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lunedì 26 ottobre 2015

La lirica greca

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La lirica greca, 25 ottobre 2015


La poesia lirica in lingua greca inizia da Archiloco, fiorito intorno alla metà del VII secolo a. C., si sviluppa durante il secolo successivo, in coincidenza con l'età dei tiranni, poi declina nel periodo della democrazia ateniese (V e buona parte del IV secolo), ed ha una ripresa, come componimento breve, ricco di echi letterari, eppure talora in qualche misura soggettivo, nell'età ellenistica, quando i canoni estetici di Callimaco, il massimo poeta alessandrino del III secolo, raccomandano, appunto, l'erudizione e la concisione del componimento poetico.
In questo genere dunque, a differenza degli altri due, l'epico, ritardante, dal quale discende l'ampio fluire del romanzo, e il drammatico, il frutto più sapido della democrazia ateniese, le caratteristiche sono la brevità e la soggettività, ossia l'affermazione dell'io del poeta. I contenuti del resto sono tipici, ossia condivisi dall’ambiente del poeta.

La raffinatezza o la potenza della forma, la novità dell'invenzione, la cultura letteraria o l'ironia, possono conferire a tale autoindividuazione dell'autore quello stile dell'universalità che è necessario all'opera d'arte. Alcuni uomini di cultura del resto hanno ritenuto che la lirica non superi l'ambito della soggettività e non sia degna di essere letta: "negat Cicero[1], si duplicetur sibi aetas, habiturum se tempus quo legat lyricos", Cicerone dice che, anche se gli venisse raddoppiata la vita, non troverebbe il tempo per leggere i lirici, ricorda Seneca (Ep. 49, 5).
I metri sono vari e, anzi, proprio sulla base di questa diversità, solitamente viene fatta una distinzione in quattro grandi categorie: il giambo, l'elegia, la lirica monodica e la lirica corale. Ai metri spesso corrispondono temi e toni predominanti (la poesia giambica per esempio non poche volte è aggressiva, l'elegiaca è amorosa o lamentosa, ma può essere anche guerresca) scelti dalla sensibilità degli autori i quali a loro volta vengono classificati a seconda del verso prevalentemente usato.
Sicché Archiloco di solito viene definito quale poeta giambico, sebbene usi pure il distico elegiaco. Noi però preferiamo adoperare altri criteri sia per unificare sia per dividere. Faremo una distinzione per secoli, e, all'interno di questi, sceglieremo gli autori più importanti dei quali metteremo in evidenza determinati temi destinati ad avere un lungo seguito nella cultura occidentale in componimenti poetici che a volte conservano qualche cosa degli stilemi impressi sull'argomento dal primo autore che l'ha trattato.
Infatti concordiamo con Eliot quando afferma che la poesia europea, da Omero in avanti, ha un'esistenza simultanea, e, da classicisti amantissimi delle lingue classiche, pensiamo che le letterature greca e latina costituiscano la corrente sanguigna o la linfa vitale di ogni successiva espressione letteraria in Europa.
Se i poeti, come tutti gli artisti della nostra tradizione, per dirla con L'uomo senza qualità di Musil (p.270), sono legati da "una catena di plagi", oppure se ogni autore nell'imitare ed emulare i predecessori aggiunga qualche cosa al monumento che ci ricorda l'importanza di essere uomini, lo giudicherà il lettore.

I temi trattati da quasi tutti gli autori lirici arcaici (per la poesia ellenistica faremo un discorso a parte poiché nel frattempo sarà cambiata la concezione della vita) sono quello amoroso e quello politico in senso lato.
L'amore che in Omero rappresentava uno svago, il riposo del guerriero per dirla con Nietzsche, può diventare l'interesse principale del poeta o della poetessa; croce, tormento o delizia. Uno scolaro di Aristotele, Teofrasto, lo chiamerà "affezione di un'anima disoccupata". Questo tema in effetti avrà maggior rilievo negli autori meno impegnati politicamente. Per quanto riguarda le lettere latine, già note al lettore, Catullo che canta di Lesbia, dichiara a Cesare magno che non gli importa di sapere se egli sia bianco o nero:
"Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere
nec scire utrum sis albus an ater homo", non ci tengo troppo, Cesare, a volere piacerti, né a sapere se tu sia un uomo bianco o nero. (93, 2).

L'età della lirica arcaica, dal settimo al sesto secolo, è l'epoca dei tiranni i quali, come si sa, impediscono al popolo di fare politica e lo blandiscono con feste, spesso di carattere sacro, aprendo le porte della Grecia a religioni misteriche, sopra tutte la dionisiaca, che promettono la salvezza individuale e che trovano un ostacolo nel clero delfico-apollineo sostenuto dalle grandi famiglie nobiliari, in primis gli Alcmeonidi di Atene.
Il tiranno di solito è un aristocratico che cambia fazione e prende il potere mettendosi a capo di quella che, dopo l'affermarsi, già nel settimo secolo, dell'economia monetaria, diventa la classe emergente: il partito dei commercianti seguìti dai proletari che si chiamano teti, secondo un termine in uso ad Atene, la città scuola, prima dell'Ellade poi di tutta l'Europa. A tale rivoluzione politica si accompagnò un rivolgimento culturale favorito da vati e profeti, come quell'Epimenide cretese che intorno al 600 a. C. andò in Attica a diffondere i culti orfico-dionisiaci delle Erinni e di Demetra Eleusinia, maledicendo nel contempo, e facendo espellere dalla regione, gli Alcmeonidi devoti ad Apollo, ed esecrati in quanto pochi decenni prima avevano represso nel sangue un
Archiloco
tentativo di instaurazione della tirannide da parte del nobile Cilone. Seguiranno anni di lotte di classe, fino al tentativo di pacificazione di Solone (594) e alla presa del potere da parte del tiranno Pisistrato. Il regime della sua famiglia durerà fino al 511-510 ("per caso" l'anno in cui l'ultimo re, Tarquinio il Superbo, viene cacciato da Roma, e lo facciamo notare volendo significare quanto le vicende ateniesi, perfino le date dei rivolgimenti politici, siano paradigmatiche per i futuri "fieri vincitori" Romani); poco dopo, Clistene Alcmeonide, tornato dall'esilio, inizierà a costruire quella democrazia che verso la metà del secolo seguente verrà radicalizzata da Pericle nato dall'alcmeonidea Agariste e da Santippo il quale invece discendeva da Epimenide. Così la cultura apollinea e quella dionisiaca delle dee venerande potranno fondersi nel capo di Atene e nel genere della tragedia. I poeti che studieremo, a parte Solone, non sono Ateniesi, ma la lotta di classe sopra delineata riguarda tutto il mondo greco, tranne Sparta dove la stabilità della costituzione "consegnata" a Licurgo da Apollo delfico nell'VIII secolo è inficiata solo dalle rivolte degli schiavi iloti. I lirici greci, generalmente, se prendono posizione, si schierano contro il tiranno sia da un punto di vista politico, poiché il despota secondo loro è un prepotente che toglie la libertà, sia da quello morale in quanto è un traditore del suo ceto e un mentitore, sia da quello estetico siccome è ignobile e volgare.
I poeti di parte aristocratica, e con particolare sistematicità Teognide, biasimano l'ascesa della plebe e la mescolanza delle razze, un poco come fa Dante nel Paradiso, XVI, 67-68: "Sempre la confusion delle persone/principio fu del mal della cittade".
Non mancano i cortigiani dei tiranni, qual è Anacreonte che ha lasciato una poesia"graziosa" e disimpegnata. La maggior parte tuttavia usano invettive e toni truci nei loro attacchi in versi contro i detestatissimi despoti, a partire dal macabro brindisi di Alceo per la morte di Mirsilo tradotto secoli dopo da Orazio in nunc est bibendum, e citato anni fa da Bossi nell'occasione di una caduta di Berlusconi.
Prima di iniziare la trattazione degli autori del settimo secolo ci sembra doveroso affrontare una questione preliminare individuata da Nietzsche in La nascita della tragedia (capitolo quinto), cioé come sia possibile il lirico quale artista; "colui che, secondo l'esperienza di tutti i tempi, dice sempre -io-...non è dunque egli (cioé il primo artista che suole chiamarsi soggettivo) anche il primo vero e proprio non artista?". Il grecista- filosofo risolve il dilemma ricordando che la lirica antica era musicata, e dunque il poeta, in quanto ispirato dal dio Dioniso, prima di dare voce ai dolori propri e alle gioie personali, si fondeva con l'Uno originario, e solo in un secondo momento esprimeva nella musica e nelle parole i riflessi di questa identificazione. A supporto di tale tesi si possono ricordare i versi di Archiloco che è l'iniziatore del genere e dà pure la prima testimonianza del ditirambo, l'inno dionisiaco il quale a sua volta, secondo Aristotele (Poetica 1449a) costituisce il punto di partenza della tragedia:
"come, folgorato dal vino nella mente
so intonare il ditirambo, il bel canto di Dioniso signore/"(frammento 77D.).

 Non troppo lontana da quella nicciana è l'interpretazione di Leopardi il quale, nello Zibaldone, sostiene che la poesia lirica, più di quella epica e molto più della drammatica, è naturale, è natura, o per lo meno è vicinissima alla natura di cui è figlia. "La poesia, quanto a' generi, non ha che tre vere e grandi divisioni: lirico, epico e drammatico. Il lirico, primogenito di tutti; proprio di ogni nazione anche selvaggia; più nobile e più poetico d'ogni altro; vera e pura poesia in tutta la sua estensione (…) espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell'uomo. L'epico nacque dopo questo e da questo; non è in certo modo che un'amplificazione del lirico (…) il drammatico è l'ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione(...) Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e dell'ozio (…) trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera nepote"(pp.4234-4236).
Possiamo aggiungere che gli elementi sentimentali, con il privato, non compaiono per la prima volta nella poesia lirica: essi sono già presenti in Omero, nella dichiarazione d'amore di Andromaca a Ettore per esempio (Iliade, VI, 406-439) o nell'attesa d'amore di Nausicaa (Odissea, VI), e Leopardi non manca di sottolinearli nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (pp.71-72):"Che bisogno c'è ch'io ricordi l'abboccamento e la separazione di Ettore dalla sposa, e il compianto di questa e di Ecuba e di Elena sopra il cadavere dell'eroe, mercè del quale, se mi è lecito far parola di me, non ho finito mai di legger l'Iliade, ch'io non abbia pianto insieme con quelle donne..?".
Dunque la lirica non ha l'esclusiva dei sentimenti amorosi e del pathos.
Nemmeno la presenza dell'autore nell'opera comincia con Archiloco: ricordiamo che essa si trova già in Esiodo, autore di un epos cosmogonico e di uno rurale, antichi quasi quanto l'Odissea (inizi del VII secolo). L’autore ci racconta come fu ispirato dalle Muse mentre pascolava gli agnelli ai piedi del sacro Elicona (Teogonia, 22 e sgg.), e narra pure l'ingiustizia personalmente subìta dal fratello Perse con la complicità dei giudici mangiatori di doni(Opere e Giorni, 27).

Possiamo passare a trattare i singoli poeti del settimo secolo.
Riprendiamo dunque Archiloco considerato da Nietzsche uno degli archetipi della poesia greca, e, naturalmente europea. Su questo autore, proprio perché è il primo poeta lirico della cultura occidentale ci intratterremo piuttosto a lungo soffermandoci su quelli che diverranno topoi, o loci, nella nostra cultura.
Fiorito intorno alla metà del settimo secolo, nato a Paro, vissuto tra questa isola dell'Egeo e quella più settentrionale di Taso, fu poeta e soldato mercenario, secondo la presentazione che egli stesso fece di sé:
"io sono servo di Ares signore
e conosco l'amabile dono delle Muse"(frammento 1 D.) Distico elegiaco

Una doppia parte che si sono attribuita anche Foscolo e D'Annunzio, tanto per nominare due poeti-soldati italiani.
Quali sono dunque i temi trattati da Archiloco e come è riuscito il poeta a dare voce all'universale, a trovarne il linguaggio?
Prendiamo in esame alcuni frammenti. Il 2 D. ripropone quello della guerra:
"nella lancia ho la pagnotta impastata, nella lancia il vino
ismarico, bevo appoggiato alla lancia". Distico elegiaco
 Il conflitto ha perduto le caratteristiche che gli avevano attribuito gli eroi omerici: l'unica occasione per manifestare la loro virtù che era capacità di primeggiare parlando con efficacia nell' assemblea dei combattenti e lottando rischiosamente in prima fila, come esige la condizione nobiliare, tanto dei Greci quanto dei Troiani e dei loro alleati (cfr. Iliade, XII, 310 e sgg. dove Sarpedone dice a Glauco che i loro privilegi sono giustificati solo dal fatto che il popolo li vede combattere sempre tra i primi). Appoggiato sulla lancia di Archiloco (ejn doriv keklimevno") ci sembra una ripresa dell'omerico (Iliade, III, 135) ajspivsi keklimevnoi, appoggiati sugli scudi. Sono Teucri e Achei in attesa del duello tra Alessandro e Menelao.

 La guerra e le armi in Archiloco sono piuttosto strumenti usati per procurarsi da mangiare e da bere, non senza cercare nel contempo di salvarsi la pelle, come risulta dal frammento6D.:

"uno dei Saii si vanta dello scudo, arma incensurabile
che, senza volere, lasciai presso un cespuglio.
Ma ho salvato la vita: che mi importa di quello scudo?
Vada in malora, presto me ne procurerò uno non peggiore". Distico elegiaco

Qui vediamo che è confutata la concezione dello scudo come simbolo dell'onore e della disciplina militare quali valori indiscutibili. Tali posizioni vengono solitamente attribuite agli Spartani: Plutarco nella Vita di Licurgo (16), il semileggendario legislatore di Sparta appunto, ci racconta che gran parte dell'educazione"era rivolta a rendere i giovani pronti all'ubbidienza, resistenti alle fatiche e vittoriosi in guerra". Costumi antichi e severi che Tacito riconosce nei Germani alla fine del I secolo dopo Cristo:"scutum reliquisse praecipuum flagitium ", avere abbandonato lo scudo è una vergogna paricolarmente grave,"nec aut sacris adesse, aut concilium inire ignominioso fas ", né è consentito a chi se ne è coperto di partecipare alle cerimonie o alle assemblee, "multique superstites bellorum infamiam laqueo finierunt ", e molti usciti vivi dalla guerra posero fine al loro disonore con un laccio (Germania, VI, 7). Come si vede, descrivendo non senza ammirazione i "boni mores "(XIX, 4) di quella "gens non astuta nec callida "(XXII, 5) non astuta né scaltra, Tacito opera una sorta di ribaltamento di quella posizione archilochea che nel frattempo era diventato un topos letterario: infatti dello scudo abbandonato senza troppi rimorsi né rimpianti nei secoli intercorrenti fra Archiloco e Tacito avevano scritto, non si sa quanto autobiograficamente, Alceo, Anacreonte e, in latino, Orazio:"tecum Philippos et celerem fugam/sensi relicta non bene parmula "(Odi, II, 7, 9-10), con te[2] ho provato Filippi e la fuga veloce, abbandonato senza gloria lo scudo. Ma se è vera l'affermazione di Musil secondo la quale c'è come" una catena di plagi che lega quelle figure l'una all'altra", Archiloco è già un anello di quella catena poiché nel frammento 2D tradotto sopra troviamo un aggettivo, "ismarico", che rende letterario il vino del poeta-soldato; infatti era di Ismaro (in Tracia) la dolce, pura, divina bevanda (Odissea, IX, 205) usata da Ulisse per ubriacare Polifemo. Importante è, come afferma il poeta classicista Eliot, che la parola presa a prestito funzioni nel nuovo ingranaggio spirituale.

L'aspetto
Archiloco dunque, nel cantare la guerra con spirito nuovo, usa il dialetto ionico di Omero e si avvale della sua lezione formale, ma presenta una visione diversa dell'onore e della gloria militare.
Per confermare questa affermazione, in buona parte vera, possiamo utilizzare il frammento 60D:
"non amo lo stratego grande né dall'incedere tronfio
né compiaciuto dei riccioli-oujde; bostruvcoisi gau`ron-, né ben rasato;
ma per me sia pur piccolo, e storto di gambe
a vedersi, però che proceda con sicurezza sui piedi, e sia pieno di cuore/"[3]. Tetrametri trocaici catalettici.

La sostanza dunque viene preposta all'apparenza: Archiloco sgonfia il falso eroe facendone una caricatura che anticipa quella plautina del Miles gloriosus.

Sul rapporto di opposizione contenutistica con Omero però vorremmo fare delle riserve. Infatti si trova già nel "poeta sovrano" la scelta della vita rispetto alla gloria di chi muore precocemente in battaglia: nel IX dell'Iliade, Achille rifiuta l'offerta di doni, pur cospicui, portati da un'ambasceria per convincerlo a combattere; infatti, dice il Pelide, niente vale quanto la vita che, una volta uscita dalla chiostra dei denti, non può essere chiamata indietro a prezzo di tutti i tesori del mondo(401-409).

E anche il guerriero non appariscente ma ardimentoso fa capolino nel V dell'Iliade quando Atena ricorda a Diomede il valore del padre Tideo che era piccolo di corpo ( "Tudeuv" toi mikro;" me;n e[hn devma", ajlla; machthv"", 801), ma forte di animo ( auta;r oJ qumo;n e[cwn o{n karterovn", 806), mentre nel terzo canto viene indicata la modesta statura di Ulisse più basso di Agamennone della testa ( meivwn me;n kefalh '/ jAgamevmnono" jAtreivdao", 193), eppure più largo di spalle e di petto (194), quasi un uomo deforme, un cenno che toglie originalità o per lo meno la priorità assoluta ai gusti di Archiloco e che forse ha suggerito a Ovidio i versi:"non formosus erat, sed erat facundus Ulixes,/et tamen aequoreas torsit amore deas "[4], bello non era ma era bravo a parlare Ulisse, e in ogni caso fece contorcere d'amore le dee dell'acqua(Ars amatoria, II, 123-124).
Del resto nel III canto dell'Iliade troviamo già questo contrasto tra apparenza e sostanza: Ettore rinfaccia a Paride (v. 39) di essere un donnaiolo (gunaimanev") e seduttore (hjperopeutav) di aspetto splendido (ei\do" a[riste) ma senza valore né forza nel cuore (45), capace di portare via donne di uomini bellicosi ma non di affrontarli. Allora Paride gli risponde di non biasimarlo e non rinfacciargli i doni amabili dell'aurea Afrodite (mhv moi dw'r j ejrata; provfere crusevh" jAfrodivth"", 64): nemmeno lui, Ettore, disprezza i magnifici doni degli dèi (qew'n ejrikudeva dw'ra, 65) che del resto nessuno può scegliersi.
Paride era fuggito da Manelao, ma poi decide di affrontare il duello.
 Certamente Euripide aveva in mente il topos del "non bello ma buono", quando nell'Oreste (del 408) elabora la così detta "teoria della classe media" e, presentando con simpatia il piccolo proprietario terriero il quale lavora la terra da sé ed è uno di quelli che, soli, salvano la città, si sente quasi in dovere di precisare che era un uomo di aspetto non attraente ma coraggioso ("morfh'/ me;n oujk eujwpov", ajndrei'o" d j ajnhvr", v.918).
Viceversa, ma sempre con un ricordo archilocheo, nella stessa tragedia viene ridicolizzato Menelao, lo spartano e marito di Elena odioso per avere provocato infiniti dolori ai figli di Agamennone: ("ajll j i[tw xanqoi'" ejp j w[mwn bostruvcoi" gaurouvmeno"" v. 1532).
"venga avanti, pavoneggiandosi per i riccioli biondi sugli omeri"

Affermazioni simili si trovano nell'Elettra di Euripide, quando Oreste dice del contadino onesto che ha sposato la sorella senza consumare il matrimonio: persone di questo genere amministrano bene le città e le case, invece le carni vuote di cervello sono statue di piazza ("aiJ de; savrke" kenai; frenw'n-ajgavlmat ' ajgora'" eijsin" vv. 386-387).
Anche Svetonio nella Vita di Giulio Cesare (65) ricorda che il conquistatore delle Gallie "Militem neque a moribus neque a forma probabat, sed tantum a viribus ", non giudicava i soldati con la misura dei costumi né con quella dell'aspetto fisico ma solo con il metro della forza.

lira
In ogni modo con Archiloco non si afferma per sempre il prevalere della sostanza sull'apparenza che in parte già esisteva, né diviene una conquista stabile, se è vero che Leopardi nell' Ultimo canto di Saffo (50-54), per esperienza propria, scrive:"Alle sembianze il Padre,/alle amene sembianze eterno regno/diè nelle genti; e per virili imprese,/per dotta lira o canto,/virtù non luce in disadorno ammanto".
 Si rafforza piuttosto il diritto di affermare i propri gusti personali: Saffo qualche decennio più tardi scriverà (frammento 27aD) che la cosa più bella è ciò che uno ama.
Tolstoj in Guerra e pace individua il militare bello e vano, un vero e proprio stratego archilocheo francese e napoleonico, in Gioacchino Murat :" un uomo d'alta statura dal cappello adorno di piume, i capelli inanellati che gli piovevano sulle spalle. Indossava un mantello scarlatto, e le lunghe gambe erano protese in avanti (...) in effetti costui era Murat, che ora aveva assunto la qualifica di re di Napoli (...) cosicché aveva un'aria più trionfante e imponente di quanto l'avesse prima (...) Alla vista del generale russo, con gesto regale e solenne, respinse indietro il capo con quei capelli a riccioli fluenti sulle spalle (...) La faccia di Murat raggiava di stolida soddisfazione" (pp. 925-926).
Nel Miles gloriosus di Plauto il soldato fanfarone è presentato dalla merĕtrix Acroteleutium con queste parole: “Populi odium quindi noverim, magnidicum, cincinnatum moechum unguentatum? (v. 923), come potrei non conoscere questo individuo odioso a tutti, fanfarone, dai capelli arricciati, donnaiolo profumato?
Cicerone riassume questo locus nel De finibus bonorum et malorum :"animi enim liniamenta sunt pulchriora quam corporis " (III, 22, 75), infatti i lineamenti dell'anima sono più belli di quelli del corpo. Qui siamo nel campo dell'etica.
E ancora: “mens cuiusque is est quisque, non ea figura quae digito demonstrari potest ” (De repubblica, VI, 26), la mente di ciascuno è quel ciascuno, non quella figura che può essere indicata con un dito.
Lucrezio istituisce tutt’altra graduatoria.
I re si diedero a fondare città e fortezze
Et pecus atque agros divisere atque dedere
Pro facie cuiusque et viribus ingenioque;
nam facies multum valuit viresque vigebant.
Posterius res inventast aurumque repertum
Quod facile et validis et pulchris dempsit honorem (1110-4)
Anche i belli infatti di solito seguono la fazione del ricco
Divitioris enim sectam plerumque sequuntur (1115)
Un'altra possibile interpretazione della bellezza umana è quella data da Plotino (205-270 d.C.) che la considera quale somiglianza con se stesso: "La definizione che Plotino dà di bruttezza e bellezza ha un'utilità immediata per la psicologia. "Anche noi, quando siamo belli, è perché siamo conformi a noi stessi, mentre siamo brutti allorché trapassiamo in un'altra natura" (Enneadi, I, 6, 2)"[5].
In realtà Plotino dice che è brutto (aijscrovn) tutto quello che non è dominato da una ragione o da una forma (to; mh; krathqe;n uJpo; morfh`~ kai; lovgou”, I, 6, 2) in quanto la materia (u{lh) non ha accolto alcuna formazione secondo l’idea. L’idea ordina le varie parti e forma l’unità attraverso il loro accordo. Kai; e}n th`/ oJmologiva/ pepoivhken. Il corpo diventa bello con la comunione con il logos che deriva da dio.

 Questo pensiero è stato sviluppato da J. P. Vernant il quale sostiene che la somiglianza più alta dell'essere umano è quella con gli dèi immortali. La consegue Odisseo in seguito all'intervento di Atena, tanto che Nausicaa dice alle ancelle:" prima in effetti mi sembrava davvero essere uno volgare (ajeikevlio"), ma ora assomiglia agli dèi (nu'n de; qeoi'si e[oike) che abitano l'ampio cielo (Odissea, VI, vv. 242-243).
(Platone raccomanda agli uomini l’assimilazione a Dio (oJmoivwsiς qew̃/, Teeteto, 176b) quella che sarà l’Imitatio Christi per i Cristiani).
Questa similitudine con dio costituisce per la creatura dotata la più alta forma di identificazione, il massimo della sua identità: "quando è privo di ogni charis, l'essere umano non assomiglia più a nulla: è aeikelios. Quando ne risplende, è simile agli dei, theoisi eoikei. La somiglianza con se stessi, che costituisce l'identità di ciascuno e si manifesta nell'apparenza che ognuno ha agli occhi di tutti, non è dunque presso i mortali una costante, fissata una volta per tutte. Tra i due poli opposti del non rassomigliare a nulla e del rassomigliare agli dèi, essa si situa in posizioni variabili a seconda del prestigio o della celebrità di cui uno gode, della paura e del rispetto che uno ispira (…) La grazia e la bellezza del corpo, facendo vedere chi siete, danno la misura della vostra time, della vostra dignità o della vostra infamia".
Viceversa: "A volte capita che anche gli uomini tentino di fare ciò che gli dèi possono realizzare facilmente, ma in peggio, quando cercano di distruggere nel cadavere di un nemico odiato ogni rassomiglianza del morto con lui stesso. Oltraggiando il suo corpo, sfigurandolo, strappandogli la pelle, smembrandolo, lasciandolo imputridire al sole o divorare dagli animali, si vuol far scomparire ogni traccia della sua figura e della sua antica bellezza per non lasciare di lui che orrore e mostruosità. Oltraggiare-cioè imbruttire e disonorare a un tempo si dice aeikizein, rendere aeikes o aeikelios, non simile"[6]. Per comprendere questa riflessione bisogna ricordare che ajjeikhv" è formato sulla radice eijk-/oijk-/ijk- come e[oika, "sono simile", quindi significa "indegno" e "dissimile", ossia, secondo Vernant, indegno di se stesso e dissimile da se stesso.-ajeikivzw-ajeikhv~-eijkov~-

Un altro frammento interessante e degno di essere commentato è il 67aD. Ne facciamo una traduzione letterale, quasi verbum de verbo:
"animo, animo sconvolto da affanni senza rimedio
sorgi e difenditi dai malevoli, contrapponendo
il petto di fronte, piantandoti vicino agli agguati dei nemici
con sicurezza: e quando vinci, non gloriartene davanti a tutti,
 e, vinto, non gemere buttandoti a terra in casa.
 Ma nelle gioie gioisci e nei dolori affliggiti
non troppo: riconosci quale ritmo governa gli uomini. (mh; livhn: givgnwske d j oi|o~ rJusmo;~ ajnqrwvpou~ e[cei, tetrametri trocaici catalettici).
 Questi versi contengono alcune norme basilari della civiltà classica e della cultura europea. Hanno qualche precedente in Omero e un seguito infinito, tanto che sembrano riecheggiare dal fondo dei secoli nell'anima del lettore anche non esperto di greco. L'idea del tollerare con forza le avversità, si trova nell'Odissea, quando Ulisse, davanti allo scempio che vede in casa sua, invita il proprio cuore a sopportare i mali con il ricordo di mali ancora peggiori già superati:
"sopporta, o cuore un altro dolore più cane sopportasti una volta/ (tevtlaqi dhv kradivh: kai; kuvnteron a[llo pot j e[tlh")
quel giorno quando, irrefrenabile possa, mi mangiava il Ciclope/
i gagliardi compagni: e tu resistevi, finché l'ingegno (mh`ti~)
ti tirò fuori dall'antro dove credevi che saresti morto"(XX, 18-21).
 Un motivo dunque che può sollevarci l'animo nelle disgrazie è il ricordo di un precedente successo.
Giuliano Cesare quando si prepara ad attaccare dice ai soldati: quid agi oporteat bonis successibus instruendi (erimus) 21, 5, 6). L’educazione viene anche dal successo

Anche Saffo nella pena amorosa impiega questo balsamo quando rammenta che Afrodite immortale dal trono variopinto una volta venne e le disse: "Chi ti fa torto, Saffo? Se fugge, presto ti inseguirà, se non accetta doni, te li offrirà, se non ama, presto ti amerà anche se non vuole"(fr.1 LP, vv.20-24). La persona nobile infatti non dimentica il bene. Ma sulla poetessa di Lesbo ritorneremo.

Nell’Eracle[7] di Euripide, Anfitrione esorta la nuora Megara a sperare, nelle grandi ambasce in cui si trovano durante l’assenza di Eracle e perseguitati da Lico: il vento sfavorevole potrebbe cambiare: infatti anche le sciagure degli uomini si stancano (kavmnousi gavr toi kai; brotw'n aiJ sumforaiv, v. 101), e le raffiche dei venti non hanno sempre la stessa potenza. Gli uomini di successo non rimangono fortunati sino alla fine. Essere angosciato è tipico dell’uomo vile: “to; d j ajporei'n ajndro;~ kakou' (v. 106).

Machiavelli nella Lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513 descrive la sua giornata fatta di studio e di un ingaglioffarsi con persone volgari e aggiunge: “sfogo questa malignità di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la si vergognassi”. Del resto alla fortuna non si deve “dare briga” ma “aspettare un tempo che la lasci fare qualche cosa agli uomini”.
Vero è pure che poi in Il Principe Machiavelli scrive che la fortuna è “arbitra della metà delle azioni umane” e “dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla” (XXV). In effetti Machiavelli cerca un’occasione mandando in giro i suoi scritti, come faccio io. Manda dunque l’“opuscolo De principatibus” al “Magnifico ambasciatore”.
“E se vi piacque mai alcuno mio ghiribizzo, questo non vi doverrebbe dispiacere”. (Lettera a Vettori).
Archiloco dunque concepisce la vita umana come un grande ritmo, una ruota fatta di uno scendere e un salire con una regolarità ineluttabile, pari a quella della natura[8] che non è mai squilibrata. Di qui deriva il consiglio presente in tutta la classicità di non discostarsi dall'armonia del cosmo. Tale precetto può riassumersi nella massima di Cicerone (De Officiis I, 100): "quam si sequemur ducem, numquam aberrabimus", e se la (la natura) seguiremo come guida non ci svieremo mai
Il "nulla di troppo" (mh; livhn, v. 7), con il "conosci te stesso" erano le due massime scolpite nel santuario delfico e sono rimaste fondamentali nel comportamento di chi possiede una buona educazione, tanto che se ne trovano riflessi nei trattati di galateo dell'età moderna come, per esempio, ne Il libro del cortegiano del Castiglione (1528): il perfetto cortegiano deve essere "umano, modesto e ritenuto, fuggendo sopra tutto la ostentazione e lo impudente laudar se stesso"(I, 17) e dovrà "fuggir quanto più si pò, e come un asperissimo e periglioso scoglio, la affettazione"(I, 26).
Questo aspetto è relativo alla psicologia e al costume. Il versante dell'armonia cosmica invece ha un seguito nella filosofia presocratica e, per quanto riguarda il campo letterario, nella tragedia di Euripide. Per il momento menzioniamo il dramma Le Fenicie del 410, dove Giocasta, per convincere il figlio Eteocle a rinunciare alla brama di potere assecondata con ogni mezzo, compresa l'iniquità, gli ricorda che l'oscura palpebra della notte e la luce del sole percorrono uguale il giro annuo nell'alternarsi delle stagioni (vv.543-544). Dunque come nel ritmo cosmico c'è una regolarità, in forma di isonomia, così nell'avvicendarsi dei fatti umani, e all'uomo dotato di sguardo mentale tale armonia non può sfuggire. Una sentenza di Eraclito raccoglie questa verità: "l'armonia invisibile è più forte della visibile"(fr. 27 Diano). Possiamo chiudere questo commento citando un proverbio di padron 'Ntoni che ripete questo tipo di saggezza:"Buon tempo e mal tempo non dura tutto il tempo!"(I Malavoglia, p.172).

Un altro frammento (7D) di Archiloco ripete il concetto in termini consolatori per la polis che ha perso diversi cittadini in un naufragio:
"pur disapprovando lutti lamentevoli, o Pericle, né alcuno
dei cittadini godrà di feste né la città;
ché l'onda del mare sonante tali uomini
sommerse, e noi abbiamo i polmoni gonfi
per le sofferenze. Ma gli dei ai mali irrimediabili,
o amico, accordarono la forte sopportazione ( kraterh;n tlhmosuvnhn)
come farmaco (favrmakon). Ora gli uni ora gli altri provano queste sventure; ora si sono volte/
verso di noi e lamentiamo una ferita sanguinante,
un'altra volta toccherà ad altri. Ma adesso
 sopportate respingendo il pianto femmineo (gunaikei`on pevnqo~ ajpwsavmenoi)".
Questi distici elegiaci non solo costituiscono un energico richiamo alla vita, ma formano l'archetipo della cosiddetta allegoria della nave, e "sotto 'l velame delli versi strani", probabilmente, "s'asconde"[9] la polis in difficoltà.
L'Anonimo Sul sublime, il trattato di estetica più famoso dell'antichità ( scritto in greco nel I secolo d. C.) afferma che l'elevatezza di questi versi consiste nel fatto che Archiloco ha saputo "ripulire e Silloge, vv.668-682; Eschilo, I sette a Tebe, vv. 62 e sgg., 208 e sgg.; Aristofane, Le rane, v. 361, e Sofocle, Antigone, v. 163). Sono tutti autori sui quali ritorneremo. Che il pianto sia cosa da donne lo afferma anche Tacito raccntando, non senza ammirazione, i costumi dei Germani:"Feminis lugere honestum est, viris meminisse " alle donne si addice piangere, agli uomini ricordare. (Germania, 27).
combinare tra loro i punti culminanti senza lasciare nella composizione nulla di grezzo, indecoroso o noioso"(10). L'immagine si trova in vari poeti greci (Alceo, fr.326 LP; Teognide,

 Passiamo a tradurre, sempre il più letteralmente possibile, il frammento 22 D.
"Non mi importano le ricchezze di Gige pieno d'oro
né mai mi prese l'invidia, né ammiro
 le imprese divine, e non ho brama di grande potere:
infatti questo è lontano dai miei occhi". Trimetri giambici
 Altre negazioni e affermazioni queste che avranno un lungo seguito. Gige è il re di Lidia (687-652) antenato del più famoso Creso. Erodoto nel primo libro delle sue Storie ( 8-14) ne racconta l'avventurosa ascesa al trono. Egli divenne sovrano dopo avere ucciso il suo re Candaule che lo aveva indotto a nascondersi nella camera da letto della regina perché la vedesse nuda. Al sovrano dispiaceva che le fattezze della splendidissima donna fossero conosciute solo da lui. Gige, che era guardia del corpo del "lunatico re", tentò di schermirsi dicendo: "con lo spogliarsi delle vesti, la donna si spoglia anche del pudore"(I, 8).
La nudità come immoralità era sentita anche da molti Romani del tempo di Catone il Vecchio il quale, seguendo il costume degli antichi, evitava di fare il bagno insieme al figlio e ai generi “perché si vergognava di stare nudo davanti a loro” (Plutarco, Vita di Catone il Vecchio, 20).
Non andava così a Sparta secondo Euripide (cfr. Andromaca).
 Candaule dunque riuscì a convincere Gige. La regina, accortasi di essere stata spiata lì per lì fece finta di niente, ma poi, chiamato lo scudiero del marito, gli ordinò di ammazzarlo, se non voleva essere ucciso lui stesso. "Gige, entrato di soppiatto e uccisolo, ebbe la donna e il regno. Di lui fa menzione in un trimetro giambico anche Archiloco di Paro, vissuto nello stesso tempo", ricorda Erodoto (I, 12). Gige dunque attraverso la violenza e l'ingiustizia acquistò ricchezze e potere che divennero beni non desiderabili in quanto forieri di lutti. Nel caso del re lidio, non fu lui personalmente a pagare il fio, ma il suo quarto discendente, il notissimo Creso di cui torneremo a parlare trattando sia Solone sia Erodoto. Intanto del legislatore ateniese del sesto secolo possiamo anticipare che esprime un'idea non lontana da quella centrale negli ultimi versi citati quando afferma:"ricchezze desidero averle, ma procurarmele ingiustamente/ non voglio: infatti poi in ogni caso arriva la giustizia"(Elegia alle Muse, 7-8)[10].
Il succo dei trimetri giambici di Archiloco è lo stesso. Il rifiuto della potenza terrena separata dalla giustizia si trova naturalmente anche nella filosofia: nel Gorgia, Platone rappresenta Socrate che si contrappone al luogo comune secondo il quale un uomo molto ricco e potente è necessariamente una persona invidiabile: a Polo che, credendo di fare una domanda retorica, gli chiede se si possa dire del gran re di Persia che non è felice, risponde:"non lo so, poiché non so come stia a cultura e giustizia"(471d).
Questi autori classici insomma non hanno la caratteristica u{bri" dell'uomo economico che considera virtù massima la capacità di fare denaro. Un elogio della povertà e del santo che la amò si trova nel Paradiso di Dante:"Francesco e Povertà per questi amanti/prendi oramai nel mio parlar diffuso"(XI, 74-75).
Del resto nella Repubblica di Platone il personaggio Glaucone racconta l’episodio di Gige in altra maniera da Erodoto, volendo dimostrare che nessuno è giusto di sua volontà (eJkwvn), ma solo se costretto (ajnagkazovmeno~, 360c). Gige divenne l’amante della regina e uccise il suo re dopo che, da pastore al servizio del sovrano di Lidia, ebbe trovato un anello che lo rendeva invisibile quando girava verso di sé il castone dell’anello.

Del poeta di Paro rimane da trattare la poesia amorosa. Il fr. 25 D. è un delicato ritratto di ragazza:
"gioiva di avere un ramo di mirto
e un bel fiore di rosa,
e la chioma le ombreggiava le spalle e il dorso". Trimetri giambici
Alcuni commentatori pensano che la fanciulla sia Neobùle ("magari mi capitasse di toccare la mano di Neobule", fa il fr 111 T.), la protagonista, si racconta, della storia amorosa più importante nella vita del poeta il quale, dopo una promessa di matrimonio non mantenuta da Licambe, il padre della fidanzata, investì la sposa e il suocero mancati con versi talmente feroci che i due si impiccarono. Ma questa probabilmente è una leggenda creata per sottolineare la violenza di alcuni giambi archilochei.
 I trimetri del fr.25D ci danno un'immagine di ragazza riversa nella natura e ad essa quasi assimilata.
Tale visione della femmina umana risale ai cretesi della civiltà minoica dove era adorata una signora degli alberi e delle fiere della quale troviamo un'eco nell'Iliade (povtnia qhrw'n- [Artemi", XXI, 470-471); essa prosegue nell'Odissea, quando Ulisse vezzeggia Nausicaa paragonandola a un germoglio (qavlo~, VI, 157) e a un nuovo virgulto di palma (foivniko~ nevon e[rno~, VI, 163), che si alzava nell' isola santa di Delo, presso il tempio di Apollo. La ragazza dunque è vista come entità sacra e naturale nello stesso tempo. Ma l'accostamento letterario della donna alla natura è assai comune; anzi Mircea Eliade nel Trattato di storia delle religioni (p. 265) fa notare che"l'assimilazione fra donna e solco arato (...)è intuizione arcaica e molto diffusa".
Per questo tipo di similitudine, invero volto a significare la fertilità e la maternità piuttosto che l'aspetto primaverile e adolescenziale, si possono trarre esempi da un paio di tragedie sofoclee. Nel quarto stasimo dell'Edipo re (1210-1212) il coro domanda al protagonista:"come mai i solchi paterni poterono sopportarti fino a tanto in silenzio, o infelice?" I solchi paterni sono quelli già seminati dal padre, Laio, ossia, fuor di metafora il corpo della magna mater Giocasta.
Nelle Trachinie (vv. 31-32), Deianira trascurata da Eracle paragona il marito a "l'agricoltore, padrone di un campo lontano, che lo visita una volta sola, al tempo della semina".
Anche Shakespeare usa questa metafora: Cleopatra indusse il grande Cesare a mettere a letto la spada: “he plough’d her, and she cropp’d[11], egli la arò ed ella diede il raccolto.
In epoca moderna questa linea arriva ovviamente a D'Annunzio[12] che è particolarmente sensibile alla naturalezza della donna, ma prima di essere messa in versi da lui, tale analogia è stata teorizzata dal seduttore intellettuale, l'esteta Giovanni di Kierkegaard il quale scrive:"ella è come un fiore...e perfino quel che c'è in lei di spirituale ha alcunché di vegetativo" (Diario del seduttore, p.138).

Ancora un frammento (104D.) di lirica amorosa:
"infelice giaccio nella brama (duvsthno~ e[gkeimai povqw/),
senza vita, trapassato nelle ossa
da duri spasimi per volere degli dèi".
Povqo~ è il desiderio di qualche cosa che non c’è, o non c’è più: il rimpianto, "vano pascolo d'uno spirito disoccupato"[13]. E’ quel desiderio dell'assente che fece addirittura morire la madre di Odisseo, Anticlea, la quale nell'Ade dice al figlio che il rimpianto[14] di lui le ha tolto la vita.

 Qui c'è un'altra innovazione rispetto all'epos di Omero dove, al massimo Agamennone si accusa di acciecamento per avere sottratto Briseide ad Achille. Ma era una questione di prestigio più che di amore. E Ulisse nel letto delle dee marine si annoia: nel quinto dell'Odissea, quando l'amante Calipso va a cercarlo, lo trova seduto su un promontorio che piange"poiché la ninfa non gli piaceva più"(v.153). Un precedente casomai può trovarsi nelle Opere di Esiodo dove il poeta racconta che la prima donna, Pandora, ricevette in dono da Afrodite la grazia, la passione struggente e gli affanni che fiaccano le membra (vv. 65-66).
 In Archiloco il desiderio erotico diviene acuminato quanto un coltello appuntito, e il sentimento amoroso si avvicina al senso di morte, come sarà in Saffo (fr. 2D) che esprime lo smarrimento e la debolezza infusi da Eros. L'accoppiamento o l'affratellamento di Amore con Morte avrà un lungo seguito come si sa.
Un altro frammento che lamenta la brama tormentosa di amore è il 118 D.:
"mi prostra, amico, il desiderio che strugge le membra (lusimelhv~ povqo~).

Ancora il desiderio d'amore (fr. 27 della raccolta di Savino):
"profumati i capelli
e il petto, così che anche un vecchio ne avrebbe desiderio".
Ecco invece un monito a una donna non più giovane che si profuma (fr. 28 Savino):
"Farebbe meglio a non spalmarsi di unguenti profumati, perché è vecchia". Forse con questo verso l'autore cerca di consolare se stesso per essere stato respinto, con l'argomento della vecchiaia imminente della donna, come faranno gli alessandrini nel "lamento davanti alla porta chiusa". Certo è che Pericle (Vita scritta da Plutarco, 28) citò questo verso coniugando il verbo alla seconda persona e rivolgendosi, "con un sorriso tranquillo", a Elpinice, sorella e forse amante di Cimone, un suo ex avversario politico, quando la donna lo aveva criticato per la facile vittoria contro i Samii del 439.
Ecco un ultimo biasimo della vecchiaia (fr. 175 Savino):
"Comunque non fiorisci più nella pelle tenera, essa si raggrinza già
nei solchi, della vecchiaia cattiva ti distrugge
...il dolce desiderio saltato via dal volto amabile
è caduto; infatti davvero molte raffiche
di venti invernali si sono avventate spesso... ".
Concludiamo la parte dedicata ad Archiloco con pochi versi dove compaiono animali, poiché tali creature popolano la letteratura greca per un'attenzione assidua indirizzata su questa parte della natura piuttosto vicina alla nostra vita di uomini. A tal proposito è interessante l'osservazione di Schopenhauer che "un altro errore fondamentale... del cristianesimo... è il fatto che esso, contrariamente alla natura, ha staccato l'essere umano dal mondo degli animali (...) dando valore esclusivamente all'uomo e considerando gli animali addirittura come cose..." (Parerga e Paralipomena, II vol., p.486); e, più avanti (p.494): "l'animale nelle cose essenziali e principali, è assolutamente la stessa cosa che siamo noi...la differenza sta soltanto nelle cose accidentali, nell'intelletto, ma non nella sostanza, che è la volontà". In un altro libro, Il fondamento della morale non premiato dalla Regia Società danese delle Scienze a Copenhagen il 10 gennaio 1840(p.249), il filosofo del pessimismo sistematico mette in rilievo la diversa considerazione degli animali nel cristianesimo e nelle filosofie precedenti ricordando da una parte la:"storia evangelica della retata di Pietro che il Redentore favorì al punto da sovraccaricare di pesci le barche fino a farle affondare (Luca, 5)", dall'altra "la storia di Pitagora, iniziato alla sapienza egizia, il quale acquista dai pescatori tutta la retata, mentre la rete è ancora sotto acqua, per donare poi la libertà a tutti i pesci catturati (Apuleio, De Magia, 31)". Veramente Apuleio fa di Pitagora un discepolo di Zoroastro, quindi racconta l'episodio con queste parole: "prodiderunt... pretio dato iussisse ilico pisces eos, qui capti tenebantur, solvi retibus et reddi profundo", tramandarono che dopo avere pagato ordinò che i pesci tenuti prigionieri venissero liberati subito dalle reti e restituiti al fondo del mare.
Nel mondo greco arcaico in realtà la distinzione tra uomini e animali viene fatta da Esiodo, in polemica con quegli umani che, poco differenziati dalle fiere, considerano legge naturale quella del più forte o della giungla. Il poeta beota nelle Opere (vv.202-212) racconta l'apologo dello sparviero e dell'usignolo dal collo variopinto, per dire che la prepotenza del rapace nei confronti dell'uccellino tenuto stretto tra gli artigli mentre geme miseramente, può essere naturale per le bestie ma non per gli uomini cui deve stare a cuore la giustizia. Infatti "l'uomo che apparecchia mali ad un altro li prepara a se stesso/ e il progetto cattivo è pessimo per chi l'ha progettato", commenta l'autore (vv.265-266). Questo non toglie che la considerazione degli animali nella cultura classica sia presente e frequente. Basta pensare alle favole di Esopo, o alla poesia bucolica teocritea, strepitante di cicale. A questo piccolo animale appunto fa cenno Archiloco, forse paragonandolo a se stesso molestato:
"hai preso la cicala per l'ala" (tevttiga d j ei[lhfa~ pterou') fr. 88 a D.).

Già Esiodo nelle Opere (582-584) nota la significativa presenza della cicala nel quadro stagionale dell'estate: "la vibrante cicala, posata su un albero, versa il fitto canto arguto da sotto le ali". Ma l'elogio della cicala si trova negli Uccelli (vv. 1095-1096) di Aristofane che ne fa una messaggera dell'estate, una coreuta del tripudio solare:"quando la divina cantatrice grida il canto acuto/nella calura meridiana, pazza di sole". Non si può non menzionare almeno, il mito platonico delle cicale che una volta erano uomini dediti al canto, tanto che la stirpe attuale, derivata da quelli, "ricevette il dono delle Muse di non avere bisogno di mangiare e di cominciare a cantare subito senza cibo né bevanda, e così fino alla morte, e poi di andare da loro ad annunciare chi degli uomini di quaggiù le onori"(Fedro, 259B-D).
 Ecco infine un frammento (89 D.) di favola popolare, sul tipo di quella esiodea:
"questa è una favola per gli uomini
come la volpe e l'aquila
 si allearono". Troppo breve per fare un commento più specifico. Forse il primo animale simboleggia l'uomo astuto, l'aquila quello nobile e regale.
Platone nella Repubblica (365c) fa dire a suu fratello Adimanto che è conveniente tirarsi dietro "la volpe furba e versatile del sapientissimo Archiloco".

Infine un adynaton. Si tratta del frammento (74 D) che ricorda l'eclissi di sole del 648 a.C. :
Nessuna delle cose è inaspettata né si può giurare che non avvenga (crhmavtwn a[elpton oujdevn ejstin oujd j ajpwvtomon)
né fa meraviglia, poi che Zeus il padre degli Olimpii
di mezzogiorno fece notte nascosta la luce
del sole che splendeva. Madido giunse sugli uomini il terrore.
Da allora, tutto diventa credibile e attendibile
per gli uomini. Nessuno di voi si stupisca più guardando,
neppure se con i delfini le fiere cambino il pascolo
marino e a loro le onde sonanti del mare
divengano più care della terra ferma, a quelli invece il monte selvoso./
Il non meravigliarsi di nulla diverrà tipico del saggio: Cicerone afferma che è tipico del sapiens, tra altre cose:"nihil, cum acciderit admirari"[15], non stupirsi di nessun evento.
l'adynaton (cosa impossibile) diverrà topico nella letteratura europea: qui segnalo Virgilio buc. 1, 59-60 e Orazio Odi, I, 33, 7-9.
La conclusione delle Baccanti di Euripide vv. 1388-1392 quattro dimetri anapestici e un paremiaco. Sono versi topici, convenzionali. Affermano l’imprevedibiltà degli eventi da parte della limitatissima ragione umana. Gli dèi insomma, fanno quello che vogliono e gli uomini non possono farci niente.
Coro
molte sono le forme della divinità
e molti eventi in modo insperato (ajevlptw~) compiono gli dèi;
e i fatti aspettati non vennero portati a compimento,
mentre per quelli inaspettati un dio trovò la via.
Così è andata a finire questa azione
Questo finale di 5 versi è topico. Uguale è la conclusione dell'Alcesti, dell'Andromaca, dell'Elena e della Medea, (con una variazione al primo verso: "Di molti casi Zeus è dispensatore sull' Olimpo", v. 1415).
L'Ippolito si conclude con la constatazione, da parte della Corifea che su Trezene è caduto un dolore comune, ajevlptw~ (v. 1463) che provocherà un fluire continuo di lacrime.

Imprevedibilità degli eventi.
L'affermazione dell'imprevedibilità della vita umana in effetti costituisce uno dei tovpoi della letteratura. Si tratta di un motivo sapienziale arcaico già presente in Archiloco (fr. 58D.): "toi'" qeoi'" tiqei'n a{panta... pollavki" d j ajnatrevpousi kai; mavl j eu\ bebhkovta"/uJptivou" klivnous j", bisogna attribuire ogni cosa agli dei... spesso rovesciano e stendono supini anche quelli ben saldi.
Il topos non manca nella cultura orientale: "Ma proprio come nel classico taoista del Tao Te Ching, quando la fortuna di un uomo tocca il fondo finalmente le cose cominciano a cambiare"[16].
Nell'Alcesti, Eracle anticipa il carpe diem di Orazio dicendo che non è chiaro dove andrà a parare la sorte e non è insegnabile e non si lascia cogliere con una tecnica: "ka[st j ouj didaktovn oujd j aJlivsketai tecvnh/" (v. 786). Insomma la tecnica non capisce il destino.
Anche Sofocle denuncia questa insicurezza: nei suoi drammi si trova più volte l'immagine dell'altalena fatale:" nell'Esodo dell'Antigone il messo sentenzia: "tuvch ga;r ojrqoi' kai; tuvch katarrevpei-to;n eujtucou'nta to;n te dustucou'nt j ajeiv (vv.1157-1158), la sorte infatti raddrizza e la sorte butta giù/ il fortunato e il disgraziato via via. Nell'Edipo re il coro chiede ad Apollo: "intorno a te ho sacro timore: che cosa, o di nuovo/o con il volgere delle stagioni ("peritellomevnai" w{rai"") un'altra volta/effettuerai per me?"(vv. 155-157). In questo scorrere rapido dei giorni, nel girare vorticoso delle stagioni, avvengono mutamenti continui e alcune cose si ripetono, ma altre accadono inopinatamente.
Gli ultimi versi del dramma contengono questa sentenza: sicché, uno che sia nato mortale, non ritenga felice nessuno,/considerando quell'ultimo giorno a vedersi, prima che/abbia passato il termine della vita senza avere sofferto nulla di doloroso ("pri;n aj;n /tevrma tou' bivou peravsh/ mhde;n ajlgeino;n paqwvn", Edipo re, vv.1528-1530).
L'imprevedibilità del futuro è denunciata anche da Deianira all'inizio delle Trachinie (vv. 1-3): "esiste un antico detto ("Lovgo" me;n e[st j ajrcai'o"") diffuso tra gli uomini: che non puoi conoscere la vita di un uomo prima che uno sia defunto, né se per lui sia stata buona o cattiva".
Più avanti la Nutrice afferma addirittura che è sconsiderato (mavtaiovv" ejstin), v. 945 chi conta su due giorni o anche più: infatti non c'è il domani se prima uno non ha passato l'oggi.
Queste parole ribadiscono gli insegnamenti delfici del conoscere, anche attraverso se stessi, la natura umana, i suoi limiti e pure le sue connessioni con il cosmo, per rifuggire ogni eccesso, ogni rottura dell'equilibrio e dell'armonia.

Imprevedibilità e felicità.
L’ alternarsi di successi e insuccessi, benessere e malessere, costituisce il ritmo evidenziato da Archiloco:" animo, animo sconvolto da affanni senza rimedio/sorgi e difenditi dai malevoli, contrapponendo/il petto di fronte, piantandoti vicino agli agguati dei nemici/con sicurezza: e quando vinci non gloriartene davanti a tutti,/e, vinto, non gemere buttandoti a terra in casa./ Ma nelle gioie gioisci e nei dolori affliggiti/non troppo: riconosci quale ritmo governa gli uomini" (fr.128 West).
Ne troviamo un'eco nei Malavoglia di Verga: "Lasciò detto il povero nonno, il riso e i guai vanno a vicenda" (p. 146).
Pindaro afferma che Tantalo era l'uomo più amato dagli dèi che lo onoravano frequentando la sua mensa; egli però non seppe smaltire la grande felicità:" se mai i protettori dell'Olimpo onorarono un uomo/mortale, era Tantalo questo; però/ di fatto non seppe/digerire la grande felicità, e con la sazietà attirò/un accecamento pieno di prepotenza, e su di lui/il padre sospese un macigno pesante,/che egli desidera sempre stornare dal capo/ed erra lontano dalla gioia. (Olimpica I, vv. 54-61).
 "E' il culmine della felicità quando gli dèi si assidono alla nostra tavola e portano i loro doni-ma da quel momento non è possibile che tramontare. "I venti che soffiano sulle cime incessantemente mutano. La felicità non dura a lungo ai mortali, quand'essa viene nella sua pienezza" (Pindaro, Pitiche, III, 104-106)"[17].

Poiché la vita umana è imprevedibile, non si può chiamare felice né fortunato chi non l'ha ancora compiuta tutta: è una constatazione della mutevolezza e imprevedibilità della tuvch, una forza soprannaturale che durante l'età ellenistica acquisterà ogni credito e sostituirà tutti gli dèi dell'Olimpo e degli Inferi.
In ogni caso, è la conclusione delle Trachinie: "koujde;n touvtwn o{ ti mh; Zeu" "(1278), nulla di questo che non sia Zeus.
“Cosa sa l’uomo della vita? Niente di reale. Viviamo tra figure stereotipate, simili a cartoline illustrate”[18].
 Aristofane nella Lisistrata echeggia questo locus in chiave parodica: “h\ povll j a[elpt j e[nestin ejn tw'/ makrw'/ bivw/ " (v. 256) davvero in una lunga vita ci sono molte cose impreviste. Infatti le donne "odiose a Euripide e a tutti gli dèi", come le definisce il corifèo (v. 283) hanno occupato l'Acropoli e intendono fare lo sciopero del sesso per impedire la continuazione della guerra. La parola d'ordine lanciata dalla loro "capa" Lisistrata è: "ajfekteva toivnun ejstivn hJmi'n tou' pevou""(v. 124), bisogna astenersi dal bischero.
Nelle Rane il personaggio Euripide recita i primi due versi della sua Antigone che non ci è arrivata:" Edipo dapprima era un uomo felice" (v. 1182)."ma poi divenne viceversa il più infelice dei mortali" (v. 1187). Ogni giorno infatti è assolutamente diverso dal precedente. Soprattutto per chi ricerca. “Edipo è l’uomo della ricerca, colui che interroga, indaga. Da quando ha lasciato Corinto per partire all’avventura, è anche un uomo per cui l’avventura della riflessione, dell’indagine è sempre una strada da tentare. Edipo non si ferma”[19].
Concetti analoghi si trovano in diversi drammi euripidèi.
Nel terzo Stasimo delle Baccanti le Menadi cantano " to; de; kat j h\mar o{tw/ bivoto"-eujdaivmwn, makarivzw" (vv. 910-911), considero beato l'uomo la cui vita è felice giorno per giorno.
 Nell'Ippolito il coro sentenzia: "oujk oi\d j o{pw" ei[poim j a]n eujtucei'n tina-qnhtw'n: ta; ga;r dh; prw't j ajnevstraptai pavlin" (vv. 981-982), non so come potrei dire che alcuno dei mortali è fortunato: infatti le posizioni più alte vengono rovesciate.
Nell'Ecuba la vecchia regina, dopo il sacrificio-assassinio della figlia Polissena constata la vanità della ricchezza e del potere, quindi conclude: "kei'no" ojlbiwvtato", - o}tw// kat j h\mar tugcavnei mhde;n kakovn" (vv. 627-628), il più fortunato è quello cui giorno per giorno non tocca nessun male.
Negli Eraclidi, il Messaggero che porta la notizia della sconfitta di Euristeo conclude il suo racconto con questa sentenza derivata dall’insegnamento della sorte del persecutore abbattuto: “to;n eujtucei'n dokou'nta mh; zhlou'n pri;n a]n-qanovnt j i[dh/ ti~: w;~ ejfhvmeroi tuvcai” (vv. 865-866), non si deve invidiare quello che sembra avere successo, prima di averlo visto morto; poiché le fortune cambiano ogni giorno.
Nelle Troiane, la vedova di Priamo insegna: "nessuno dei felici considerate che sia fortunato, prima che sia morto" (vv. 509-510).
 In un'altra cara tragedia di Euripide, l'Andromaca, leggiamo: "Crh; d j ou[pot j eijpei'n oujdevn j o[lbion brotw'n-pri;n a]n qanovnto" th;n teleutaivan i[dh/"- o}pw" peravsa" hJmevran h}xei kavtw" (vv.100-102), non bisogna dire mai felice uno dei mortali/prima che tu abbia visto l'ultimo giorno/ del defunto, come, avendolo passato, andrà laggiù.

Nell'Eracle, il Coro constata che in un attimo il dio ha rovesciato un uomo felice, e in un attimo i figli dell’eroe spireranno per mano del padre: "tacu; to;n eujtuch' metevbalen daivmwn-tacu; de; pro;" patro;" tevkn j ejkpneuvsetai" (vv. 884-885).
Nel primo stasimo dell’Oreste, il coro di donne argive sentenzia: oJ mevga~ o[lbo~ ouj movnimo~ ejn brotoi'~ (v. 340), la grande prosperità non è stabile per i mortali. Nel terzo stasimo le coreute compiangono le stirpi mortali e le invitano a considerare wJ~ par j ejlpivda~-moi'ra baivnei (vv. 976-977). Il dolore tocca ora all’uno ora all’altro in un lungo periodo e ogni vita di mortali è imponderabile (979-981).
Nel Thyestes di Seneca il terzo coro di vecchi micenei approva la conciliazione offerta da Atreo, non conoscendo le vere intenzioni del tiranno, e ammonisce i regnanti sulla mutevolezza della sorte:"Nulla sors longa est: dolor ac voluptas/invicem cedunt; brevior voluptas./Ima permutat levis hora summis" (vv. 596-598), nessuna sorte dura a lungo: il dolore e il piacere si alternano; più breve è il piacere. Un'ora veloce cambia gli abissi con le cime.

La non prevedibilità della felicità o infelicità della vita fa parte non solo della sapienza tragica, ma anche di quella erodotea: il Solone dello storiografo di Alicarnasso dichiara a Creso che, essendo la vita umana fatta mediamente di 26250 giorni, nessuno di questi porta una situazione uguale all'altro, pertanto l'uomo è del tutto in balìa degli eventi ("pa'n ejsti a[nqrwpo" sumforhv" (1, 32, 4). Quindi, sebbene il saggio ateniese abbia visto che il re di Lidia è ricco e potente, non può dire se sia felicissimo prima di avere avuto la notizia che ha finito bene la vita[20]. Tucidide viceversa ha la pretesa di assicurarci, dandoci regole per i fatti che si ripresenterebbero sempre nello stesso modo.
Abbiamo detto[21] che Mazzarino mette in rilievo un quesito ricorrente nell'opera di Erodoto: "l’unità dell’opera erodotea è dominata, appunto, da alcuni motivi centrali; motivi che commuovevano ed esaltavano la pubblica opinione di tutti i Greci. E con questa trama andranno spiegate le corrispondenze di più ampio respiro, che attraversano l’opera: il colloquio tra Creso e Solone nel lovgo~ lidio, al quale fanno eco le parole di Artabano a Serse (VII 46, 3-4)[22]. Dall’attuale primo libro, dunque, al settimo si richiama questa domanda essenziale per il pensiero di Erodoto: “Son felici il ricco e il monarca? Perché il vivere può preferirsi al morire?”. A questa domanda rispondono i discorsi tra Creso e Solone, tra Serse e Artabano...anche Anassagora si sforzava di rispondere alla stessa domanda...secondo Anassagora il dotto soprattutto era felice"[23].
Nelle Storie di Polibio, Annibale prima della battaglia di Zama (202 a. C.) parla a Scipione cercando un accordo: io ho sperimentato come la tuvch sia mutevole, gli dice, e faccia pendere la bilancia alternatamente da una parte o dall’altra kaqavper eij nhpivoi~ paisi; crwmevnh (15, 6, 8), come se trattasse con dei bambini infanti.

Platone che nel Gorgia (470e) fa dire a Socrate di non sapere se il gran re dei Persiani sia felice poiché non sa come stia quanto a paideia e a giustizia:"ouj ga;r oi\da paideiva" o{pw" e[cei kai; dikaiosuvnh" ; quindi, a Polo che lo incalza, chiedendogli se la felicità consista in questo, risponde che l'uomo e la donna sono felici quando sono belli e buoni, quando sono ingiusti e malvagi invece sono infelici. Nelle Leggi (VII, 802a) più in generale Platone afferma che "non è cosa sicura onorare i viventi con inni e canti prima che ciascuno abbia percorso fino in fondo tutta la vita e vi abbia posto una bella fine".
Vediamo ancora la formulazione del tovpo" data da Ovidio: "Iam stabant Thebae, poteras iam, Cadme, videri/exilio felix: soceri tibi Marsque Venusque[24]… sed scilicet ultima semper /expectanda dies hominis, dicique beatus/ante obitum nemo supremaque funera debet" (Metamorfosi, III, 135-137), già era costruita Tebe, e tu Cadmo potevi sembrare felice nell'esilio: avevi come suoceri Venere e Marte…ma certo bisogna sempre aspettare l'ultimo giorno dell'uomo e nessuno può dirsi beato prima dell'ultima funebre pompa!

Colpevolezza dell’infelicità e della malattia
Essere felici secondo Strabone è un atto di pietas. Infernale è colpevole allora può essere considerata l'infelicità:" E' una vergogna essere infelici. E' una vergogna non poter mostrare a nessuno la propria vita, dover nascondere e dissimulare qualcosa"[25].
Anche le malattie talora vengono considerate segno di colpa. Quando il principe Andrej Bolkonskij domanda al padre: "Come va la vostra salute?", il vecchio risponde:"Mio caro, solo gli stupidi e i viziosi si ammalano. Tu però mi conosci: dalla mattina alla sera sono occupato, sobrio, e quindi sano"[26].
“La malattia porta con sé minorazioni sensorie, deficienze, narcosi provvidenziali, misure di adattamento e di alleggerimento spirituali e morali della natura, che il sano ingenuamente dimentica di mettere in conto. L’esempio migliore era tutta quella marmaglia di malati di petto con la loro leggerezza, la loro stupidaggine, il loro leggero libertinaggio, e la mancanza di buona volontà per raggiungere la salute”[27]. La teoria della inumanità della malattia convince Hans Castorp, la cui anima viene contesa dall’umanista Settembrini che l’ha esposta, e dal suo rivale Naphta: “Giovanni Castorp trovò la cosa bellissima, interessante, e disse al signor Settembrini che la sua teoria plastica lo aveva completamente conquistato. Poiché, si dicesse pure quello che si voleva-e qualcosa si poteva pur dire; per esempio: che la malattia era uno stato vitale accentuato, ed aveva quindi in sé qualcosa di festivo, di solenne-si dicesse dunque pure quello che si voleva, fatto sta che la malattia significava una superaccentuazione dell’elemento corporeo; essa additava, per così dire, all’uomo il suo corpo e lo riconduceva, lo respingeva ad esso, pregiudicando la dignità umana fino al suo annientamento, appunto perché abbassava l’uomo fino a diventare soltanto corpo. La malattia era dunque inumana”.
Il gesuita naturalmente ribatte e confuta questa teoria: “Naphta replicò dicendo che la malattia era invece altamente umana; poiché essere uomo significa essere malato”[28].

Laboriosità e pietas si addicono molto alla salute. In effetti la Salus per i latini era una divinità, di antica origine italica. Plauto la menziona più volte (Captivi 529; Poenulus 128).
In conclusione: la pretesa odierna di assicurarsi dalle sventure è fasulla e non rende la vita più sicura né più sana né felice.
"Ognuno deve essere pienamente consapevole che la propria vita è un'avventura anche quando la crede chiusa in una sicurezza da burocrate: ogni destino umano comporta un'irriducibile incertezza anche nella certezza assoluta, che è quella della sua morte, poiché ne si ignora la data. Ognuno deve essere pienamente consapevole di partecipare all'avventura dell'umanità, che è, ormai con una velocità accelerata, proiettata verso l'ignoto"[29].
“La formula del poeta greco Euripide, antica di venticinque secoli, è più attuale che mai: “L’atteso non si compie, all’inatteso si apre la via”. L’abbandono delle concezioni deterministe della storia umana, che credevano di poter predire il nostro futuro, l’esame dei grandi eventi del nostro secolo che furono tutti inattesi, il carattere ormai ignoto dell’avventura umana devono incitarci a predisporre la mente ad aspettarsi l’inatteso per affrontarlo… Non abbiamo ancora incorporato il messaggio di Euripide: attendersi l’inatteso. La fine del XX secolo è stata tuttavia propizia, per comprendere l’irrimediabile incertezza della storia umana. I secoli precedenti hanno sempre creduto in un futuro o ripetitivo o progressivo. Il XX secolo ha scoperto la perdita del futuro, cioè la sua imprevedibilità. Questa presa di coscienza deve essere accompagnata da un’altra, retroattiva e correlativa: quella secondo cui la storia umana è stata e rimane un’avventura ignota”[30].
 Ho insistito su questo tovpo" dandone parecchie testimonianze poiché adesso i più cercano disperatamente, e risibilmente, di assicurarsi su tutto, da tutto. La grande angoscia dei giorni di stragi e poi di guerre terroristiche deriva in massima parte dallo squarcio che si è aperto orrendamente nella stupida illusione della programmabilità e prevedibilità della nostra vita dal primo momento all'ultimo.



Gianni Ghiselli





[1] Forse nell’Hortensius.
[2] Un amico che Orazio nomina come Pompeo, non certo il triumviro.
[3]Questa alta valutazione del cuore e del sentimento si ritroverà, com'è noto, negli autori dello Sturm und drang e del romanticismo: Goethe ne I dolori del giovane Werther scrive (9 maggio 1772):"egli apprezza la mia intelligenza ed i miei talenti più del mio cuore, che è pure l'unica cosa della quale sono superbo, che è pure la fonte di tutto, di ogni forza, di ogni beatitudine e di ogni miseria. Ah, quello che io so, lo può sapere chiunque-ma il mio cuore lo possiedo io solo".
[4]Un distico citato da Kierkegaard nel Diario del seduttore, quel Giovanni esteta che infatti è un uomo dal fascino mentale, un seduttore intellettuale come Faust, non sensuale come il Don Giovanni di Mozart.
[5] J. Hillman, L'anima del mondo e il pensiero del cuore, p. 98.
[6]J. P. Vernant, Tra mito e politica, pp. 210-211.
[7] 415ca
[8]La natura ha un andamento ciclico, come i costumi e le mode degli uomini.
 Lo rileva Tacito negli Annali (III, 55) scrive:"Nisi forte rebus cunctis inest quidam velut orbis ut, quemadmodum temporum vices, ita morum vertantur ", se pure in tutte le cose non c'è una specie di ciclo, in modo tale che come si avvicendano le stagioni, così mutano i costumi.
[9]cfr. Dante, Inferno, IX, 61-63.
[10]Anche Edipo re (vv. 380-382) lancia anatemi contro il potere e la ricchezza cui si accompagnano odio e invidia:"o ricchezza e potere e arte che prevale/sull'arte nella vita piena di conflitti/quanta invidia si accumula accanto a voi!".
[11] Antonio e Cleopatra, II, 2. E’ Agrippa che parla.
[12] ne Il Piacere ( del 1889) Andrea Sperelli dichiara che "fra i mesi neutri", aprile e settembre, preferisce il secondo in quanto "più feminino (...) E la terra?-aggiunge- Non so perché, guardando un paese, di questo tempo, penso sempre a una bella donna che abbia partorito e che si riposi in un letto bianco, sorridendo d'un sorriso attonito, pallido, inestinguibile. E' un'impressione giusta! C'è qualche cosa dello stupore e della beatitudine puerperale in una campagna di settembre!"(p. 169).
 Ne Il Fuoco (1890) l'amante non più giovane, la grande attrice tragica Foscarina, viene assimilata, tra l'altro, a "un campo che è stato mietuto"(p. 306).
Su questa linea si trova Liolà il primo personaggio di un dramma anomalo nel teatro pirandelliano:" il protagonista è un contadino- poeta ebbro di sole, e tutta la commedia è piena di canti di sole" scriveva l'autore al figlio Stefano nel 1917. Sentiamo alcune parole di questa forza fecondatrice della natura. La terra, sostiene, parlando con Don Simone, ricco massaro vecchio e impotente, è produttiva come una donna e l'una e l'altra appartengono a chi le rende madri di frutti. :" Scusassi: ccà cc'è un pezzu di terra; si vossia si la sta a taliari senza faricci nenti, chi cci fa 'a terra? Nenti. Comu 'a fimmina! Chi cci duna 'u figliu?-Vegnu iu, nni stu sô pezzo di terra: l'azzappu; la conzu; cci fazzu un pirtusu; cci jettu 'u civu: spunta l'arbulu! A cu' l'ha datu st'arbulu 'a terra? A mmia!.-Veni vossia e dici no, è miu. Pirchi? pirchì 'a terra è sô? Ma la terra, beddu zû Simuni, chi sapi a cu' apparteni? Duna 'u fruttu a cu' la lavura"[12] (I atto).
Si può continuare la rassegna, certo parziale e limitata, con uno dei massimi autori del Novecento, Robert Musil[12] che, ne L'uomo senza qualità, compie l'operazione inversa: assimila la terra alla donna. "Ulrich la trattenne e le mostrò il paesaggio.-Mille e mille anni fa questo era un ghiacciaio. Anche la terra non è con tutta l'anima quello che momentaneamente finge di essere-egli spiegò-. Questa creatura tondeggiante è di temperamento isterico. Oggi recita la parte della provvida madre borghese. A quei tempi invece era frigida e gelida come una ragazza maligna. E migliaia di anni prima si era comportata lascivamente, con foreste di felci arboree, paludi ardenti e animali diabolici" (p.279).
[13] G. D'Annunzio, Il Piacere, p. 40.
[14] Odissea, XI, 202.
[15] Tusculanae disputationes, V. 81.
[16] Qiu Xiaolung, Quando il rosso è nero, p 63.
[17] M. Cacciari, L'arcipelago, p. 53.
[18] Sándor Márai, La sorella, p. 39.
[19] J. P. Vernant, L’Universo, gli dèi, gli uomini, p. 167.
[20] In un testo più recente, le Metamorfosi di Ovidio, troviamo la medesima sentenza della tragedia e di Erodoto, a proposito di Cadmo:"sed scilicet ultima semper/exspectanda dies hominis, dicique beatus/ante obitum nemo supremaque funera debet "(III, 135-137), ma certo bisogna sempre aspettare l'ultima ora dell'uomo e nessuno deve essere chiamato felice prima della morte e delle esequie estreme.
[21] Nella scheda successiva al v. 1230.
[22] E’ un momento di “sapienza silenica”: Serse, invadendo la Grecia, vide l'Ellesponto coperto dalle navi e dapprima si disse beato (oJ Xevrxh" eJwuto;n ejmakavrise, VII, 45), ma subito dopo scoppiò a piangere (meta; de; tou'to ejdavkruse) al pensiero di quanto è breve la vita umana. Allora Artabano, lo zio paterno, lo consolò dicendogli che, essendo la vita travagliata, la morte è il rifugio preferibile per l'uomo ("ouJvtw" oJ me;n qavnato" mocqhrh'" ejouvsh" th'" zovh", katafugh; aiJretwtavth tw'/ ajnqrwvpw/ gevgone", VII, 46, 4) ndr..
[23]S. Mazzarino, Il pensiero storico classico I, pp. 178 e 179.
[24] In quanto aveva sposato la loro figliola Armonia.
[25] H. Hesse, Rosshalde (del 1914), p. 78.
[26] L. Tolstoj, Guerra e pace, p. 146.
[27] T. Mann, La montagna incantata, II, p. 119. E’ l’umanista Settembrini che parla.
[28] T. Mann, La montagna incantata, II, p. 134.
[29] E. Morin, La testa ben fatta,, p. 64.
[30] E Morin, I sette saperi, p. 14 e p. 81.

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