NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

LE NUOVE DATE! Protagonisti della Storia Antica | Biblioteche Bologna   -  Tutte le date link per partecipare da casa:    meet.google.com/yj...

lunedì 12 ottobre 2015

Ulisse nella letteratura europea, II parte

Mosaico proveniente da Dougga, III sec
PER VISUALIZZARE IL GRECO CLICCA QUI E SCARICA IL FONT HELLENIKA

Cicerone nel De finibus bonorum et malorum [1] premette che è innato in noi l’amore della conoscenza e del sapere, ed è tanto grande che la natura umana vi è trascinata anche senza l’attrattiva di alcun profitto.
Questo si vede dall’episodio odissiaco delle Sirene le quali attiravano i naviganti, non per la dolcezza della voce o la novità dei canti, “sed quia multa se scire profitebantur” (V, 18), ma poiché dichiaravano di sapere molte cose.
L’Arpinate traduce i vv. 184 - 191 del XII canto del poema di Omero nei quali le Sirene attirano Odisseo dicendo che chi si ferma da loro riparte pieno di gioia (teryavmeno" nei'tai) e conoscendo più cose ("kai; pleivona eijdwv"", XII, 188) .
Cicerone conclude con queste parole: “Vidit Homerus probari fabulam non posse, si cantiunculis tantus irretitus vir teneretur, scientiam pollicentur, quam non erat mirum sapientiae cupǐdo patriā esse cariorem. Atque omnia quidem scire, cuiuscumque modi sint, cupere curiosorum”, Omero si accorse che il mito non poteva essere approvato se un uomo di quella levatura fosse stato trattenuto irretito da canzoncine; il sapere promettono, e non era strano che a uno bramoso di sapienza fosse più caro della patria.
E certamente la brama di sapere tutto, di qualunque genere sia, è proprio delle persone curiose.


Le Sirene
Le Sirene erano state ragazze al servizio di Persefone. Cantavano e danzavano insieme.
 “Chi sono veramente le Sirene? Esseri oscuri del mondo sotterraneo, come voleva Platone nel Cratilo? [2] O, come Platone stesso, con esemplare sublimazione ed implicita auto - decostruzione, proponeva nella Repubblica, esseri celesti che intonano la musica delle sfere nel mondo futuro[3]; quindi, per un’età successiva,’angeli’? Simboli del desiderio mondano e del piacere dei sensi, cortigiane e prostitute, come credeva l’ellenismo, o icone del sapere, sul tipo delle doctae sirenes celebrate da Ovidio? ”[4].
Ovidio nel V libro delle Metamorfosi racconta che le doctae Sirenes, figlie di Acheloo, erano compagne di Proserpina quando la figlia di Demetra sparì, cum legeret vernos Proserpina flores (v. 554), mentre raccoglieva i fiori primaverili.
 Come la Kore scomparve, rapita da Plutone, le Acheloidi
la cercarono toto frustra in orbe (556) poi si lanciarono sul mare chiedendo le ali che gli dèi concessero et artus - vidistis vestros subitis flavescere pennis (559 - 560) . Ne risultò uno strano ibrido si vide in lori pluma pedesque avium e virginis ora (Metamorfosi, V, 553) . Perché non si perdesse la facoltà del canto, fatto per incantare gli orecchi ille canor mulcendas natus ad aures (561), virginei vultus et vox humana remansit (563),


Nell’ultimo libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio, Orfeo con il suo canto neutralizza quello delle Sirene appostate sull’isola Antemoessa, usualmente identificata con degli scogli vicini a Sorrento.
Le Sirene erano figlie dell’Acheloo e della Musa Tersicore. Una volta servivano Persefone, quando la ragazza era ancora vergine. Poi divennero in parte uccelli, in parte giovani donne che incantano e uccidono con il loro canto soave. Ma nel passaggio di Argo la cetra (fovrmigx) di Orfeo ebbe la meglio sulla voce delle fanciulle che mandava suoni indistinti (Argonautiche, IV, 893 sgg.) . Solo Bute saltò nell’acqua e nuotava verso la loro riva. Le Sirene lo avrebbero ucciso ma Afrodite lo salvò e gli assegnò il promontorio di Lilibeo per dimora (Argonautiche, 4, 892 sgg.) . Sembra che Apollonio voglia indicare una contrapposizione tra musica benigna e maligna.

La curiosità caratterizza il Lucio di Apuleio che considera Ulisse una prefigurazione di se stesso, quando, in mezzo ai travagli, fa questa riflessione: " Nec ullum uspiam cruciabilis vitae solacium aderat, nisi quod ingenita mihi curiositate recreabar... Nec immerito priscae poeticae divinus auctor apud Graios, summae prudentiae virum monstrare cupiens multarum civitatium obitu et variorum populorum cognitu summas adeptum virtutes cecinit " (L’asino d’oro, IX, 13), né vi era da qualche parte alcun conforto di quella vita tribolata se non il fatto che mi sollevavo con la mia innata curiosità... e non a torto quel divino creatore dell'antica poesia dei Greci volendo raffigurare un uomo di somma saggezza, narrò che egli raggiunse i sommi valori visitando molte città e conoscendo popoli diversi.
La curiosità è un antidoto alla noia, se questa è un frutto della triste incuriosità: “L’ennui, fruit de la morne incuriosité[5].

Seneca antepone Catone Uticense, in quanto persona della Storia e non personaggio del mito, a Ulisse e ad altri personaggi mitici e letterari: “pro ipso quidem Catone securum te esse iussi: nullum enim sapientem nec iniuriam accipere nec contumeliam posse, Catonem certius exemplar sapientis viri nobis deos immortales dedisse quam Ulixen et Herculem prioribus saeculis. Hos enim Stoici nostri sapientes pronuntiaverunt, invictos laboribus et contemptores voluptatis et victores omnium terrorum” (De costantia sapientis, 2, 2), per Catone in persona ti[6] invitai a stare sicuro: in effetti nessun saggio può ricevere ingiuria né offesa, e con Catone gli dèi immortali ci hanno dato un esempio di uomo saggio più reale di Ulisse ed Ercole per i secoli precedenti. Questi infatti i nostri Stoici hanno proclamato sapienti, invitti dalle fatiche e spregiatori del piacere e vincitori di tutti i terrori.
Il paradigma positivo costituito da Ulisse dunque viene relativizzato dal filosofo stoico.

Qualche cosa della violenza che Ulisse incontra e si aspetta, è dentro di lui, come afferma l’Ulisse di Alfred Tennyson[7] in un monologo di settanta versi: “I am a part of all that I have met ” (Ulysses v. 18), io sono una parte di tutto quello che ho incontrato.
Leggiamone parte (vv. 1 - 39), in inglese, poi nella traduzione di Giovanni Pascoli:

It little profits that an idle king,
By this still hearth, among these barren crags,
Match’d with an aged wife, I mete and dole
Unequal laws unto a savage race,
That hoard, and sleep, and feed, and Know not me.

“Re neghittoso alla vampa del mio focolare tranquillo
star, con antica consorte, tra sterili rocce, non giova:
e misurare e pesare le leggi ineguali a selvaggia
gente che ammucchia, che dorme, che mangia e che non mi conosce. /

I cannot rest from travel: I will drink
Life to the lees: all times I have enjoy’d
Greatly, have suffer’d geatly, both with those
That lov’d me, and alone; on shore, and when
Thro’scudding drifts the rainy Hyades
Vex’d the dim sea. I am become a name:
For always roaming with a hungry heart
Much have I seen and Known: cities of men
And manners, climates, councils, governments,
Myself non least, but honor’d of them all;
And drunk delight of battle with my peers,
Far on the ringing plains of windy Troy.
I am a part of all that I have met;

Starmi non posso dall’errar mio: vuo’bere la vita
Sino alla feccia. Per tutto il mio tempo ho molto gioito,
molto sofferto, e con quelli che in cuor mi amarono, e solo;
tanto sull’arida terra, che quando tra rapidi nembi
l’Iadi piovorne travagliano il mare velato di brume.
Nome acquistai, ché sempre errando con avido cuore
Molte città vidi io, molti uomini, e seppi la mente
Loro, e la mia non il meno; ond’ero nel cuore di tutti:
e di lontane battaglie coi pari io bevvi la gioia,
là nel pianoro sonoro di Troia battuta dal vento.
Ciò che incontrai nella mia strada, ora ne sono una parte.

Yet all experience is an arch wheretro’
Gleams that untravell’d world, whose margin fades
For ever and for ever when I move.
How dull it is to pause, to make an end,
To rust[8] unburnish’d, not to shine in use!

Pur, ciò ch’io vidi, è l’arcata che s’apre sul nuovo:
sempre ne fuggono i margini via, man mano che inoltro.
Stupida cosa il fermarsi, il conoscersi un fine, il restare
Sotto la ruggine opaci né splendere più nell’attrito.

As tho’to breathe were life. Life pil’d on life
Were all too little, and of one to me
Little remains: but every hour is sav’d
From the eternal silence, something more,
A bringer of new things; and vile it were
For some three suns to store and hoard myself,
And this gray spirit yearning in desire
To follow knowledge like a sinking star,
Beyond the utmost bound of human thought.

Come se il vivere sia quest’alito! Vita su vita
Poco sarebbe, ed a me d’una, ora, un attimo resta.
Pure, è un attimo tolto all’eterno silenzio, ed ancora
Porta con sé nuove opere, e indegno sarebbe, per qualche
Due o tre anni, riporre me stesso con l’anima esperta,
ch’arde e desia di seguir conoscenza: la stella che cade,
oltre il confine del cielo, di là dell’umano pensiero”.

This is my son, mine own Telemachus,
To whom I leave the sceptre and the isle
Well - lov’d of me, discerning to fulfil
This labor, by slow prudence to make mild
A rugged people, and thro’soft degrees
Subdue them to the useful and the good”.

Ecco mio figlio, Telemaco mio, cui ed isola e scettro
lascio; che molto io amo; che quest’opera, accorto,
compiere può; mansuefare una gente selvatica, adagio,
dolce, e così via via sottometterla all’inutile e al bene.

Vediamo ora gli ultimi versi con il topos eroico del “non cedere”[9]

Tho’much is taken, much abides; and tho’
We are not now that strenght which in old days
Mov’d earth and heaven, that which we are, we are:
One equal temper of heroic hearts,
Made weak by time and fate, but strong in will
To strive, to seek, to find, and not to yeld. ”

“Molto perdemmo, ma molto ci resta: non siamo la forza
Più, che ne’giorni lontani moveva la terra ed il cielo:
noi, s’è quello che s’è: una tempra d’eroici cuori,
sempre la stessa: affraliti dal tempo e dal fato, ma duri
sempre in lottare e cercare e trovare né cedere mai”.


Leggiamo ora il commento di Piero Boitani
“L’Ulisse di Alfred Tennyson - il poeta simbolo dell’età vittoriana - è l’Ulisse della più romantica e della più imperiale delle nazioni, l’Inghilterra. La composizione, Ulysses, risale al 1833, la pubblicazione al 1842: lo stesso periodo in cui Wordsworth rivede il Preludio. Nessun osservatorio migliore, dunque, per fare il punto sulla poesia della conoscenza in un altro momento cruciale della storia: l’epoca della fede nel progresso scientifico, del trionfo della tecnica e dell’industria, dell’espansione imperiale, dell’affermazione del capitalismo. Ulysses è un monologo drammatico le cui fonti fondamentali di ispirazione sono, per esplicita ammissione dell’autore, la profezia di Tiresia nel Libro XI dell’Odissea e il canto XXVI dell’Inferno: le due ombre, le due’figure’di cui abbiamo seguito le reincarnazioni in questo libro. Ritornato in patria da anni, ormai vecchio, l’Ulisse di Tennyson desidera salpare di nuovo per un ultimo grande viaggio verso occidente. Il monologo lo coglie sospeso tra l’abdicazione e la partenza. Sovrano apparentemente stanco di regnare, come potrebbe esserlo un re Lear di monarchie più moderne, egli si sente inattivo e inutile. L’isola che governa è sterile; la razza che vi abita selvaggia, preoccupata soltanto di ammassare, dormire e mangiare; le leggi che egli stesso emana non sono uguali per tutti. E’con questa spietata analisi del materialismo piccolo - borghese e dell’arbitrarietà del potere che Ulisse inizia il suo discorso. Sono presenti però in lui impulsi contrastanti: curiosamente, egli proclama proprio nel primo verso che non vi è utilità alcuna, alcun “profitto” nel reggere le sorti di un tale stato; aggiunge subito dopo che il suo focolare è immobile e spento; rivela di avvertire sempre più opprimente il peso dell’unione con Penelope, moglie ormai vecchia; risente in particolare il fatto che il proprio popolo non lo “conosca”. Insomma, è un Ulisse che parla lo stesso linguaggio economico dei suoi sudditi, ma che dietro ad esso cela un disgusto insopprimibile per la tediosa normalità familiare e amministrativa, e soprattutto dimostra un grande amor di sé, un egocentrismo quasi sconfinato. Sparita è la “pieta del vecchio padre”, inaridito il “debito amore lo qual dovea Penelope far lieta”, trasformata anche la “dolcezza del figlio”. L’Ulisse di Tennyson ama Telemaco, a metà del suo monologo lo unge proprio (“This is my son, mine own Telemachus…Well - loved of me” - Questo è il figlio mio prediletto, in cui mi sono compiaciuto), ne apprezza le qualità di discernimento e lenta prudenza, lo proclama “del tutto irreprensibile”…Ulisse vede in Telemaco il modello di saggezza politica, di equità, di amministrazione conservatrice, ragionevole e illuminata - il’pio Enea’della tradizione romana, il progressista moderato e attento dell’impero britannico. Di contro a questo erede (il quale non ha comunque modo di replicare), il vecchio staglia se stesso: un eroe del tempo antico, un indomabile ricercatore della conoscenza, un Ulisse a tratti veramente’empio’, satanico, e nello stesso tempo incerto, contraddittorio, amletico, presago di morte; pronto a partire, ma non ancora nell’alto mare aperto. Fin dall’inizio, dopo aver rivelato la sua stanchezza del regno, Ulisse annuncia di non poter trattenersi dal viaggiare, che equipara al “bere la vita fino in fondo”. Guarda poi alla vita, ma quella passata: grandi gioie e grandi sofferenze, solitarie e in compagnia, a terra (ma significativamente la parola usata è “shore”, lido, come se l’unica vita concepibile fosse comunque in riva al mare), e quando “le Iadi piovose tormentavano il mare scuro con turbini guizzanti”. Il verso, che echeggia Virgilio, Orazio, Shelley, Shakespeare e Milton, costituisce la solenne presentazione di sé da parte di Ulisse: tale egli si vuole, uomo dalle mille esperienze, navigatore intrepido. Egli è cosciente di essere diventato un nome, un mito: il mito di colui che sempre errando “con un cuore affamato” ha, come l’eroe dell’Odissea, visto e conosciuto le città e i costumi degli uomini, ma anche se stesso, e, come quello dell’Iliade, ha “bevuto la gioia della battaglia” con i suoi pari “sulle piane sonanti di Troia ventosa”. Ulisse ha ricostituito la propria identità di personaggio letterario e di uomo. Facendo incontrare Virgilio e Byron, il classico e il romantico, egli si dichiara ora “parte di tutto ciò che ho incontrato” come Enea e Childe Harold. “Del mondo esperto” come l’Ulisse di Dante, egli è divenuto porzione vivente di quel mondo: la vita è esperienza del tutto”[10].
successore con le parole del padre



continua



[1] Del 45 a. C. E’un dialogo in cinque libri, dedicato a Bruto, sul problema del sommo bene e del sommo male.
[2] Socrate etimologizza il nome [Aidh" con eijdevnai (pavnta ta; kalav) e sostiene che i suoi sudditi non vogliono tornare sulla terra poiché nell’Ade imparano (Cratilo 403d) . Le Sirene stesse ne restano ammaliate. Queste sono dunque le sirene ctonie evocate già nella parodo dell’Elena di Euripide dove Elena intona il primo canto cui risponde il coro di donne greche rapite dai corsari e vendute come schiave in Egitto. La figlia di Zeus dunque chiama le Seirh`ne~ (v. 169) pterofovroi neanivde~ ragazze alate (v. 167), vergini figlie della terra parqevnoi Xqono; ~ kovrai (v. 168) : le invita a venire compagne ai suoi gemiti con il flauto libico o le zampogne, lacrime, canti di pianto accordati con i suoi desolati lamenti, dolori per dolori, canti per canti. Le Sirene erano rappresentate nei monumenti funebri ndr
[3] Nella mito di Er della Repubblica, Platone racconta che l’asse dell’universo, si volgeva sulle ginocchia di Ananche e che il fuso era bilanciato da otto fusaioli, emisferi concentrici su ognuno dei quali incedeva una sirena, tratta anch’essa nel moto circolare, e da tutte otto che erano risuonava una sola armonia (ejk pasw`n de; ojktw; oujsw`n mivan aJrmwnivan sumfwnei`n, 617b)
[4] P. Boitani, L’ombra di Ulisse, pp. 27 - 28
[5] Baudelaire, Les Fleurs du Mal, Spleen, LXXVI, 3.
[6] Si rivolge ad Anneo Sereno, un giovane allievo e amico cui Seneca indirizza anche il De tranquillitate animi e il De otio..
[7] 1809 - 1892.
[8] arrugginire
[9] L'eroe non fa niente che non stimi degno della sua natura: Achille, cedere nescius (Orazio, Odi, I, 6, 5 - 6: " gravem /Pelidae stomachum cedere nescii ", la funesta ira di Achille incapace di cedere.), non si lascia bloccare dalla profezia di sventura del cavallo fatato Xanto, e gli risponde: "ouj lhvxw" (Iliade, XIX, v. 423), non cederò.
 Della definizione oraziana dell'eroe si ricorda Leopardi nel Bruto Minore: " Guerra mortale, eterna, o fato indegno, /teco il prode guerreggia, / di cedere inesperto" (vv. 38 - 40) .
[10] P. Boitani, L’ombra di Ulisse, pp. 119 - 120. 

1 commento:

  1. Bellissimo. Non smetto mai di imparare de te. Giovanna Tocco

    RispondiElimina