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Capitolo VII (pp.
50-56)
L’origine della tragedia
La tragedia è sorta dal coro tragico. Lo scrive Aristotele
nella Poetica.
Tragedia e commedia nacquero da un principio di
improvvisazione (ajp j ajrch'~
aujtoscediastikh'~, Poetica,
1449a, 10), ma la tragedia da coloro che guidavano il ditirambo:"ajpo; tw'n ejxarcovntwn to;n diquvrambon”[1],
mentre la commedia da quelli che dirigevano i canti fallici i quali rimangono
ancora oggi in uso in molte città"(Poetica
, 1449a, 12).
Nietzsche condivide questa ipotesi mentre rifiuta le frasi
retoriche correnti : che il coro era lo spettatore ideale o che doveva
rappresentare il popolo di fronte alla regione regale della scena, come se il
coro rappresentasse l’immutabile legge morale dei democratici ateniesi. Ma da quelle
origini puramente religiose e umane va esclusa la contrapposizione tra popolo e
re e in genere qualsiasi sfera politico sociale.
Non sono d’accordo: le tragedie di Eschilo, Sofocle,
Euripide hanno contenuti schiettamente e fortemente politici (cfr. p. e. i Persiani (472) e l’Orestea (458) di Eschilo, l’Edipo
a Colono (rappresentata postuma nel 401) di Sofocle, le Supplici
(422) e le Fenicie (411) di Euripide.
Bestemmia è parlare di un presentimento della rappresentanza
costituzionale del popolo che non era conosciuta in praxi nemmeno dalle costituzioni statali.
A.W. Schlegel[2]
ci raccomanda di considerare il coro “lo spettatore ideale”, come fosse il
compendio e l’estratto della folla degli spettatori.
“insomma il Coro era lo spettatore ideale; egli moderava le
impressioni eccessivamente violente o dolorose di un’azione talvolta troppo
vicino alla reatà, e offrendo al vero spettatore il riflesso delle sue proprie
commozioni, gliele tramandava addolcite dalla vaghezza di un’espressione lirica
e armoniosa, e lo immergeva nella regione più tranquilla della contemplazione”
( Corso di letteratura drammatica, trad. di Giovanni Gherardini[3],
il Melangolo, p. 61)
Più pregevole Schiller nella prefazione alla Sposa di Messina (1803) che “considerava
il coro come un muro vivente che la tragedia tracciava intorno a sé, per
isolarsi nettamente dal mondo reale e per serbare il suo terreno ideale e la
sua libertà poetica (…) L’introduzione del coro è il passo decisivo, con il
quale viene dichiarata apertamente e lealmente la guerra a ogni naturalismo in
arte...Certo è un terreno "ideale" quello su cui, secondo la giusta
veduta di Schiller, suole muoversi il coro greco dei Satiri, il coro della
tragedia originaria; è un terreno molto
al di sopra del sentiero reale dei mortali... La tragedia si è sviluppata su
questo fondamento e certo già per questo è stata fin dal principio dispensata
da una penosa riproduzione della realtà…Il satiro come coreuta dionisiaco vive
in una realtà religiosamente riconosciuta sotto la sanzione del mito e del
culto ...il Satiro, il finto essere naturale, sta rispetto all'uomo civile
nello stesso rapporto in cui la musica dionisiaca sta rispetto alla civiltà. Di
quest'ultima Richard Wagner dice che viene annullata dalla musica, come il lume
della lampada dalla luce del giorno. In ugual maniera, io credo, l’uomo civile
greco si sentiva annullato al cospetto del coro dei Satiri; e l'effetto
immediato della tragedia dionisiaca consiste in questo, che Stato e la società, e in genere gli
abissi fra uomo e uomo, cedono a un
soverchiante sentimento di unità che riconduce al cuore della natura. La consolazione metafisica, lasciata alla
fine in noi da ogni vera tragedia-lo dico fin d’ora- per cui la vita è, a dispetto
di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente
potente e gioiosa, questa consolazione, appare in corposa chiarezza come coro
dei Satiri, come coro di esseri naturali, che per così dire vivono
incorruttibili dietro ogni civiltà, e, nonostante ogni mutamento delle
generazioni e della storia dei popoli, rimangono eternamente gli stessi "[4].
Insomma l'uomo moderno "non è se non un centauro
storpio e mutilato il quale ricostituisce il mito primitivo riconnettendo
indissolubilmente il suo genio all'energia atroce della natura"[5].
Né è falso quanto afferma Bernardin De Saint-Pierre che noi
Europei sin dall'infanzia abbiamo "la mente piena di pregiudizi contrari
alla felicità" e non possiamo più comprendere "quanti lumi e piaceri
possa dare la natura"[6].
Quanto alla “consolazione metafisica”, la cui scomparsa
Nietzsche in La nascita della tragedia,
attribuisce a Euripide[7],
quale colpa, nel Tentativo di autocritica
aggiunto nel 1886 a
quest’opera giovanile , essa verrà ripudiata come un errore dovuto alla
prolissità della giovinezza appunto, all’influenza del romanticismo e del
cristianesimo: “metafisicamente consolati, insomma come finiscono i romantici, cristianamente…No! Dovreste prima
imparare l’arte della consolazione dell’al di qua”.
Ma torniamo alle pagine e alla consolazione metafisica della
stesura del 1872
“Con questo coro trova consolazione il Greco profondo,
dotato in modo unico per la sofferenza più delicata e più aspra, che ha
contemplato con sguardo tagliente il terribile processo di distruzione della
cosiddetta storia universale, come pure la crudeltà della natura, e corre il
pericolo di anelare a una buddistica negazione della volontà. Lo salva l’arte,
e mediante l’arte lo salva a sé la vita…In questo senso l’uomo dionisiaco
assomiglia ad Amleto: entrambi hanno gettato una volta uno sguardo vero
nell’essenza delle cose, hanno conosciuto,
e provano nausea di fronte all’agire; giacché la loro azione non può mutare
nulla nell’essenza eterna delle cose, ed essi sentono come ridicolo o infame
che si pretenda da loro che rimettano in sesto il mondo che è fuori dai cardini
[8].
La conoscenza uccide l'azione, per agire occorre essere avvolti
nell'illusione"[9].
L'arte però ci salva dalla negazione della volontà:"Ed
ecco, in questo estremo pericolo della volontà, si avvicina, come maga che
salva e risana, l'arte;
soltanto lei è capace di volgere quei pensieri di disgusto per l’atrocità o
l’assurdità dell’esistenza in rappresentazioni con cui si possa vivere: queste
sono il sublime come repressione artistica dell’atrocità e il comico
come sfogo artistico del disgusto per l’assurdo. Il coro dei satiri del
ditirambo, ecco l'azione salvatrice dell'arte greca "[10].
Il coro "può
essere inteso soltanto come causa della tragedia e del tragico in genere"[11].
Capitolo VIII (pp. 56-63)
Procediamo con questa “stravaganza geniale” come Ritschl ,
il maestro di Nietzsche definì La nascita
della tragedia.
Il Greco vede nel Satiro la natura non ancora indebolita
dalla civiltà e ne ha nostalgia; l’uomo
moderno per questa stessa nostalgia si trastulla però con la carezzevole
immagine di un pastore tenero, effeminato, che suona il flauto.
Il satiro per il Greco significa l’uomo primigenio nelle sue
espressioni più alte e più forti; il satiro è il simbolo dell’onnipotenza
sessuale della natura.
Il pastore falso e agghindato avrebbe offeso l’uomo
dionisiaco. Davanti al satiro barbuto l’uomo civile si raggrinziva in una
bugiarda caricatura.
Dunque Schiller ha ragione: il Coro è un muro vivo contro
l’assalto della realtà perché il Coro dei satiri riflette l’esistenza in nodo
più verace reale e completo rispetto all’uomo civile.
La poesia butta via da sé l’ornamento menzognero della presunta
realtà dell’uomo civile. La tragedia con la sua consolazione metafisica indica
la vita eterna, il greco dionisiaco vuole la natura e la verità nella loro
forza massima. Il pubblico poteva identificarsi con i coreuti. Il pubblico vede
i Satiri nel coro e il coro vede Dioniso nell’attore. La forma del teatro greco
ricorda una valle di montagna. Il poeta è poeta solo in quanto si vede
attorniato da figure che vivono e agiscono davanti a lui. Per il poeta la
metafora non è una figura retorica ma un’immagine che sostituisce un concetto.
Per lui un carattere è una figura insistentemente viva davanti ai suoi occhi.
Omero descrive con maggiore evidenza perché intuisce di più. Il fenomeno
estetico è semplice: sta nel vivere attorniati da schiere di spiriti: se
possiamo parlare immedesimati in altre persone, siamo drammaturghi (p. 59)-
Proprio per questo motivo Leopardi non amava il genere drammatico.
Il rapsodo non si fonde con le sue immagini, ma, come il
pittore, le vede fuori di sé; il drammaturgo si annulla per entrare in una
natura estranea.
Leopardi dunque svaluta il dramma.
Il Recanatese sostiene che il genere drammatico, rispetto
alla poesia lirica e a quella epica, “è
ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma
un'invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e
per volontà degli autori suoi, più che per la essenza sua… Il dramma non è
proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e
dell'ozio, un trovato di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in
somma un trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno
della civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a
procacciare sollazzo a se e agli altri, e onor sociale e utilità a se medesimo.
Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e
pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera
nepote"(Zibaldone, 4235-4236).
Ancora: “Essa[12]
è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, né le danno natura
poetica.
Il poeta è spinto a
poetare dall’intimo sentim. suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere
una passione, un caratt. ch’ei non ha (cosa necess. al drammat.) è cosa
alienis. dal poeta…Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più
avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro
personaggio, di parlare in persona d’altrui, d’imitare, tanto più dipingerà se
stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico” (Zibaldone, 4357).
E più avanti: “Il romanzo, la novella ec. sono all’uomo di
genio assai meno alieni che il dramma, il quale gli è più alieno di tutti i
generi di letteratura, perché è quello che esige la maggior prossimità
d’imitazione, la maggior trasformazione dell’autore in altri individui, la più
intera rinunzia e il più intero spoglio della propria individualità, alla quale
l’uomo di genio tiene più fortemente che alcun altro” (4367).
La stessa cultura ateniese viene considerata manchevole
poiché non ci furono poeti lirici ateniesi.
Io dico perché la letteratura ateniese fu politica, mentre la
lirica è il genere più impolitico.
Ma sentiamo ancora Leopardi: “Si dice con ragione che quasi
tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che
questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta
greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriam. poeti,
ma come, al più, intermedii fra’ poeti e’ prosatori) fu Ateniese. Tanto la
civiltà squisita è impoetica (22. sett. 1828). Però, chi dice che la lett. gr.
Fiorì principalm. in Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere
che la poesia al contrario. Ec. (22. Sett. 1828)”[13].
Dunque “Il coro ditirambico è un coro di trasformati :
dimenticano il loro passato civile e la posizione sociale. (p. 60)
In questo incantesimo chi é esaltato da Dioniso vede se
stesso come satiro e come satiro guarda il dio e questa visione è il
completamento apollineo del dramma.
Dunque il coro dionisiaco si scarica in un mondo apollineo
di immagini (p. 61)
Le parti corali allora sono la matrice del dialogo. Il
dramma è la rappresentazione apollinea di moti dionisiaci. E’ il coro che
produce la visione e se è servile verso il dio, siccome è partecipe della sua
sofferenza, è anche il saggio che annuncia la verità dal cuore del mondo. Il
coro ditirambico deve eccitare dionisiacamente gli spettatori in modo che
quando entra in scena l’attore grottescamente mascherato questi vedano il dio
partorito dalla loro stessa estasi. Come Admeto che vede la donna velata, lo
spettatore entra nell’inquietudine. Poi trasferisce nella figura mascherata
l’immagine del dio che magicamente trema davanti alla sua anima. Così viene
dissolta la realtà dell’attore.
Questo è lo stato apollineo del sogno. Le apparenze
apollinèe in cui si vede Dioniso non sono più un mare eterno, un mutevole
agitarsi, una vita ardente come la musica del coro, ora parla la chiarezza e la
saldezza della raffigurazione epica, ora Dioniso parla come eroe epico, quasi
con il linguaggio di Omero
continua
[1]
Definito da Archiloco :"il bel canto di Dioniso signore" fr. 120
West.
[2]
A. W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, (1808) Lezione X
[3] che nel 1817, su incitamento di V. Monti, suo
caro amico, volse in italiano e commentò il Corso di letteratura drammatica di A.W.
Schlegel, confutando, da buon classicista e conoscitore dell'arte drammatica
italiana, i severi giudizi di quel teorico del romanticismo sul Metastasio,
sull'Alfieri e sul Goldoni nel 1817 compose il libretto La gazza ladra,
derivato dal melodramma francese di T.-B. d'Aubigny e L.-Ch. Caignez, La pie voleuse
(1815), e musicato da G. Rossini)
[4]La nascita della tragedia , pp. 52 sgg.
[5]
G. D'Annunzio, Faville del maglio, La resurrezione del centauro (1907).
[6]
Paul e Virginie (del 1788), p, 135.
[7] Con Euripide "Al posto della consolazione
metafisica è subentrato il deus ex
machina ...ossia il dio delle macchine e dei crogiuoli" (La
nascita della tragedia , p. 117 e p. 118.)
[8] "The time is out of joint" (Amleto,
I, 5)., il tempo si è disarticolato, dice il principe di Danimarca dopo avere
visto e sentito lo spettro del padre che chiede vendetta del turpe e snaturato
assassinio Così pure il mondo del Thyestes di Seneca è uscito dai
cardini. Il retrocedere del sole suggerisce
queste parole al quarto coro atterrito:"Nos e tanto visi
populo/digni, premeret quos everso/cardine mundus;/in nos aetas ultima venit./O
nos dura sorte creatos,/seu perdidimus solem miseri,/sive expulimus!"
(vv. 876-882), noi tra tanta gente siamo sembrati degni di essere schiacciati
dal mondo dopo il rovescio dei cardini; l'ultima era è arrivata su di noi. O
creati con dura sorte, sia che abbiamo perduto il sole, disgraziati, sia che
l'abbiamo cacciato (ndr).
[9]
La nascita della tragedia, p. 55.
[10]
La nascita della tragedia, p. 56.
[11]La nascita della tragedia , p. 96.
[12]
La poesia drammatica.
[13] Zibaldone, p. 4389.
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