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Cicerone nel De
finibus bonorum et malorum [1]
premette che è innato in noi l’amore della conoscenza e del sapere, ed è tanto
grande che la natura umana vi è trascinata anche senza l’attrattiva di alcun
profitto.
Questo si vede dall’episodio odissiaco delle Sirene le quali
attiravano i naviganti, non per la dolcezza della voce o la novità dei canti, “sed quia multa se scire profitebantur” (V,
18), ma poiché dichiaravano di sapere molte cose.
L’Arpinate traduce i vv. 184 - 191 del XII
canto del poema di Omero nei quali le Sirene attirano Odisseo dicendo
che chi si ferma da loro riparte pieno di gioia (teryavmeno" nei'tai) e
conoscendo più cose ("kai; pleivona eijdwv"", XII, 188) .
Cicerone conclude con queste parole: “Vidit Homerus probari fabulam non posse, si cantiunculis tantus
irretitus vir teneretur, scientiam pollicentur, quam non erat mirum sapientiae
cupǐdo patriā esse cariorem. Atque omnia quidem scire, cuiuscumque modi sint, cupere
curiosorum”, Omero si accorse che il mito non poteva essere approvato se un
uomo di quella levatura fosse stato trattenuto irretito da canzoncine; il
sapere promettono, e non era strano che a uno bramoso di sapienza fosse più
caro della patria.
E certamente la brama di sapere tutto, di qualunque genere
sia, è proprio delle persone curiose.
Le Sirene
Le Sirene erano state ragazze al servizio di Persefone. Cantavano
e danzavano insieme.
“Chi sono veramente
le Sirene? Esseri oscuri del mondo sotterraneo, come voleva Platone nel Cratilo? [2]
O, come Platone stesso, con esemplare sublimazione ed implicita auto - decostruzione,
proponeva nella Repubblica, esseri
celesti che intonano la musica delle sfere nel mondo futuro[3];
quindi, per un’età successiva,’angeli’? Simboli del desiderio mondano e del
piacere dei sensi, cortigiane e prostitute, come credeva l’ellenismo, o icone
del sapere, sul tipo delle doctae sirenes
celebrate da Ovidio? ”[4].
Ovidio nel V libro delle Metamorfosi
racconta che le doctae Sirenes, figlie
di Acheloo, erano compagne di Proserpina quando la figlia di Demetra sparì, cum legeret vernos Proserpina flores (v.
554), mentre raccoglieva i fiori primaverili.
Come la Kore scomparve, rapita da
Plutone, le Acheloidi
la cercarono toto
frustra in orbe (556) poi si lanciarono sul mare chiedendo le ali che gli
dèi concessero et artus - vidistis
vestros subitis flavescere pennis (559 - 560) . Ne risultò uno strano
ibrido si vide in lori pluma pedesque
avium e virginis ora (Metamorfosi, V, 553) . Perché non si perdesse
la facoltà del canto, fatto per incantare gli orecchi ille canor mulcendas natus ad aures (561), virginei vultus et vox humana remansit
(563),
Nell’ultimo libro delle Argonautiche
di Apollonio Rodio, Orfeo con il suo canto neutralizza quello delle Sirene
appostate sull’isola Antemoessa, usualmente identificata con degli scogli
vicini a Sorrento.
Le Sirene erano figlie dell’Acheloo e della Musa Tersicore. Una
volta servivano Persefone, quando la ragazza era ancora vergine. Poi divennero
in parte uccelli, in parte giovani donne che incantano e uccidono con il loro
canto soave. Ma nel passaggio di Argo la cetra (fovrmigx)
di Orfeo ebbe la meglio sulla voce delle fanciulle che mandava suoni indistinti
(Argonautiche, IV, 893 sgg.) . Solo
Bute saltò nell’acqua e nuotava verso la loro riva. Le Sirene lo avrebbero
ucciso ma Afrodite lo salvò e gli assegnò il promontorio di Lilibeo per dimora (Argonautiche, 4, 892 sgg.) . Sembra che
Apollonio voglia indicare una contrapposizione tra musica benigna e maligna.
La curiosità caratterizza il Lucio di Apuleio che considera
Ulisse una prefigurazione di se stesso, quando, in mezzo ai travagli, fa questa
riflessione: " Nec ullum uspiam
cruciabilis vitae solacium aderat, nisi quod ingenita mihi curiositate
recreabar... Nec immerito priscae poeticae divinus auctor apud Graios, summae
prudentiae virum monstrare cupiens multarum civitatium obitu et variorum
populorum cognitu summas adeptum virtutes cecinit " (L’asino d’oro, IX, 13), né vi era da
qualche parte alcun conforto di quella vita tribolata se non il fatto che mi
sollevavo con la mia innata curiosità... e non a torto quel divino creatore
dell'antica poesia dei Greci volendo raffigurare un uomo di somma saggezza, narrò
che egli raggiunse i sommi valori visitando molte città e conoscendo popoli
diversi.
La curiosità è un antidoto alla noia, se questa è un frutto
della triste incuriosità: “L’ennui, fruit
de la morne incuriosité”[5].
Seneca antepone Catone Uticense, in quanto persona della
Storia e non personaggio del mito, a Ulisse e ad altri personaggi mitici e
letterari: “pro ipso quidem Catone
securum te esse iussi: nullum enim sapientem nec iniuriam accipere nec
contumeliam posse, Catonem certius exemplar sapientis viri nobis deos
immortales dedisse quam Ulixen et Herculem prioribus saeculis. Hos enim Stoici
nostri sapientes pronuntiaverunt, invictos laboribus et contemptores voluptatis
et victores omnium terrorum” (De
costantia sapientis, 2, 2), per Catone in persona ti[6]
invitai a stare sicuro: in effetti nessun saggio può ricevere ingiuria né
offesa, e con Catone gli dèi immortali ci hanno dato un esempio di uomo saggio
più reale di Ulisse ed Ercole per i secoli precedenti. Questi infatti i nostri
Stoici hanno proclamato sapienti, invitti dalle fatiche e spregiatori del
piacere e vincitori di tutti i terrori.
Il paradigma positivo costituito da Ulisse dunque viene
relativizzato dal filosofo stoico.
Qualche cosa della violenza che Ulisse incontra e si aspetta,
è dentro di lui, come afferma l’Ulisse di Alfred Tennyson[7]
in un monologo di settanta versi: “I am a
part of all that I have met ” (Ulysses
v. 18), io sono una parte di tutto quello che ho incontrato.
Leggiamone parte (vv. 1 - 39), in inglese, poi nella
traduzione di Giovanni Pascoli:
“It little profits that an idle king,
By this still hearth, among these barren crags,
Match’d with an aged wife, I mete and dole
Unequal laws unto a savage race,
That hoard, and sleep, and feed, and Know not
me.
“Re neghittoso alla vampa del mio focolare tranquillo
star, con antica consorte, tra sterili rocce, non giova:
e misurare e pesare le leggi ineguali a selvaggia
gente che ammucchia, che dorme, che mangia e che non mi
conosce. /
I cannot rest from travel: I will drink
Life to the lees: all times I have enjoy’d
Greatly, have suffer’d geatly, both with those
That lov’d me, and alone; on shore, and when
Thro’scudding drifts the rainy Hyades
Vex’d the dim sea. I am become a name:
For always roaming with a hungry heart
Much have I seen and Known: cities of men
And manners, climates, councils, governments,
Myself non least, but honor’d of them all;
And drunk delight of battle with my peers,
Far on the ringing plains of windy Troy.
I am a part of all that I have met;
Starmi non posso dall’errar mio: vuo’bere la vita
Sino alla feccia. Per tutto il mio tempo ho molto gioito,
molto sofferto, e con quelli che in cuor mi amarono, e solo;
tanto sull’arida terra, che quando tra rapidi nembi
l’Iadi piovorne travagliano il mare velato di brume.
Nome acquistai, ché sempre errando con avido cuore
Molte città vidi io, molti uomini, e seppi la mente
Loro, e la mia non il meno; ond’ero nel cuore di tutti:
e di lontane battaglie coi pari io bevvi la gioia,
là nel pianoro sonoro di Troia battuta dal vento.
Ciò che incontrai nella mia strada, ora ne sono una parte.
Yet all experience is an arch wheretro’
Gleams that untravell’d world, whose margin
fades
For ever and for ever when I move.
How dull it is to pause, to make an end,
To rust[8]
unburnish’d, not to shine in use!
Pur, ciò ch’io vidi, è l’arcata che s’apre sul nuovo:
sempre ne fuggono i margini via, man mano che inoltro.
Stupida cosa il fermarsi, il conoscersi un fine, il restare
Sotto la ruggine opaci né splendere più nell’attrito.
As tho’to breathe were life. Life pil’d on life
Were all too little, and of one to me
Little remains: but every hour is sav’d
From the eternal silence, something more,
A bringer of new things; and vile it were
For some three suns to store and hoard myself,
And this gray spirit yearning in desire
To follow knowledge like a sinking star,
Beyond the utmost bound of human thought.
Come se il vivere sia quest’alito! Vita su vita
Poco sarebbe, ed a me d’una, ora, un attimo resta.
Pure, è un attimo tolto all’eterno silenzio, ed ancora
Porta con sé nuove opere, e indegno sarebbe, per qualche
Due o tre anni, riporre me stesso con l’anima esperta,
ch’arde e desia di seguir conoscenza: la stella che cade,
oltre il confine del cielo, di là dell’umano pensiero”.
This is my son, mine own Telemachus,
To whom I leave the sceptre and the isle
Well - lov’d of me, discerning to fulfil
This labor, by slow prudence to make mild
A rugged people, and thro’soft degrees
Subdue them to the useful and the good”.
Ecco mio figlio, Telemaco mio, cui ed isola e scettro
lascio; che molto io amo; che quest’opera, accorto,
compiere può; mansuefare una gente selvatica, adagio,
dolce, e così via via sottometterla all’inutile e al bene.
lascio; che molto io amo; che quest’opera, accorto,
compiere può; mansuefare una gente selvatica, adagio,
dolce, e così via via sottometterla all’inutile e al bene.
Vediamo ora gli ultimi versi con il topos eroico del “non cedere”[9]
“Tho’much is taken, much abides; and tho’
We are not now that strenght which in old days
Mov’d earth and heaven, that which we are, we
are:
One equal temper of heroic hearts,
Made weak by time and fate, but strong in will
To strive, to seek, to find, and not to yeld. ”
“Molto perdemmo, ma molto ci resta: non siamo la forza
Più, che ne’giorni lontani moveva la terra ed il cielo:
noi, s’è quello che s’è: una tempra d’eroici cuori,
sempre la stessa: affraliti dal tempo e dal fato, ma duri
sempre in lottare e cercare e trovare né cedere mai”.
Leggiamo ora il commento di Piero Boitani
“L’Ulisse di Alfred Tennyson - il poeta simbolo dell’età
vittoriana - è l’Ulisse della più romantica e della più imperiale delle nazioni,
l’Inghilterra. La composizione, Ulysses,
risale al 1833, la pubblicazione al 1842: lo stesso periodo in cui Wordsworth
rivede il Preludio. Nessun
osservatorio migliore, dunque, per fare il punto sulla poesia della conoscenza
in un altro momento cruciale della storia: l’epoca della fede nel progresso
scientifico, del trionfo della tecnica e dell’industria, dell’espansione
imperiale, dell’affermazione del capitalismo. Ulysses è un monologo drammatico le cui fonti fondamentali di
ispirazione sono, per esplicita ammissione dell’autore, la profezia di Tiresia
nel Libro XI dell’Odissea e il canto
XXVI dell’Inferno: le due ombre, le
due’figure’di cui abbiamo seguito le reincarnazioni in questo libro. Ritornato
in patria da anni, ormai vecchio, l’Ulisse di Tennyson desidera salpare di
nuovo per un ultimo grande viaggio verso occidente. Il monologo lo coglie
sospeso tra l’abdicazione e la partenza. Sovrano apparentemente stanco di
regnare, come potrebbe esserlo un re Lear di monarchie più moderne, egli si
sente inattivo e inutile. L’isola che governa è sterile; la razza che vi abita
selvaggia, preoccupata soltanto di ammassare, dormire e mangiare; le leggi che
egli stesso emana non sono uguali per tutti. E’con questa spietata analisi del
materialismo piccolo - borghese e dell’arbitrarietà del potere che Ulisse
inizia il suo discorso. Sono presenti però in lui impulsi contrastanti: curiosamente,
egli proclama proprio nel primo verso che non vi è utilità alcuna, alcun
“profitto” nel reggere le sorti di un tale stato; aggiunge subito dopo che il
suo focolare è immobile e spento; rivela di avvertire sempre più opprimente il
peso dell’unione con Penelope, moglie ormai vecchia; risente in particolare il
fatto che il proprio popolo non lo “conosca”. Insomma, è un Ulisse che parla lo
stesso linguaggio economico dei suoi sudditi, ma che dietro ad esso cela un
disgusto insopprimibile per la tediosa normalità familiare e amministrativa, e
soprattutto dimostra un grande amor di sé, un egocentrismo quasi sconfinato. Sparita
è la “pieta del vecchio padre”, inaridito il “debito amore lo qual dovea
Penelope far lieta”, trasformata anche la “dolcezza del figlio”. L’Ulisse di
Tennyson ama Telemaco, a metà del suo monologo lo unge proprio (“This is my son, mine
own Telemachus…Well - loved of me” - Questo è il figlio mio prediletto, in
cui mi sono compiaciuto), ne apprezza le qualità di discernimento e lenta
prudenza, lo proclama “del tutto irreprensibile”…Ulisse vede in Telemaco il
modello di saggezza politica, di equità, di amministrazione conservatrice, ragionevole
e illuminata - il’pio Enea’della tradizione romana, il progressista moderato e
attento dell’impero britannico. Di contro a questo erede (il quale non ha
comunque modo di replicare), il vecchio staglia se stesso: un eroe del tempo
antico, un indomabile ricercatore della conoscenza, un Ulisse a tratti
veramente’empio’, satanico, e nello stesso tempo incerto, contraddittorio, amletico,
presago di morte; pronto a partire, ma non ancora nell’alto mare aperto. Fin
dall’inizio, dopo aver rivelato la sua stanchezza del regno, Ulisse annuncia di
non poter trattenersi dal viaggiare, che equipara al “bere la vita fino in
fondo”. Guarda poi alla vita, ma quella passata: grandi gioie e grandi sofferenze,
solitarie e in compagnia, a terra (ma significativamente la parola usata è “shore”, lido, come se l’unica vita
concepibile fosse comunque in riva al mare), e quando “le Iadi piovose
tormentavano il mare scuro con turbini guizzanti”. Il verso, che echeggia
Virgilio, Orazio, Shelley, Shakespeare e Milton, costituisce la solenne
presentazione di sé da parte di Ulisse: tale egli si vuole, uomo dalle mille
esperienze, navigatore intrepido. Egli è cosciente di essere diventato un nome,
un mito: il mito di colui che sempre errando “con un cuore affamato” ha, come
l’eroe dell’Odissea, visto e
conosciuto le città e i costumi degli uomini, ma anche se stesso, e, come
quello dell’Iliade, ha “bevuto la
gioia della battaglia” con i suoi pari “sulle piane sonanti di Troia ventosa”. Ulisse
ha ricostituito la propria identità di personaggio letterario e di uomo. Facendo
incontrare Virgilio e Byron, il classico e il romantico, egli si dichiara ora
“parte di tutto ciò che ho incontrato” come Enea e Childe Harold. “Del mondo
esperto” come l’Ulisse di Dante, egli è divenuto porzione vivente di quel mondo:
la vita è esperienza del tutto”[10].
continua
[1]
Del 45 a. C. E’un dialogo
in cinque libri, dedicato a Bruto, sul problema del sommo bene e del sommo male.
[2]
Socrate etimologizza il nome [Aidh"
con eijdevnai (pavnta ta; kalav) e sostiene che i suoi
sudditi non vogliono tornare sulla terra poiché nell’Ade imparano (Cratilo 403d)
. Le Sirene stesse ne restano ammaliate. Queste sono dunque le sirene ctonie
evocate già nella parodo dell’Elena
di Euripide dove Elena intona il primo canto cui risponde il coro di donne
greche rapite dai corsari e vendute come schiave in Egitto. La figlia di Zeus
dunque chiama le Seirh`ne~ (v. 169) pterofovroi neanivde~ ragazze alate (v. 167),
vergini figlie della terra parqevnoi Xqono;
~ kovrai (v. 168) : le invita a venire compagne ai suoi gemiti con il
flauto libico o le zampogne, lacrime, canti di pianto accordati con i suoi desolati
lamenti, dolori per dolori, canti per canti. Le Sirene erano rappresentate nei
monumenti funebri ndr
[3] Nella mito di Er della Repubblica, Platone racconta che l’asse dell’universo, si volgeva
sulle ginocchia di Ananche e che il fuso era bilanciato da otto fusaioli, emisferi
concentrici su ognuno dei quali incedeva una sirena, tratta anch’essa nel moto
circolare, e da tutte otto che erano risuonava una sola armonia (ejk pasw`n de; ojktw; oujsw`n
mivan aJrmwnivan sumfwnei`n, 617b)
[4]
P. Boitani, L’ombra di Ulisse, pp. 27
- 28
[5] Baudelaire, Les Fleurs du Mal,
Spleen, LXXVI, 3.
[6]
Si rivolge ad Anneo Sereno, un giovane allievo e amico cui Seneca indirizza
anche il De tranquillitate animi e il
De otio..
[7]
1809 - 1892.
[8]
arrugginire
[9]
L'eroe non fa niente che non stimi degno della sua natura: Achille, cedere nescius (Orazio, Odi,
I, 6, 5 - 6: " gravem /Pelidae stomachum cedere nescii ", la
funesta ira di Achille incapace di cedere.),
non si lascia bloccare dalla profezia di sventura del cavallo fatato Xanto, e gli risponde: "ouj lhvxw"
(Iliade, XIX, v. 423), non cederò.
Della definizione oraziana dell'eroe si
ricorda Leopardi nel Bruto Minore: "
Guerra mortale, eterna, o fato indegno, /teco il prode guerreggia, / di cedere
inesperto" (vv. 38 - 40) .
[10]
P. Boitani, L’ombra di Ulisse, pp. 119
- 120.
Bellissimo. Non smetto mai di imparare de te. Giovanna Tocco
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