PER VISUALIZZARE IL GRECO CLICCA QUI E SCARICA IL FONT HELLENIKA
Nel dialogo, di Cesare Pavese, L'isola, le ultime parole di Odisseo a Calipso sono: "Quello che cerco l'ho nel cuore, come te"1. Lo stesso concetto si trova nel poeta neogreco2 Costantinos Kavafis: "In Ciclopi e Lestrigoni, no certo/né nell'irato Nettuno incapperai/se non li porti dentro/se l'anima non te li mette contro"3 (Itaca, vv. 9 - 12).
Guido Gozzano ridicolizza Ulisse
parodiando Dante:
“Il re di Tempeste4
era un tale/che diede col vivere scempio/un ben deplorevole
esempio/d’infedeltà maritale, /che visse a bordo d’un
yacht/toccando tra liete brigate/le spiagge più
frequentate/dalle famose cocottes…/ Già vecchio, rivolte le
vele/al tetto un giorno lasciato, /fu accolto e fu perdonato/dalla
consorte fedele…/Poteva trascorrere i suoi/ultimi giorni sereni,
/contento degli ultimi beni/come si vive tra noi…/Ma né dolcezza
di figlio, /né lagrime, né la pietà/del padre, né il debito
amore/per la sua dolce metà/gli spensero dentro l’ardore/della
speranza chimerica/e volse coi tardi compagni/cercando fortuna in
America…/Non si può vivere senza/danari, molti
danari…/Considerate, miei cari/compagni, la vostra semenza!”
(L’ipotesi, vv. 11 - 138).
Nell’Ulisse del XXVI canto
dell’Inferno di Dante ricorda “l’orazion picciola” (v.
122) che tenne ai compagni “vecchi e tardi” come lui (v. 106) per
trasmettere loro “ l’ardore - ch’i’ebbi a divenir del mondo
esperto, - e delli vizi umani e del valore” (vv. 97 - 99).
Il canto delle Sirene
E’lo stesso ardore che lo aveva spinto a rischiare la vita per ascoltare il canto delle Sirene nell’Odissea (XII).
Il canto delle Sirene ha
suscitato diversi commenti.
Ne L'ultimo viaggio dei Poemi
conviviali, Pascoli riprende alcuni episodi dell’Odissea:
la XXI parte ricorda Le Sirene: “E gli sovvenne delle due
Sirene. / C’era un prato di fiori in mezzo al mare. /Nella gran
calma le ascoltò cantare/ - “Ferma la nave! Odi le due
Sirene/ch’hanno la voce come è dolce il miele; /ché niuno passa
su la nave nera/che non si fermi ad ascoltarci appena, / e non ci
ascolta, che non goda al canto, /né se ne va senza saper più tanto:
/ché noi sappiamo tutto quanto avviene/sopra la terra dove è tanta
gente!” - /Gli sovveniva, e ripensò che Circe/gl’invidïasse ciò
che solo è bello; /saper le cose”.
Quando tornarono nell’isola Eèa da
Circe dopo l’evocazione dei morti, la figlia del Sole li accolse,
tutta bella (Odissea, XII, 18), quindi offrì da mangiare e
disse che mostrerà la via deivxw oJdovn
e darà segni shmanevw (25, 26).
Dopo cena, prese Odisseo in disparte e
gli disse che le Sirene ajnqrwvpou~
qevlgousin (40) ammaliano, con il canto
armonioso, quanti uomini si avvicinano. Essi dimenticano la sposa e i
figli. Stanno sedute su un prato h{menai ejn
leimw`ni; intorno a loro c’è un mucchio di ossa di uomini
putrefatti; sulle ossa si disfano le carni. Dunque Odisseo deve
fuggire. Se vuole ascoltarle, si faccia legare e turi le orecchie ai
compagni con la cera.
Nell’episodio Il Vero, XXIII di
L’ultimo viaggio, Ulisse torna dalle Sirene per fermarsi. Le
interroga e le provoca: “Sirene, io sono ancora quel mortale/che
v’ascoltò, ma non poté sostare/più sempre avanti sospingea la
nave. //E il vecchio vide che le due Sirene, /le ciglia alzate su le
due pupille, /avanti sé miravano, nel sole, /fisse o in lui, nella
sua nave nera/ E su la calma immobile del mare, /alta e sicura egli
inalzò la voce. //’Son io! Son io, che torno per sapere!/Ché
molto io vidi, come voi vedete/me. Sì; ma tutto ch’io guardai nel
mondo, /mi riguardò; mi domandò: Chi sono? // E la corrente rapida
e soave/più sempre avanti sospingea la nave. // E il vecchio vide un grande mucchio d’ossa/d’uomini,
e pelli raggrinzate intorno, /presso le due Sirene,
immobilmente/stese sul lido5,
simili a due scogli. // Vedo. Sia pure. Questo duro ossame. /cresca
quel mucchio. Ma, voi due, parlate!/Ma dite un vero, un solo a me,
tra il tutto, /prima ch’io muoia, a ciò ch’io sia vissuto!’//E
la corrente rapida e soave/più sempre avanti sospingea la nave. /E
s’ergean su la nave alte le fronti, /con gli occhi fissi, delle due
Sirene. / “Solo mi resta un attimo. Vi prego!/Ditemi almeno chi
sono io! Chi ero!”/E tra i due scogli si spezzò la nave”.
Sentiamo l’interpretazione che T.
Mann dà della brama del conoscere e della solitudine cui questo
desiderio smanioso ci condanna
"Allora, col martirio e l'orgoglio
del conoscere, sopravvenne la solitudine, ché la vicinanza dei
bonari, delle anime gaiamente ottenebrate, gli riusciva
intollerabile, e il marchio sulla sua fronte turbava costoro. Ma
sempre più dolce divenne per lui la gioia della parola e della
forma"6.
Tale gioia del resto è contaminata dal
dolore: "La letteratura non è affatto una professione o una
vocazione; è una maledizione (ein Fluch) …perché lo
sappiate. E quando principia a farsi sentire questa maledizione?
Presto, terribilmente presto. A un'epoca in cui si potrebbe
ragionevolmente pretendere di vivere d'amore e d'accordo con Dio e
con il mondo, uno comincia a sentirsi segnato, a rendersi conto
d'essere in incomprensibile contrasto con gli altri, coi normali, con
la gente ordinaria; sempre più fondo si scava l'abisso d'ironia,
d'incredulità, d'opposizione, di lucidità, di sensibilità che lo
separa dagli uomini; la solitudine lo inghiotte, e da quel momento
non c'è più possibilità d'intesa"7
Sentiamo ancora Boitani che cita e
commenta Brecht: “Nel 1933 Bertold Brecht - torniamo così al
riparo della mera letteratura - scrisse, nelle sue Rettifiche di
miti antichi, un pezzo minuscolo su Ulisse e le Sirene. Il
drammaturgo vi riporta la versione tradizionale, in cui l’eroe si
fa legare all’albero maestro e poi tura gli orecchi dei rematori
con la cera “così che… il suo godimento dell’arte possa
rimanere senza brutte conseguenze”. Giunti dinanzi all’isola, i
“servi” resi sordi vedono Ulisse contorcersi all’albero e le
“seducenti femmine” gonfiare la gola. Tutto in ordine, dunque:
secondo il programma. L’intera antichità credette che al volpone
fosse riuscito il suo stratagemma. ” Ma Brecht mette in dubbio la
veridicità della storia. Dopotutto, Ulisse è il mentitore per
eccellenza.
Dovrei essere io il primo ad avanzare
sospetti? Ebbene, io mi dico - D’accordo, ma chi, all’infuori di
Ulisse, dice che le Sirene cantarono veramente davanti all’uomo
legato? Queste femmine abili e potenti dovrebbero davvero aver
sprecato la loro arte con gente che non possedeva alcuna libertà di
movimento? Qui vorrei perciò supporre, invece, che le gole gonfie
osservate dai rematori gridassero, con tutta la loro forza, insulti
al maledetto e prudente provinciale, e che il nostro eroe eseguisse i
suoi contorcimenti (anch’essi attestai), perché pure lui alla fine
provava vergogna.
E dunque le Sirene, nonostante il
“definitivo” silenzio di Kafka, riprendevano bellamente a
cantare; la narrazione, e l’interpretazione, continuavano. La nota
di Brecht al racconto proclama, in perfetto stile midrash8
ironico: “Per questa storia si trova una rettifica anche in Franz
Kafka, ma nell’età moderna essa non appare più, davvero,
credibile”.
“Le Sirene cantano, anzi urlano
insulti: nei “tempi nuovi” l’arte un po’sfacciata non può
che prendere a male parole il borghese autoritario e provinciale che
vuole godersela senza brutte conseguenze. Un anno più tardi, nel
1934, era Walter Benjamin a rievocare Ulisse e le Sirene…Nello
splendido saggio su Franz Kafka, Benjamin chiama l’ebreo
praghese “novello Ulisse” perché egli non ha ceduto, dice, alle
lusinghe del mito, che potrebbe offrire redenzione al mondo. In
Kafka, scrive il critico, le Sirene tacciono “forse perché in lui
la musica e il canto sono un’espressione, o almeno un pegno di
salvezza”. L’esegesi sembrava ribadire la fine”9.
Il silenzio delle Sirene
Che cosa cantava Calipso, o Circe (X,
221, 227, 254), o la Sfinge dell'Edipo re10
è un quesito più legittimo e logico di quello che poneva Tiberio
imperatore ai grammatici: "quid Sirenes cantare sint solitae?
"11
che cosa cantassero abitualmente le sirene.
Kafka sostiene che quelle creature non
cantavano: "le sirene hanno un'arma ancor più terribile del
canto, ed è il loro silenzio. E’forse pensabile, sebbene non sia
mai successo, che qualcuno possa salvarsi dal loro canto: sicuramente
non dal loro ammutolire12...
E davvero, quando Odisseo arrivò, le potenti cantatrici non
cantavano... Ma Odisseo, se così si può dire, non udì il loro
silenzio, credette che cantassero e che lui soltanto fosse preservato
dall'udirle"13.
T. Mann attribuisce il silenzio alla
Sfinge egiziana; “Che cosa diceva quell’enigma? Non diceva
assolutamente nulla. Consisteva nel silenzio, nel silenzio
imperturbabile ed ebbro con cui quell’essere mostruoso …mirava
con sguardo selvaggio e veggente lontano, oltre colui che interrogava
e nello stesso tempo veniva interrogato…Era una Sfinge, cioè un
enigma e un mistero; e precisamente un mistero selvaggio, con branche
di leone, cupido di sangue giovane, pericoloso per il figlio di
Dio…Su quel petto di roccia, tra le branche di quel drago femmina,
non si sognavano sogni di promessa, e tutt’al più sogni ben
miseri”14.
Kafka racconta che Ulisse si chiuse le
orecchie con la cera e opera una "dislettura del mito
originario, nel quale l'eroe tura invece le orecchie dei compagni"15
per affermare il loro silenzio e descrivere la loro mimica: "Esse
però, mai così belle, si tesero e si torsero, lasciarono ondeggiare
liberi nel vento i loro orridi capelli, aprirono, nudi, gli artigli
sulle rocce; non volevano più sedurre, volevano soltanto afferrare,
finché era possibile, il riflesso lucente degli occhi immensi di
Odisseo". E’un'interpretazione inquietante: "da essa
emerge per la prima volta nella letteratura occidentale il punto di
vista delle Sirene. Ma, "più belle che mai", le
Sirene (e siamo nel sesto paragrafo) allungarono il collo e si
voltarono, lasciarono ondeggiare i loro capelli "raccapriccianti"
nel vento e, dimenticando tutto, afferrarono le rocce con i loro
artigli. Tornate mostruose dopo il passaggio dell'eroe, esse non
avevano più alcun desiderio di sedurre: "volevano solamente
trattenere il più a lungo possibile il riflesso luminoso che veniva
dai grandi occhi di Odisseo". Le "legatrici" sono
legate. E’l'uomo ormai ad ammaliare, ad essere specularmente
divenuto una sirena"16.
In realtà Omero attribuisce sette
esametri al canto armonioso delle Sirene: sono i versi 184 - 191 del
XII canto dell’Odissea dove le misteriose creature
promettono a Odisseo quello che desidera di più: l'accrescimento
della conoscenza che rende felici: chi sente le loro voci dal suono
di miele, riparte “teryavmeno~…kai;
pleivona eijdwv~” (v. 188), pieno di gioia e conoscendo più
cose.
Noi infatti, concludono: “ i[dmen
d j o{ssa gevnhtai ejpi; cqoni; pouluboteivrh/" (v. 191),
sappiamo quanto avviene sulla terra nutrice.
Ulisse è spinto a partire ma anche a
ritornare.
Se da una parte "il non domato
spirito, /e della vita il doloroso amore"17
sospingono Ulisse, come il poeta triestino, “al largo”18,
dall'altra il richiamo e il risucchio della patria ve lo fa tornare.
Nel IX canto del poema omerico Odisseo
dichiara ad Alcinoo il proprio nome –Odisseo noto per tutte le
astuzie - e quello della sua terra: “Itaca distinta (j
Iqavkhn eujdeivleon, v. 21); dove c’è ben visibile il monte
Nerĭto che scuote le foglie, ed è aspra, ma buona nutrice di
giovani: “trhcei'‘j ajll j ajgaqh;
kourotrovfo~”(v. 27).
Così pure l'Ulisse di Joyce,
altro uomo che ha molto sofferto anche se di formato non eroico, dopo
un lungo girovagare per Dublino torna a casa19
dalla moglie, sebbene adultera, da quella Molly che E. Pound
interpreta come "Gea Tellus, simbolo della Terra... il suolo dal
quale l'intelletto tenta di saltare via, e nel quale ricade in
saecula saeculorum".
La donna di questo Ulisse in effetti è
un personaggio universale come lo è egli stesso: "I dettagli
della carta topografica sono locali ma Leopold Bloom (né Virág
20)
è di tutti i luoghi"21.
Sul ritorno di Ulisse e il rischio di
scordarlo ha scritto parole interessanti Calvino: "Il ritorno va
individuato e pensato e ricordato: il pericolo è che possa essere
scordato prima che sia avvenuto. Difatti, una delle prime tappe del
viaggio raccontato da Ulisse, quella presso i Lotofagi, comporta il
rischio di perdere la memoria, per aver mangiato il dolce frutto del
loto. Che la prova della dimenticanza si presenti all'inizio
dell'itinerario d'Ulisse e non alla fine, può apparire strano. Se
dopo aver superato tante prove, sopportato tante traversie, appreso
tante lezioni, Ulisse avesse scordato ogni cosa, la sua perdita
sarebbe stata ben più grave: non trarre alcuna esperienza da quanto
ha sofferto, alcun senso da quel che ha vissuto. Ma, a ben vedere,
questa della smemoratezza è una minaccia che nei canti IX - XII si
ripropone più volte: prima con l'invito dei Lotofagi, poi con i
farmaci di Circe, poi ancora col canto delle Sirene. Ogni volta
Ulisse deve guardarsene, se non vuole dimenticare all'istante...
Dimenticare che cosa? La guerra di Troia? L'assedio? Il cavallo? No:
la casa, la rotta della navigazione, lo scopo del viaggio.
L'espressione che Omero usa in questi casi è "scordare il
ritorno"22.
Ulisse non deve dimenticare la strada che deve percorrere, la forma
del suo destino: insomma non deve dimenticare l'Odissea. Ma anche
l'aedo che compone improvvisando o il rapsodo che ripete a memoria
brani di poemi già cantati non devono dimenticare se vogliono "dire
il ritorno"; per chi canta versi senza l'appoggio di un testo
scritto "dimenticare" è il verbo più negativo che esista;
e per loro "dimenticare il ritorno" vuol dire dimenticare i
poemi chiamati nostoi, cavallo di battaglia del loro
repertorio"23.
Vediamo ora l’Ulisse di Joyce.
E’Leopold Bloom, un ebreo ungherese. Il suo vero cognome è Virág
che in lingua magiara significa fiore.
Si dice che Bloom è la controfigura
dell’eroe omerico. Di fatto ha in comune con Odisseo la pazienza e
la curiosità: gira per casa sua e per Dublino nella lunga giornata
del 16 giugno 1904 osservando tutto e riflettendo su tutto. Sopporta
con ironia e non senza dignità. A proposito della moglie che ha un
amante, Boylan “l’eroe conquistatore”, Leopold Bloom “l’eroe
inconquistato” pensa: “Lei voleva andare. Ecco perché. Donna.
Tanto vale fermare il mare”24Nel XII episodio Il Ciclope - la
taverna, Bloom viene aggredito da nazionalisti razzisti gaelici,
antisemiti in un crescendo di insulti.
Questo nuovo Ulisse sopporta siccome è
“papà prudenza” (p. 407) e oppone argomenti razionali
all’irrazionalità dei razzisti, il cui corifeo è “il Cittadino”
scortato da un cane ringhioso. Rinfacciano all’Ulisse ebreo la
puzza semitica, le corna, e attribuiscono ogni male a chi non ha una
nazione.
“Una nazione? ” replica Bloom. “Una
nazione è la stessa gente che vive nello stesso posto…Qual è la
sua nazione, se è lecito? Dice il cittadino - L’Irlanda”, risponde Bloom.
“Sono nato qui. L’Irlanda”
Il cittadino non disse nulla, si
schiarì appena in gola, e, perdiana, fece volare una patacca di
scaracchio fin nell’angolo”
Bloom risponde proponendo di sostituire
l’amore all’odio che è “il contrario di quel che è veramente
la vita”
Poi il nostro Ulisse viene definito “un
ebreo rinnegato…venuto da qualche parte dell’Ungheria…si
chiamava Virag. Il nome del padre, quello che si avvelenò. Se l’è
fatto cambiare ufficialmente, il padre…Virag d’Ungheria. Io lo
chiamo Assuero. Maledetto da Dio…San Patrizio dovrebbe sbarcare
un’altra volta a Ballykinlar e riconvertirci, dice il cittadino,
dopo che abbiamo permesso a tipi simili di contaminare i nostri lidi.
Gli insulti agli Ebrei e a Bloom
continuano, finché Leopold reagisce: “Mendelssohn era ebreo e
anche Carlo Marx e Mercadante e Spinoza. E il Redentore era ebreo e
suo padre era ebreo. Il vostro Dio…Il vostro Dio era ebreo. Cristo
era ebreo come me”25.
Quindi Bloom scappa via inseguito dal
lancio di una scatola di biscotti e dal cagnaccio aizzato dal
padrone. L’episodio Il ciclope - La taverna finisce con
varie reminiscenze delle Sacre Scritture, soprattutto 2 Re II, 11
dove si parla dell’ascesa al cielo di Elia
“E videro Lui nel carro, rivestito
nella gloria di quello splendore, che aveva vestimento come del sole,
bello come la luna e terribile sì che per tema non osarono levare
gli occhi a lui”26.
Bloom dunque ha una sua dignità,
anche se non ha l’eroismo di Odisseo né una Penelope fedele. La
moglie Molly lo tradisce, ma dopo tutto rimane con lui. L’ultimo
capitolo27
Il XVIII, Penelope - il letto
si chiude con una serie di sì che la donna dice alla vita, alla sua
vita con il suo Ulisse, a tutta la vita: “and
first I put my arms around him yes and drew him down to me so he
could feel my breasts all perfume yes and his heart was going like
mad and yes I said yes I will yes”Sono le ultime parole del romanzo
uscito nel 1922.
continua
-----------------------------------------------------------
2
1863 - 1933.
3Costantinos
Kavafis, Settantacinque poesie .
4
E’ una citazione parodica di D’Annunzio : « Odimi »
io gridai/sul clamor dei cari compagni/ « odimi, o Re di
tempeste !” (Maia, IV)
5
Cfr. Odissea XII, 45 h[menai ejn
leimw`ni, sedute sul prato.
6
T. Mann, Tonio Kröger,
cap.IV.
7
T. Mann, Tonio Kröger,
cap. IV.
8
Esposizione ebraica del vecchio testamento (ndr).
9
P. Boitani, Sulle orme di Ulisse, pp. 134 - 135.
10
vv. 35 - 36: " ejxevlusa"...
sklhra'" ajoidou' dasmo;n oJ;n
pareivcomen", hai fatto cessare... il tributo della
cantatrice dura che pagavamo, e v. 130 "hJ
poikilw/do;" Sfi;gx", la Sfinge dal canto
variopinto.
11Svetonio,
Tiberii Vita , 70.
12
Cfr, il silenzio di Aiace nell’XI dell’Odissea e quello
di Didone nel VI dell’Eneide.
13F.
Kafka, Il silenzio delle sirene, scritti e frammenti postumi
(1917 - 1924) p. 45.
14
T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, vol. III, Giuseppe in Egitto,
p. 100.
15P.
Boitani, L'ombra di Ulisse , p. 214.
16P.
Boitani, L’ombra di Ulisse, p.216.
17Umberto
Saba, Ulisse , vv. 12 - 13.
18
Umberto Saba, Ulisse , v. 11.
19
Cfr. il XVII episodio: “Itaca” la casa
20Cognome
che significa "fiore" nella lingua magiara e dunque indica
l'origine ungherese di questo ebreo che vive a Dublino. Ulisse è
greco ma pure cittadino del mondo.
21Ulysses
, in Pound Opere Scelte , p. 1168
22
Novstou te laqevsqai, Odissea IX, 97
ndr.
23I.
Calvino, Perché leggere i classici , pp. 15 - 16.
24
XI episodio, Le Sirene, la mescita.
25
Joyce, Ulisse, p. 468.
26
Joyce, Ulisse, p. 468
27
Il XVIII, Penelope - il letto
Nessun commento:
Posta un commento