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Capitolo IX (pp.
64-71)
Il dialogo è dunque la parte apollinea, trasparente e bella.
Soprattutto la lingua degli eroi sofoclei ci sorprende per la sua chiarità[1]
apollinea, e noi crediamo di giungere fino alla loro intima essenza. Ma quelle
macchie luminose sono conseguenza dello sguardo gettato nel fondo terribile
della natura, servono a salvare l’occhio offeso dall’orrenda notte. Il
contrario di quello che succede dopo aver guardato il sole: quando ci volgiamo
abbagliati, vediamo scure macchie colorate. La serenità greca è questa.
Edipo è la figura più dolorosa della scena greca: è
concepito da Sofocle come l’uomo nobile che è destinato all’errore e alla
miseria nonostante la sua saggezza, ma che alla fine, in virtù del suo immenso
soffrire esercita intorno a sé un’azione magica e benefica che è ancora più
efficace dopo la sua dipartita (p. 65)
Infatti Edipo è l’uomo dell’errore, poi l’eroe della passività: “ejpei; tav g j e[rga me-peponqovt j i[sqi ma`llon
h] dedrakovta” (Edipo a Colono,
266-267), poiché, sappilo, le mie opere sono state piuttosto subite che fatte.
Più avanti, nel III Stasimo il coro di vecchi cittadini
dell’Attica, dopo avere espresso la sapienza silenica che si confà soprattutto
ai vecchi come loro e come Edipo, paragona quell’infelice a una scogliera
boreale bovreio~ w[~ ti~ ajktav (v.
1240) percossa da ogni parte dalle onde invernali che lo investono senza
tregua.
“L’uomo nobile non pecca, vuol dirci il profondo poeta” (p.
65)
Dal suo agire può essere compromesso l’ordine morale e perfino
quello naturale, ma il suo agire traccia un superiore cerchio magico di effetti
che fondano un mondo nuovo sulle rovine di quello crollato. L’intreccio
aggrovigliato si scioglie e su tutta l’opera soffia una superiore serenità.
Sofocle è poeta religioso e mostra che dalla sfera divina si irradia una
serenità ultraterrena. L’eroe raggiunge la sua più alta attività con il suo
comportamento passivo che si estende oltre la sua vita, mentre gli sforzi
consapevoli nella fase precedente lo avevano condotto solo alla passività. La
natura ci mostra quelll’immagine luminosa dopo che abbiamo gettato gli occhi
nel baratro, Teseo dice alle ragazze penqei`n
ouj crhv , non bisogna piangere: nevmesi~
gavr, sarebbe colpa (1753), infatti il favore dell’aldilà (cavri~ hJ cqoniva, 1752) arride al popolo.
Edipo ha ucciso il padre, seminato la madre, e ha sciolto
l’enigma della Sfinge.
Una leggenda Persiana dice che un mago sapiente può nascere
solo da un incesto.
Cfr. Catullo 90, 3-4: “nam
magus ex matre et gnato gignatur oportet,/si vera est Persarum impia relligio”.
Nell’Andromaca di
Euripide, Ernione dice che la razza dei barbari è tale: il padre si unisce con
la figlia, il figlio con la madre, la ragazza con il fratello, i congiunti
uccisono i congiunti e non c’è legge che lo vieti. Diogene Laerzio riferisce da
Aristippo (Della lussuria degli antichi
in realtà di ignoto autore del III a. C.) che Periandro si unì con la madre
Crateia innamorata di lui.
Periandro ha in comune con Edipo anche la zoppia razziale
(cfr. Labda nonna di Periandro e
Labdaco, nonno di Edipo)
La
tirannide, sovranità claudicante, non può procedere a lungo nel suo successo.
L'oracolo, che aveva dato via libera a Cipselo per aprirgli la porta del
potere, aveva fissato, fin dall'inizio, il termine al di là del quale la
discendenza di Labda, non diversamente da quella di Laio, non avrebbe avuto il
diritto di perpetuarsi. "Cipselo, figlio di Eezione, re dell'illustre
Corinto" aveva proclamato il dio; ma per aggiungere subito:"lui e i suoi
figli, ma non più i figli dei suoi figli"[2]. Alla terza
generazione, l'effetto della "pietra rotolante" uscita dal ventre di
Labda non si fa più sentire [3]. Per la stirpe
dei claudicanti, istallati sul trono di Corinto, è venuto il momento in cui il
destino vacilla, precipita, sprofonda nella sventura e nella morte"[4].
A
proposito della zoppìa del tiranno, Periandro
dunque era figlio di Cipselo, nato da una Bacchiade zoppa (cwlhv, V, 92 b), Labda, che nessun membro di
questa oligarchia dominante Corinto voleva sposare. La sposò invece uno di
origine Lapita, Eezione il quale, siccome non nascevano figli, andò a
interrogare l'oracolo di Delfi. La
Pizia rispose che Labda era già incinta e avrebbe partorito
un masso rotondo[5]
che si sarebbe abbattuto sui governanti punendo Corinto.
Umberto
Curi ricorda che “Labdaco è nome che deriva direttamente dalla lettera
dell’alfabeto greco labda (l),
usata abitualmente in età arcaica, per l’asimmetria fra le due “gambe” del
segno grafico , come simbolo dello zoppo, come zoppo sarà Edipo, nipote di Labda-co (Endiadi, Figure della duplicità, p. 25 n. 13)
Zoppicante è anche the
bloody king (IV, 3), il re sanguinario di Shakespeare, Riccardo III il quale si presenta dicendo di
essere:"so lamely and
unfashionable/That dogs bark at me, as I halt by them" (I, 1), così
claudicante e goffo che i cani mi latrano contro quando gli passo.
Per costringere la natura a rivelare i suoi segreti bisogna
contrastarla vittoriosamente mediante l’innaturale. Edipo ha spezzato la legge
dell’individuazione confondendo le generazioni. Il mito sembra bisbigliare che
la sapienza, in particolare quella dionisiaca è un orrore contro natura. Eppure
la colonna del mito toccata da Sofocle risuona armoniosamente.
Infatti non viene criticata la sapienza ma il sapere limitato
alla logica: il lovgo" non è
solo logica, né la sofiva.
Sofocle in effetti smonta il sapere di Edipo, un sapere sofovn che
non è sapienza(sofiva) secondo la distinzione fatta dal
Coro delle Baccanti di Euripide:
"to; sofo;n d j
ouj sofiva" ( v. 395), il
sapere non è sapienza.
E. Dodds indica un nesso tra questa sentenza del primo
stasimo delle Baccanti e la
transvalutazione denunciata da Tucidide di cui abbiamo detto[6]:
‘cleverness is not wisdom’, ‘the world’s
Wise are not wise’ (Murray). Here again the Chorus take up a
thought expressed in the preceding scene: to;
sofovn has the same implication as in 203[7];
it is the false wisdom of men like Pentheus, who fronw'n oujde;n fronei' (332, cf. 266 ff., 311 ff.), in contrast with the true wisdom of devout
acceptance (179, 186)…for the paradoxical form cf. I A. 1139 oJ nou'~ o{d j aujto;~ nou'n e[cwn ouj tugcavnei[8], Or. 819 to; kalo;n ouj
kalovn[9]. Such paradoxes are the characteristic product of
an age when traditional valuations are rapidly shifting in the way described in
the famous passage of Thucydides on the transvaluatation of values, 3, 82” [10],
‘l’ingegnosità non è sapienza’, ‘la
Maniera del mondo, non è saggia’ (Murray). Qui di nuovo il Coro assume un pensiero
espresso nella scena precedente: il sapere ha la stessa implicazione che al v.
203; è la falsa sapienza di uomini come Penteo, il quale pur avendo la
mente non ha la sapienza (332, cfr. 266 ss.[11]
311 ss.[12]),
in contrasto con la vera saggezza della della pia accettazione (179, 186[13])…per
il modulo paradossale cfr. Ifigenia in
Aulide 1139 , Oreste 819. Tali
paradossi sono il prodotto caratteristico di un’età in cui le valutazioni
tradizionali stanno rapidamente cambiando nel modo descritto nel famoso passo
di Tucidide sulla transvalutazione dei valori, 3, 82.
“Alla gloria della passività contrappongo ora la gloria
dell’attività che illumina il Prometeo
di Eschilo” (p. 67)
N. cita l’Inno a
Prometeo del giovane Goethe
"Io non
conosco al mondo/nulla di più meschino di voi, o dèi/
Ich kenne nichts Ärmer's
Unter der Sonn' als euch Götter.
Unter der Sonn' als euch Götter.
…Io renderti onore?
E perché?/Hai mai lenito i dolori/di me ch'ero afflitto?/
Hai mai calmato le
lacrime/di me ch'ero in angoscia?/…
Ich dich ehren? Wofür?
Hast du die Schmerzen gelindert
Je des Beladenen?
Hast du die Tränen gestillet
Je des Geängsteten?
Hast du die Schmerzen gelindert
Je des Beladenen?
Hast du die Tränen gestillet
Je des Geängsteten?
Io sto qui e creo
uomini/a mia immagine e somiglianza,/una stirpe simile a me,/fatta per soffrire
e per piangere,/per godere e gioire/e non curarsi di te,/come me!"[14].
Hier sitz' ich, forme Menschen
Nach meinem Bilde,
Ein Geschlecht, das mir gleich sei,
Zu leiden, weinen,
Genießen und zu freuen sich,
Und dein nicht zu achten,
Wie ich.
Nach meinem Bilde,
Ein Geschlecht, das mir gleich sei,
Zu leiden, weinen,
Genießen und zu freuen sich,
Und dein nicht zu achten,
Wie ich.
Questo inno ricorda
la concezione del mondo eschilea che vede troneggiare la Moira come eterna giustizia
su dèi e uomini (p. 67)
Necessità e Destino
sono le divinità supreme:
(v. 514): “ tevcnh d
j ajnavgkh" ajsqenestevra makrw'/ ”, la conoscenza pratica è
molto più debole della necessità.
Il predominio del fato non risparmia nessuno, e il martire
aggiunge, consolandosene, che nemmeno Zeus "potrebbe in alcun modo sfuggire alla parte che gli ha dato il destino (ou[koun a]n ejkfuvgoi
ge th;n peprwmevnhn)"(v.
518).
Eschilo mette il mondo olimpico sulla sua bilancia della
giustizia con stupefacente arditezza. Sfogava i suoi impulsi scettici sugli dèi
olimpici in quanto il suo pensiero metafisico era basato sui misteri.
Settembrini, il letterato illuminista di La
Montagna Incantata [15]
di Thomas Mann, esalta la figura di
Prometeo come l'archetipo dell'umanista:"Che cos'era però in fondo l'umanesimo?
Nient'altro che amore verso gli uomini, quindi: politica e ribellione contro
tutto ciò che macchiava e offendeva l'idea dell'uomo. Gli si era rimproverato
un eccessivo rispetto della forma, ma anche la bella forma era da lui[16]
curata per amore della dignità umana, in splendido contrasto col medioevo che
non solo era caduto nell'abisso della inimicizia verso gli uomini e nella
superstizione, ma nella più vergognosa trascuratezza di forma. Fin dal
principio egli aveva parteggiato e combattuto per la causa dell'umanità, per i
suoi interessi terreni, proclamando sacra la libertà di pensiero, la gioia
della vita, e pretendendo che il cielo fosse lasciato agli uccelli. Prometeo!
Quello era stato il primo umanista, identico a quel Satana cui Carducci aveva
dedicato un inno" (p.176 I vol.).
Più avanti Settembrini santifica anche l’ u{bri~ di Prometeo in quanto amica
dell'umanità e favorevole alla ragione:"Ma l'"Hybris" della
ragione contro le oscure potenze è altissima umanità, e se chiama su di sé la
vendetta di dèi invidiosi...questa è sempre una rovina onorata. Anche l'azione
di Prometeo era "Hybris" e il suo tormento sulla roccia scita noi lo
consideriamo il martirio più santo. Ma come siamo invece di fronte all'altra
"Hybris", a quella contraria alla ragione, all'"Hybris"
della inimicizia contro la schiatta umana?".
Prometeo è l’artista titanico che ha fede di poter creare
uomini o di distruggere gli dèi olimpici grazie alla sua superiore sapienza che
deve però scontare con un’eterna sofferenza. Il suo è l’aspro orgoglio
dell’artista.
Invece Sofocle nell’Edipo intona il canto di vittoria del
santo.
Eschilo dà del mito un’interpretazione che non ne scandaglia
il sottostante abisso di terrore: la serenità del creare artistico è una
luminosa immagine di nuvole e cielo che si rispecchia in un lago di nera
tristezza.
La leggenda di Prometeo rispecchia la profondità tragica dei
popoli ariani; questo mito ha la stessa importanza di quello del peccato
originale per i semiti: i due miti sono come fratello e sorella. Il presupposto
del mito di Prometeo è l’importanza del fuoco come il vero palladio di ogni
civiltà ascendente. Ma che l’uomo ne disponesse liberamente apparve a quei
contemplativi uomini arcaici come un sacrilegio, come una rapina ai danni di
una natura divina. La conquista del fuoco avviene con un crimine che crea una
contraddizione tra l’uomo e dio. Tale delitto porta un intero flusso di dolori
e di affanni all’umanità.
La dignità conferita al crimine contrasta stranamente con il
mito semitico del peccato originale dove l’origine del male è dato dalla
curiosità, dal raggiro menzognero, dalla seducibilità, dalla lascivia.
La virtù prometeica è il peccato attivo.
L’ariano meditativo non è incline a negare la sventura
nell’essenza delle cose ed essa deriva dalla lotta di due mondi diversi, quello
divino e quello umano, ognuno dei quali deve combattere perla sua
individuazione. Ognuno dei due mondi vuole negare l’undividuazione dell’altro
per volere essere lui stesso l’unica essenza del mondo. Gli ariani considerano
maschio il delitto, i semiti femmina: Il crimine originale viene commesso dal
maschio, il peccato dalla donna.
Il coro delle streghe del Faust dice che la donna fa le cose con mille passi, l’uomo d’un
balzo. Questa u{bri~ di Prometeo è
antiapollinea siccome Apollo impone la conoscenza di sé e la misura come sacre
leggi. Ma la volontà unilateralmente apollinea che cerca di limitare la grecità
rischia di irrigidire le forme in egiziana durezza e freddezza e di
immobilizzare le superfici, allora interviene l’alta marea del dionisiaco che
alza le onde.
Prometeo di Eschilo è una maschera dionisiaca quando vuole
prendere sul dorso le singole piccole cime ondulate degli individui. Mentre nella
profonda tendenza alla giustizia, Prometeo rivela la sua discendenza paterna da
Apollo, dio dell’individuazione e dei limiti della giustizia.
La sua natura insieme dionisiaca e apollinea potrebbe essere
formulata così: “tutto ciò che esiste è giusto e ingiusto, e in entrambi i casi
è ugualmente giustificato”
continua
[1] "San Tommaso dice: Ad pulchritudinem tria
requiruntur: integritas, consonantia, claritas…Lo splendore di cui parla
san Tommaso è la quidditas scolastica, l'essenza di una cosa"
J. Joyce, Dedalus, p. 258. Boitani traduce claritas con “trasparenza”: “La trasparenza: quella che Tommaso
d’Aquino chiamava claritas, e,
associandola a consonantia e integritas, considerava uno dei tre
criteri della bellezza”. .
Sulle orme di
Ulisse, p. 151.
[2]Erodoto,
V, 92, e 8-9.
[3]Erodoto,
V, 92, e 2. Così le streghe del Macbeth
promettono il regno al signore di Glamis, ma la successione ai figli di
Banquo (I, 3).
[4]Vernant
e Vidal-Naquet, Mito e tragedia due ,
pp. 39, 48 e 49.
[5]
Erodoto, V, 92 b 2
[6]
Cap. 17.
[7] Le tradizione ricevute dai padri, quelle che
possediamo/
coeve con il tempo, nessun
ragionamento le abbatterà,/
neppure se per opera di menti
appuntite viene trovato il sapere (oujd j eij di j a[krwn to; sofo;n hu{rhtai frenw'n) (Baccanti,
vv. 201-203), parla Tiresia (ndr)
[8]
Questa astuzia, sebbene costui abbia astuzia, non funziona. Clitennestra parla
ad Agamennone che fa il finto tonto Ndr.
[9]
E’ secondo stasimo: il Coro di fanciulle argive che deplora
l’assassinio di Clitennestra, un atto ambiguo : può apparire bello ma non
lo è. Ndr.
[10] E. R. Dodds, Euripides Bacchae, p. 121
[11] Quando un uomo saggio abbia preso buoni spunti/per le
sue parole, non è grande impresa il parlare bene;/tu hai sì una lingua sciolta,
come se avessi senno,/
ma nei tuoi discorsi non c'è
senno (Baccanti, 266-269). Ndr
[12] Via Penteo, da' retta a me:/non presumere che il
potere abbia potenza sugli uomini,/e non credere, se tu hai un'opinione, ed è
un'opinione malata,/di avere una qualche sapienza; invece accogli il dio nella
nostra terra/e fai libagioni e baccheggia e incoronati la testa. (Baccanti, 309-313) Ndr.
[13] O Carissimo,
poiché ho inteso udendo la tua voce/saggia da un uomo saggio, stando
nella reggia/eccomi pronto con questo costume del dio;/bisogna infatti che
quello essendo figlio della figlia mia/(Dioniso che si rivelò dio agli
uomini)/per quanto ci è possibile sia esaltato come grande./Dove bisogna
danzare, dove fermare il piede,/e scuotere la testa canuta? Fai da guida tu
vecchio/a me vecchio, Tiresia: tu infatti sei saggio./Poiché non potrei
stancarmi né di notte né di giorno/di battere la terra con il tirso: ci siamo
dimenticati volentieri/di essere vecchi (Baccanti,
178-190). E’ Tiresia che parla a Cadmo.
Ndr.
[14] Vv. 13-14, 38-42, 52-58 dell'Inno Prometeo del 1774 (l'anno del Werther) trad. it. di G. Baioni
[15]
Del 1924.
[16]
Dall’umanesimo, come si capisce meglio nella traduzione di Renata Colorni (La montagna magica, Mondatori, 2010).
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