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Vediamo quindi il rovesciamento della sapienza silenica
Odissea. Achille
nella Nevkuia dice al figlio di
Laerte " non consolarmi della morte, splendido Odisseo./Io preferirei
essendo un uomo che vive sulla terra servire un altro,/presso un uomo povero,
che non avesse molti mezzi per vivere,/piuttosto che regnare su tutti i morti
consunti"(Odissea , XI,
488-491).
Essere vivi diventa il valore supremo. "Per esprimere
con impressionante efficacia il suo rimpianto per la vita, il morto Achille
dice a Odisseo che lo incontra nell'oltretomba: vorrei lavorare come un thes ( qhteuevmen[1],
Od. XI, 489)"[2].
Già nel IX canto dell’Iliade
Achille aveva detto che niente ha lo stesso valore della vita: “ouj ga;r ejmoi; yuch`~ ajntavxion (v.
401): non le ricchezze di Ilio prima della guerra, non quanto racchiude la
soglia di pietra del tempio di Apollo.
Buoi e grassi montoni si possono rapire, i tripodi si
possono comprare e pure bionde criniere di cavalli, ma la vita di un uomo (ajndro;~ de; yuchv) non la puoi rapire né
afferrare perché torni indietro, quando ha superato la chiostra dei denti
(405-408).
“Un atteggiamento passeggero e dettato dall’odio verso
Agamennone e gli Achei…Poi Achille torna in battaglia per riconquistare il suo
statuto e il suo destino, torna alla sua scelta per una vita breve e gloriosa:
il dubbio, dettato dall’odio temporaneo verso i compagni, è il pensoso
chiaroscuro introdotto da un grande poeta”[3].
Su questo ribaltamento sentiamo Leopardi: “La morte
consideravasi dagli antichi come il maggiore de’ mali; le consolazioni degli
antichi non erano che nella vita; i loro morti non avevano altro conforto che
d’imitar la vita perduta; il soggiorno dell’anime, buone o triste, era un
soggiorno di lutto, di malinconia, un esilio; esse richiamavano di continuo la
vita con desiderio, ec. ec….(14 Ottobre 1828)”[4].
Vediamo anche una formulazione dostoevskijana di questa
sapienza antisilenica: “Dove ho mai letto”, pensò Raskolnikov proseguendo il
cammino, “ dove posso mai aver letto che quel condannato a morte, un’ora prima
dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su
una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con
intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna e l’eterna procella, e
rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita,
per mille anni, per l’eternità, ebbene preferirebbe vivere così piuttosto che
morire all’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualche modo, ma
vivere!...Che verità, Signore Iddio, che verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è un
vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco, “ aggiunse subito dopo”[5].
Anche nell'arte figurativa l'apollineo ha un'espressione
sicura: si vede con chiarezza nel frontone occidentale del tempio di Zeus a
Olimpia[6],
dove Febo si erge al di sopra delle passioni malsane e violente, dominando
l'ignobile zuffa dei Lapiti e dei Centauri acri e bimembri, e indicando con
gesto sicuro la sua misura santa. E pure la nostra vicenda individuale si
travaglia in questo conflitto perpetuo tra il caos degli istinti scatenati e il
cosmo dei sentimenti forti, e pure delicati, e
costruttivi, siccome inseriti nell'equilibrio governato dalla ragione.
“Se una volta risuona il lamento, ciò avviene per Achille
dalla breve vita, per l’avvicendarsi e il mutare della stirpe umana come le
foglie[7],
per il tramonto dell’età degli eroi. Non è indegno neanche del più grande eroe
bramare di vivere ancora, fosse pure come lavoratore a giornata” (La nascita
della tragedia, p. 33).
Platone invece biasima
questo antieroismo di Achille.
Nel III libro della Repubblica prosegue l’indice
dei passi proibiti iniziato nel II libro: “ejxaleivyomen
a[ra…pavnta ta; toiau`ta”-ejxaleivfw 386c, cancelleremo dunque ogni
passo siffatto. E cita la Nevkuia dove l’ombra di
Achille dice che preferirebbe essere un servo di campagna (ejpavrouro~) ed essere uno qhv~ (qhteuevmen)
un salariato di un uomo diseredato (ajklhvrw/) un indigente, piuttosto che
dominare sulle ombre consumate dell’Ade.
Per questa armonia dell’uomo con la natura Schiller ha introdotto il termine
tecnico ingenuo. Ma tale stato non è così semplice . Questo potè essere creduto
solo dall’epoca che cercò di immaginare l’Emilio di Rousseai anche come artista
e si illuse che Omero fosse un Emilio artista.
L’”ingenuo” invero è effetto della cultura apollinea che per
affermarsi deve avere abbattuto un regno di Titani e ucciso i mostri. Allora ci
si può immergere nella bellezza dell’illusione. L’ingenuità omerica è invero la
vittoria dell’illusione apollinea. Con la bellezza la volontà ellenica lottò
contro il dolore e vinse, e Omero, “l’artista ingenuo”, è il monumento della
sua vittoria.
Capitolo IV (pp. 34-39)
La parte della vita trascorsa da svegli ci sembra la più
importante, ma Nietzsche afferma l’opposta valutazione “riguardo a quel
misterioso fondo dell’essere di cui siamo l’apparenza”. L’uno originario che
veramente è eternamente soffre, è pieno di contraddizioni ed ha bisogno della
gioiosa illusione per liberarsi. Il mondo è la rappresentazione dell’uno
originario, un’illusione, e il sogno è l’illusione di un’illusione, quindi una
soddisfazione maggiore del bisogno di illuderci.
N. esamina la Trasfigurazione di Raffaello: “Raffaello…
ci ha rappresentato in un dipinto simbolico…il processo originario dell’artista
ingenuo e insieme della cultura apollinea. Nella sua Trasfigurazione[8] la metà
inferiore col ragazzo ossesso, li uomini in preda alla disperazione che lo
sostengono, gli smarriti e angosciati discepoli, ci mostra il rispecchiarsi
dell’eterno dolore originario…l’illusione è qui un riflesso dell’eterno
contrasto…Da questa illusione si leva poi, come un vapore d’ambrosia, un nuovo
mondo illusorio, simile a una visione di cui quelli illuminati dalla prima
visione non vedono niente-un luminoso fluttuare in purissima delizia…Qui
abbiamo davanti agli occhi quel mondo di bellezza apollinea e il suo sfondo, la
terribile saggezza del Sileno e comprendiamo la loro reciproca necessità”[9].
Il mondo dell’affanno è necessario per giungere alla visione
liberatrice (cfr. tw`/ pavqei mavqo~). Apollo
esige dai suoi la misura e per
poterla osservare, la conoscenza di sé. Dunque “Conosci te stesso” e “nulla di
troppo”, mentre l’eccesso e l’esaltazione di sé sono i demoni della sfera non
apollinea, dell’età titanica, del mondo barbarico.
Prometeo eccede nel suo titanico amore per gli uomini, Edipo
nella saggezza che sciolse l’enigma della Sfinge e per questo dové precipitare
in un travolgente vortice di atrocità.
Il titanico e il barbarico erano per i Greci una necessità,
come l’apollineo.
Il demonico canto popolare si aggiunge al suono spettrale
dell’arpa di Apollo. Questo impallidisce davanti a un’arte che nella sua
ebbrezza dice la verità. La saggezza del Sileno grida il suo dolore contro i
sereni dei olimpici. L’eccesso si svela come verità e vuole scalzare
l’apollineo. Ma il dio delfico resiste. Lo stato dorico e l’arte dorica sono il
campo di battaglia dell’apollineo. Un’arte così sdegnosa, un’educazione così
guerriera e aspra, uno Stato così crudele e spietato si spiega come baluardo
opposto alla natura titanico-barbarica del dionisiaco.
La lotta dell’ordine contro il caos è il tema di tutta la
cultura greca arcaica e classica: non solo di quella letteraria, ma pure
dell'arte figurativa: le sculture del maestro di Olimpia con la lotta tra
Centauri e Lapiti del frontone occidentale del tempio di Zeus;
le metope del Partenone con centauromachia,
amazzonomachia, gigantomachia, ora in gran parte nel British Museum di Londra;
la gigantomachia, fregio dell'altare di Pergamo[10]
che ora si trova a Berlino, esprimono la stessa idea . Infatti "non
esiste…una vita nobile ed elevata senza la conoscenza dei diavoli e dei demoni
e senza la continua battaglia contro di essi"[11],
contro "giganti e titani, miticamente, gli eterni nemici della cultura"[12].
Dunque secondo Nietzsche abbiamo questi 4 grandi periodi
artistici:
L’età del bronzo con le sue titanomachie (cfr. la
gigantomachia del Sofista di Platone)
Da questa si sviluppò il mondo omerico pervaso dall’istinto
apollineo della bellezza
Questa magnificenza “ingenua” rischiò di essere inghiottita
dal fiume dirompente del dionisiaco,
Di fronte a questa nuova potenza si elevò nella rigida
maestà dell’arte dorica e della visione
dorica del mondo.
Ma il vertice e il fine di quegli impulsi artistici non è
l’arte dorica bensì la tragedia attica e il ditirambo drammatico come meta
comune dei due istinti il cui connubio ha generato questa strana creatura “che
è insieme Antigone e Cassandra”
Capitolo V (pp. 39-45)
Progenitori della poesia greca sono stati Omero e Archiloco.
Entrambi, e solo loro, creature originali. Omero è il tipo
dell’artista apollineo, Archiloco è il battagliero servitore delle Muse.
Fiorito intorno alla metà del settimo secolo, nato a Paro,
vissuto tra questa isola dell'Egeo e quella più settentrionale di Taso, fu
poeta e soldato mercenario, secondo la presentazione che egli stesso fece di sé
con questi due versi:
"io sono servo di Ares signore
e conosco l'amabile dono delle Muse"(frammento 1 D.) in
greco è un distico elegiaco
Una doppia parte che si sono attribuita anche Foscolo e
D'Annunzio, tanto per nominare due poeti-soldati italiani
L’estetica moderna contrappone Arciloco quale primo poeta
soggettivo al poeta oggettivo. Ma l’artista soggettivo è cattivo artista.
Eppure il lirico dice “io” e canta l’intera scala cromatica delle sue passioni
e dei suoi desideri.
Schiller in una lettera a Goethe (18 marzo 1796) scrive che
il proprio stato preparatorio alla creazione è una “disposizione d’animo
musicale” cui segue l’idea poetica. Il lirico antico era poeta e musicista. In
confronto la lirica moderna è il simulacro di un dio senza testa.
Il lirico dunque diviene una cosa sola con l’uno originario
prima di creare musica come primo riflesso del dolore originario e parole come
secondo riverbero. L’artista allora elimina la sua soggettività nel processo
dionisiaco e si unisce al cuore del mondo. L’io del lirico dunque risuona
dall’abisso dell’essere. Quando Archiloco manifesta il suo amore alle figlie di
Licambe, non è la sua passione a danzarci davanti in orgiastica ebbrezza:
vediamo Dioniso e le Menadi, vediamo l’invasato Archiloco sprofondato nel
sonno, il sonno come è descritto da Euripide nelle Baccanti-il sonno sugli alti
pascoli alpestri, nel sole di mezzogiorno-
Messo
. Poco tempo fa spingevo al pascolo verso l’alta vetta
del monte le mandrie dei bovini, quando il sole
manda i raggi di luce a scaldare la terra.
Allora vedo tre gruppi di schiere femminili,
di una delle quali era a capo Autonoe, della seconda
la madre tua Agave, della terza schiera Ino.
Dormivano tutte, rilassate nei corpi,
alcune appoggiate di schiena alla fronda di abete,
altre invece posato il capo casualmente in terra
sulle foglie di quercia con compostezza e non andavano, come
tu dici,
a caccia di Venere appartate sotto la selva
ebbre di vino del cratere e del frastuono del flauto (vv
677-.689).
Ed ecco che Apollo gli si accosta e lo tocca con l’alloro.
L’incantesimo del dormiente ora sprizza intorno a sé faville di immagini,
poesie liriche, incunaboli di tragedie. L’epico e lo scultore plasmano
immagini, mentre il musicista esprime il dolore dell’uno originario con il
quale si è identificato. Le sue immagini sono solo diverse oggettivazioni di
lui stesso. In questo senso dice “io” Quell’io è l’unico io eterno, riposante
sul fondo delle cose. L’io di Archiloco è il genio del mondo che esprime
simbolicamente in quell’immagine dell’uomo Archiloco il proprio dolore
primigenio. Nietzsche cita un brano del Mondo
come volontà e rappresentazione in cui Sch che considera la lirica una
forma d’arte mista dove il volere e la pura intuizione dell’ambiente, il puro
conoscere si mescolano.
Nietzsche obbietta che il volere, lo stato non estetico, non
può fondersi e confondersi con il puro contemplare dell’arte. Il soggetto che
vuole i suoi scopi egoistici è nemico dell’arte. L’artista è un uomo che si è
liberato dalla sua volontà individuale ed è divenuto medium attraverso il quale l’unico soggetto che veramente è celebra
la sua liberazione nell’illusione che giustifica l’esistenza come fenomeno
estetico. Il genio si fonde con l’artista originario del mondo ed è
contemporaneamente soggetto e oggetto, poeta attore e spettatore
Sch. sostiene che la musica è l’immagine della volontà
stessa, non l’immagine delle idee come le altre arti. Perciò l’effetto della
musica è tanto più potente e insinuante (III, 52, p. 346)
Capitolo VI (pp. 45-50)
Archiloco dunque ha introdotto il canto popolare che è il perpetuum vestigium dell’unione
dell’apollineo con il dionisiaco. Per prima cosa il canto popolare è uno
specchio musicale del mondo. La melodia è dunque l’elemento primario che genera
la poesia sprizzando immagini che non hanno il tranquillo fluire di quelle
epiche. Nella poesia del canto popolare il linguaggio è teso al massimo per
imitare la musica. Il ritardare è epico, il precipitare è lirico. La parola
subisce la violenza della musica. Tra Omero e Pindaro cambia del tutto il
materiale lessicale: tra loro due “debbono essere risuonate le melodie
orgiastiche del flauto di Olimpo”
Pindaro secondo Leopardi:
“Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare
il vero poeta lirico, vale a dire l’uomo infiammato del più pazzo fuoco, l’uomo
la cui anima è in totale disordine, l’uomo posto in uno stato di vigor
febbrile, e straordinario (principalmente, anzi quasi indispensabilm. corporale),
e quasi di ubbriachezza? Pindaro ne può essere un esempio: ed anche alcuni
lirici tedeschi ed inglesi abbandonati veram. che di rado avviene, all’impeto
di una viva fantasia e sentimento” (Zibaldone,
1856).
La musica appare come volontà nello specchio delle immagini
e dei concetti, volontà nell’accezione di Sch. cioè in antitesi alla
disposizione estetica e puramente contemplativa. La musica dunque non è volontà
che “è ciò che in sé non è estetico, ma appare come volontà. Il lirico
interpreta la musica con immagini apollinee
e quindi vede un mondo turbinoso attraverso il medium della musica ma
egli riposa nella tranquilla bonaccia della contemplazione apollinea. Egli
interpreta la musica attraverso l’immagine turbinosa della volontà, ma staccato
dalla brama della volontà è un puro e imperturbato occhio solare (p. 49). La
musica non ha bisogno dell’immagine e del concetto ma solo li tollera accanto a
sé. Il linguaggio non può realizzare esaurientemente il simbolismo cosmico
della musica che simboleggia una sfera al di sopra di ogni apparenza: la
contraddizione e il dolore originari nel cuore dell’uno primordiale. Il
linguaggio è organo e simbolo delle apparenze e non può tradurre all’esterno la
più profonda interiorità della musica.
continua
[1] infinito atematico con desinenza -men
(considerato un eolismo come vedremo) del verbo qhteuvw
che significa "lavoro come
salariato, qhv""; ebbene,
commenta M. Finley, "Un thes ,
non uno schiavo, era l'ultima creatura sulla terra che Achille potesse pensare.
Il terribile per un thes era il fatto di non avere legami, di non
appartenere a nulla" (Il mondo di
Odisseo , p. 39).
[2]F.
Codino, Introduzione a Omero , p.
128.
[3]
Franco Montanari, Prima lezione di letteratura greca, Laterza, 2003, p.p. 17-18,
[4]
Zibaldone, 4399.
[5]
F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p.
178.
[6]
471-456 a . C.
[7] Cfr. il frammento frammento di Mimnermo: il 2 D.
" Noi, Come le
foglie (hjmei'~ dj
oi|av te fuvlla) che genera la fiorita
stagione
di primavera, quando crescono
in fretta ai raggi del sole simili a quelle, per il tempo di un cubito, godiamo
dei fiori
di giovinezza, senza
conoscere dagli dèi né il male
né il bene. Destini neri ci
stanno accanto
uno che ha il termine della
vecchiaia tremenda,
l'altro di morte: un attimo
dura il frutto
di giovinezza, per quanto
sulla terra si diffonde un raggio di sole.
Ma quando questo termine di
tempo sia trapassato,
subito essere morto è meglio
della vita:
infatti molti mali
sopraggiungono nell'animo: talora la casa va in rovina e ci sono le vicende
dolorose della povertà:
a un altro poi mancano figli, di cui
soprattutto
sentendo il desiderio va
sotto terra nell'Ade;
un altro ha una malattia che
gli consuma il cuore: non c'è nessuno
degli uomini, cui Zeus non
dia molti mali". Distici elegiaci
In questi distici troviamo innanzitutto il
motivo della brevità della vita umana già presente, in termini non dissimili,
nell'Iliade (VI, vv. 145-149) dove Glauco chiede a
Diomede:
"Tidide magnanimo,
perché mi domandi la stirpe?
quale è la stirpe delle
foglie, tale è anche quella degli uomini.
(oi{h per fuvllwn genehv, toivh de; kai; ajndrw'n, v. 146)
Le foglie alcune ne sparge il
vento a terra, altre la selva
fiorente genera quando arriva
il tempo di primavera;
così le stirpi degli uomini:
una nasce, un'altra finisce".
Un'eco di questo topos
possiamo trovarla in Salvatore Quasimodo:
"Ognuno sta solo sul
cuor della terra
trafitto da un raggio di
sole:
ed è subito sera"(da Acque e terre , 1930).
[8]
1518 ca. nde.
[9]
La nascita della tragedia, p.36.
[10]
180-160 a .
C.
[11]
H. Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, p. 293.
[12]
J. Hillman, L'anima del mondo e il pensiero del cuore , p. 144.
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