava crudeltà e ferocia, talora delicatezza d’animo,
talora anche volgarità.
“Se, dunque, “i miti sono soggetti a
mutamento sotto la pressione che su di loro esercita la storia”[2],
mi sembra anche che la letteratura, prefigurandole, profetizzi le circostanze,
che essa crei in ogni caso quell’ ‘immaginario’ il quale a sua volta condiziona
le vicende del reale storico”[3].
Gli epopti, gli iniziati speravano nella
rinascita di un terzo Dioniso come fine dell’individuazione. N. ricava forse
ancora da Nonno che Demetra immersa in eterna tristezza si rallegra quando le
si dice che può ancora una volta generare Dioniso.
La dottrina misterica della tragedia è
la concezione dell’individuazine come causa prima del male. L’arte dà la lieta
speranza che il dominio dell’individuazione possa essere spezzato, l’arte come
presentimento di una ripristinata unità (p. 73).
"In nulla al mondo, infatti,
io credo così profondamente, nessun'altra idea mi è più sacra di quella
dell'unità, l'idea che l'intero cosmo è una divina unità e che tutto il dolore,
tutto il male consistono solo nel fatto che noi, singoli, non ci sentiamo più
come parti inscindibili del Tutto, che l'io dà troppa importanza a se stesso.
Molto dolore avevo sofferto in vita mia"[4].
L’epos omerico, si diceva, è la poesia
con cui la cultura olimpica intona il suo canto di vittoria sui terrori per la
lotta dei Titani
Ma nella tragedia i miti omerici
appaiono trasformati da una concezione ancora più profonda. Alla fine della
trilogia prometeica, Zeus si allea con il Titano così la cultura titanica viene
riportata dal Tartaro alla luce.
"Il sereno mondo omerico è
libero da fantasmi...il vivo è lasciato in pace dai morti"[5], o, se
vogliamo ricordare Carducci, "Non
paure di morti ed in congreghe/diavoli goffi con bizzarre streghe"[6].
I miti del mondo omerico con Eschilo
devono accogliere la mitologia inferiore e la filosofia della natura selvaggia.
Fu la forza erculea della musica a
liberare Prometeo dai suoi avvoltoi e a trasformare il mito in un veicolo di
sapienza dionisiaca. Il mito correva il rischio di rattrappirsi nella
ristrettezza di una pretesa realtà storica.
Le religioni si estinguono quando i
presupposti mitici vengono sistematizzati come eventi storici e il mito
pretende di avere una fondatezza storica. Allora il mito morente fu afferrato
dal genio della musica dionisiaca e fiorì ancora una volta mandando un
profumo che suscitava il presentimento
struggente di un mondo metafisico. Ma dopo questa rinascita il mito declina, le
sue foglie appassiscono e i beffardi luciani dell’antichità cercano di ghermirne
i fiori scoloriti e inariditi. La tragedia giunta al suo significato più profondo
si solleva ancora una volta come un eroe ferito e nell’occhio gli arde un ultimo
potente bagliore.
L’empio Euripide il sacrilego Euripide
cercò di costringere ancora una volta questo eroe a servirlo e il mito morì tra
le sue braccia violente, Lo sostituì, nel dramma euripideo un mito mascherato
che cercava di adornarsi con l’antica pompa come la scimmia di Ercole.
Con Euripide moriva il mito e moriva
anche il genio della musica. Euripide la saccheggiava a piene mani da tutte le
parti ma giunse a una musica imitata e mascherata. Aveva abbandonato Dioniso e
anche Apollo abbandonò Euripide. I discorsi dei suoi eroi sono scritti nel
linguaggio di una dialettica sofistica e
hanno passioni imitate e mascherate
Capitolo XI (pp. 75-82)
La tragedia greca morì suicida e alla
sua morte si produsse un enorme vuoto. Per il mondo ellenico risuonò il lamento
sulla morte della tragedia. Aristofane, nelle Rane del 405, fa scendere
Dioniso nell’Ade per riportare sulla terra uno dei tre grandi. Alla tragedia succedette
la commedia attica nuova che aveva i lineamenti della madre nel momento
della sua lotta con la morte. La commedia di Filemone, Difilo e Menandro è la
forma degenerata della tragedia. Gli autori di questa commedia veneravano
Euripide al punto che Filemone (360-265) si sarebbe impiccato subito per poter
visitare Euripide agli Inferi. Euripide insegnò a questi suoi epigoni a portare
lo spettatore sulla scena, mostrare con realismo la maschera fedele della
realtà. Euripide porta sulla scena l’uomo della vita quotidiana; lo specchio
che prima mostrava solo i tratti grandi e arditi faceva ora vedere anche le linee
non riuscite della natura. Odisseo, il tipico greco dell’arte antica, si
abbassò nella figura del greculo che poi divenne nella commedia latina lo
schiavo bonario e scaltro.
Leopardi nello Zibaldone (pp. 41-42) indica, insieme con altri testi,
un frammento di Filemone come esempio del fatto che "il ridicolo degli
antichi comici...consistea principalmente nelle cose, e il moderno nelle
parole...quello degli antichi era veramente sostanzioso, esprimeva sempre e
mettea sotto gli occhi per dir così un corpo di ridicolo, e i moderni mettono
un'ombra uno spirito un vento un soffio un fumo. Quello empieva di riso, questo
appena lo fa gustare e sorridere, quello era solido, questo fugace...quel de'
greci e latini è solido, stabile, sodo, consiste in cose meno sfuggevoli, vane,
aeriformi, come quando Luciano nel Zeu;"
ejlegcovmeno" paragona gli Dei sospesi al fuso della Parca ai
pesciolini sospesi alla canna del pescatore. Ed erano i gr. e lat. inventori
acerrimi e solertissimi di queste immagini, di queste fonti di ridicolo e ne
trovavano delle così recondite, e nel tempo stesso così feconde di riso ch'è
incredibile come in quel frammento di Filemone comico".
Leopardi si riferisce al fr. 79 Kock, vv. 10-16 dello Stratiwvth", dove Filemone stabilisce
un paragone tra un convitato che scappa inseguito dagli altri dopo avere
arraffato un boccone ghiotto, e una gallina che fugge tenendo nel becco qualche
cosa di troppo grande per essere inghiottita, e viene incalzata da un'altra che
vuole strapparle il cibo. Insomma "quel motteggiare era più consistente
più corputo, e con più cose che non il moderno".
Euripide nelle Rane di Aristofane si ascrive a merito di avere liberato l’arte
tragica dalla sua pomposa corpulenza.
Il personaggio Euripide battibecca con
il personaggio Eschilo e dice di avere ricevuto da lui th;n tevcnhn l’arte
tragica oijdou`san gonfiata
dalle vanterie e da parole pesanti (uJpo; kompasmavtwn kai; rJhmavtwn ejpacqw`n, 940) e di
averla snellita e di averle tolto il peso (i[scnana me;n prwvtiston aujth;n kai; to; bavro~
ajfei`lon,
941) con pargolette e discussioni (ejpullivoi~ kai; peripavtoi~, 941)
Inoltre Euripide si vanta di avere insegnato alla gente a chiacchierare
(lalei`n
ejdivdaxa, 954) poi rivendica l’introduzione
di regole sottili leptw`n te kanovnwn eijsbolav~ e la rifinitura di parole (ejpw`n te gwniasmouv~. 956), poi ha insegnato a pensare (noei`n), vedere (oJra`n) capire (xunivenai) meditare (strevfein) amare (ejra`n), ordire (tevcnazein), sospettare male (kavc j uJpotopei`sqai), considerare tutto (perinoei`n a[panta) 957-958
Insomma, continua Euripide, portavo sulla scena cose di casa
(oijkei`a pravgmat j , quelle che usiano oi|~
crwvmeq j, 959).
Cicerone nelle Tusculanae
Disputationes scrive che ab antiqua
philosophia numeri motusque tractabantur,
e l’origine e la dissoluzione delle cose e grandezze, distanze, orbite
delle stelle et cuncta caelestia, tutti i fenomeni celesti. Questo usque ad Socratem.
Socrates autem primus philosophiam devocavit e caelo et in urbibus collocavit et in domus
etiam introduxit et coegit de
vita et moribus rebusque bonis
et malis
quaerere (V,
4, 10).
Schlegel come Aristofane incolpa Euripide
per questo realismo che considera corruttore. Gli sviamenti di Euripide sono
analoghi a quelli del nostro secolo: le tragedie di Euripide”ammolliscono gli
animi per via di nozioni dolci e tenere
in apparenza, ma in realtà corruttrici, e tendono in realtà a produrre degli
increduli nel fatto della morale” (p. 100)
Schlegel pensa che Platone criticando i
poeti formulasse accuse che devono applicarsi soprattutto a Euripide i cui
versi “ abbandonano gli uomini all’impero delle passioni e li ammolliscono facendo
prorompere gli eroi in lamenti smoderati” (p. 101 trad. it il Melangolo.
Giovanni Gherardini)
“Egli volle gratificare i suoi contemporanei
trasportando nei secoli eroici gli usi popolareschi più moderni (p. 104)…Si
rese familiari i sofismi delle passioni, per mezzo dei quali si riesce a far
comparire bella ogni cosa.
Si è
più volte citato questo verso di Euripide, in cui pare sia stata espressa la
restrizione mentale (direzione dell’intenzione) de’ Gesuiti
Giurava il labro ma taceva il core” (p. 195).
E’ Ippolito che dice alla nutrice di Fedra hj glw`ss j ojmwvmoc j, hJ de; frh;n ajnwvmoto~ (Ippolito. 612)
Torniamo a Nietzsche.
“In sostanza lo spettatore vedeva e sentiva ora sulla scena
euripidea il suo sosia” (p. 77). Euripide, quale personaggio delle Rane, si compiace di avere insegnato
allo spettatore a discutere “con le più furbe sofistificazioni”.
Con questo repentino capovolgimento del linguaggio pubblico
egli rese possibile la commedia nuova.
Dalla scena parlava ora la mediocrità cittadina. L’aristofanesco
Euripide arriva a vantarsene. Se tutta la massa filosofava era merito suo.
Euripide era diventato il maestro e il regista della commedia nuova che è uno
spettacolo di tipo scacchistico con il suo continuo trionfo della furberia e della
scaltrezza (p. 78).
A proposito di “spettacolo di tipo scacchistico” cfr. A game of chess, la seconda parte di The
waste land di Eliot dove il canto dell’usignolo non evoca più il mito della
metamorfosi di Filomela by the barbarous
king-so rudely forced, e sebbene continui a risuonare, a riempire i
deserti, il mondo sente solo jug jug
con dirty ears (vv. 99-103).
I poeti tragici erano morti e con loro la tragedia.
Per la tarda antichità vale il noto epitaffio: “in vecchiaia
frivolo e capriccioso”.
Predomina ora il
quinto stato: quello dello schiavo e la serenità greca è la serenità dello
schiavo che non sa aspirare a nulla di grande. Al primo cristianesimo questo
vile appagarsi del comodo godimento parve spregevole e sembrò il vero e proprio
sentimento anticristiano.
Questa serenità
dell’ellenismo è una serenità da vecchi e da schiavi (cfr. la scelta di Odisseo
nel mito di Er).
Ma Euripide in vita
non ebbe successo, diversamente da Eschilo e soprattutto da Sofocle. Euripide
non rispettò il pubblico ateniese, a parte due spettatori quali giudici
competenti e maestri di tutta la sua arte.
Uno di questi due è
Euripide stesso, Euripide quale pensatore , non come poeta. Egli come critico
trovava in ogni verso di Eschilo qualcosa di incommensurabile, una infinità
dello sfondo. Le figure avevano dietro di sé come una coda di cometa. Nel
linguaggio eschilèo egli trovava troppa pompa per situazioni semplici, troppe
metafore e forzature rispetto alla semplicità dei caratteri. Da spettatore
confessò a se stesso di non capire i suoi grandi predecessori. Guardandosi intorno
Euripide vide l’altro spettatore che non capiva la tragedia, Socrate, e in lega
con costui iniziò l’immane opera contro l’arte di Eschilo e Sofocle.
continua
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