25 ottobre 2015
Sommario della conferenza Essere cittadino del 25 ottobre. Mediateca di San
Lazzaro.
Giovanni Ghiselli membro del direttivo del Centrum Latinitatis Europae
Essere cittadino (polivth~)
significa avere una cultura politica, vuole dire essere educato alla vita
democratica della polis.
La tirannide è associata alla prepotenza e all’ignoranza del bene comune.
Il dibattito costituzionale nelle Storie di Erodoto.
Il tiranno non deve rendere conto ai suoi sudditi dei propri atti spesso
criminosi.
Il tuvranno~ nella storiografia
greca, in quella latina, nella tragedia greca e in Platone.
Critiche alla dhmokrativa. Anche il
popolo può gestire il potere con prepotenza, ossia non sottostando alle leggi
(Senofonte, Polibio, Platone, Aristotele).
I discorsi di Pericle nelle
Storie di Tucidide. La politeiva
ateniese e la nostra costituzione: analogie e differenze.
Paideia si può identificare, in un certo senso, con formazione politica :
“ Uso questo termine non nel suo senso contemporaneo di istruzione scolastica
formale ma nel senso antiquato, nell’antico senso greco: per paideia i
greci intendevano l’educazione, la “formazione” (la Bildung tedesca), lo
sviluppo delle virtù morali, il senso della responsabilità civica, della
cosciente identificazione con la comunità, i suoi valori e le sue tradizioni”[1].
Già l’Odisseo dell’Iliade possiede l’arte politica[2]
che “consiste essenzialmente nel maneggiare il linguaggio”[3].
Erodoto
Il discorso tripolitico del dibattito costituzionale ( Storie, III,
80 ss.) forse deriva dalle Antilogie di Protagora che parte da premesse
relativistiche ma non fu anarchico: venne chiamato a preparare le leggi per la
città di Turi.
Nelle Antilogie si trovano i dissoi;
lovgoi con la loro logica aperta al contrasto
Questi di Erodoto sono trissoiv.
Erodoto scrive che dopo la magofoniva,
la strage che aveva soppresso i Magi, a partire dal Mago Medo senza orecchi[4]
il falso Smerdi, il quale si spacciava per Smerdi figlio di Ciro, i Sette[5]
nobili persiani che si erano ribellati all’ usurpazione, tennero un consiglio
dove vennero pronunciati alcuni discorsi incredibili per alcuni Greci:
lovgoi a[pistoi me;n ejnivoisi JEllhvnwn
(III, 80, 1).
Tuttavia questi discorsi furono pronunciati.
“In un passo delle sue
Storie, Erodoto sostiene molto chiaramente che prima di Clistene la
democrazia politica era stata “inventata” in Persia da uno dei dignitari
persiani implicati nella congiura che aveva abbattuto l’usurpatore, il falso
Smerdis. Erodoto si lamenta del fatto che i Greci, durante le sue letture
pubbliche, non avevano accettato questa informazione molto netta e dettagliata
(III, 80). Un grande storico della Grecia e della Persia, David Asheri,
ha scritto bene in proposito che in questo passo Erodoto ha di mira, in maniera
velata, il pregiudizio tipicamente ateniese (più in generale greco) che la
democrazia sarebbe un’ “invenzione” greca[6]”[7].
Più avanti
(VI, 43, 3) Erodoto scrive che ci sono dei Greci i quali non credono che Otane
abbia consigliato il regime democratico per i Persiani. Ebbene costoro saranno
sorpresi nel sentire che Mardonio quando, nel 492, giunse nella Ionia, ne depose
i tiranni e istituì nelle città governi democratici.
Nel
VI libro lo storiografo racconta che nella primavera del 492 Mardonio, genero di
Dario depose tutti i tiranni degli Ioni e istituì governi democratici. Erodoto
chiarisce che lo dice per quanti non accettano che Otane abbia esposto agli
altri sei nobili il parere che i Persiani dovessero avere una costituzione
democratica (wJς
creon ei[h dhmokratevesqai Pevrsaς, VI, 43, 3).
Secondo Diodoro (Biblioteca storica, X, 25) questo provvedimento di
Mardonio sarebbe stato suggerito da Ecateo come mezzo di pacificazione.
Comunque questi lovgoi secondo
Erodoto vennero effettivamente pronunciati da Otane, Megabizo e Dario, i tre
nobili persiani che avevano la possibilità di succedere a Cambise .
Parlò per primo Otane il quale propose di affidare il potere al popolo dicendo
che non era cosa piacevole né buona (ou[te
ga;r hJdu; ou[te ajgaqovn, 80, 2) che uno di loro diventasse re.
“Voi sapete a che punto è arrivata l’ u{briς
di Cambise e avete provato anche quella del Mago”. Cambise, racconta Erodoto era
un pazzo che fece uccidere suo fratello Smerdi da Pressaspe cui aveva ammazzato
il figlio.
Non solo: "
pantach'/ w\n moi dh'lav ejsti o{ti
ejmavnh megavlw" oJ Kambuvsh""(
III 38) da ogni punto di vista dunque per me è evidente che molto matto era
Cambise; altrimenti non si sarebbe messo a schernire religioni e costumi. Questo
despota “lunatico” arrivava perfino a bruciare le immagini dei santuari (III,
37, 3).
Politica, si diceva, è associata a educazione
Secondo Platone, Cambise e Smerdi
ricevettero una trofh;n gunaikeivan,
una cura di donne da parte di femmine appena arrivate al potere, e di eunuchi, e
crebbero in un tipo di allevamento licenzioso
trofh̃/
ajnepivplhktw/ (ejpiplhvssw,
colpisco, punisco).
Sicché ereditarono il regno
trufh̃ς
mestoi; kai; ajnepiplhxivaς,
gonfi di lussuria e di sregolatezza ( Leggi, 695b)
Il tiranno non deve rendere conto ai suoi sudditi
Al
monarca-continua Otane- è lecito (e[xesti)
fare quello che vuole senza renderne conto (ajneuquvnw/[8]
poievein ta; bouvletai III, 80, 3)
Aristofane nelle Vespe fa dire a Filocleone che i giudici parziali
dell’Eliea non dovevano rendere conto del male che facevano.
(ajnupeuvqunoi
drw̃men, 587).
Anzi, davanti a lui se la fanno sotto i ricchi e i potenti (
ejgkecovdasiv m j oiJ ploutoũnteς
(627).
Nei
Persiani di Eschilo, Serse conduce uomini privi di libertà ai quali non
deve rendere conto dei propri atti, nemmeno degli insuccessi.
Il grande re pur se sconfitto, non è tenuto a rendere conto alla città "
oujc
uJpeuvquno" povlei" (Persiani,
v. 213), come lo è uno stratego eletto dal popolo.
Eschilo contrappone al potere assoluto il sistema democratico di Atene quando
la regina madre Atossa domanda ai vecchi dignitari chi sia il pastore e il
padrone dell'esercito greco. Allora il corifeo risponde:"ou[tino"
dou'loi kevklhntai fwto;" oujd j uJphvkooi" (v. 242), di nessun uomo
sono chiamati servi né sudditi.
Essere cittadino, polivthς, dunque,
e avere un ruolo direttivo, significa renderne conto alla
povliς.
Ma torniamo a quanto dice Otane nelle Storie di Erodoto contro il
potere incontrollato del mouvnarcoς
che di fatto è un despota.
Al monarca viene l’u{briς
dai beni presenti, mentre l’invidia gli è connaturata dall’origine:
fqovnoς
de; ajrch̃qen ejmfuvetai ajnqrwvpw
III, 80, 3)/.
Ha ogni malvagità (e[cei pãsan kakovthta, 80, 4) che compie per arroganza e invidia
Cfr. la storia di Trasibulo di Mileto, Periandro di Corinto e Policrate di Samo.
Periandro, dopo la lezione di Trasibulo: “pãsan kakovthta ejxevfane eς tou;ς polivtaς (V; 92, h).
Cfr. anche Tarquinio il Superbo in Tito Livio.
La prima caratteristica del despota è l'insofferenza dell'opposizione.
La mania della distruzione
delle teste pensanti fa parte dalla mente autocratica: sappiamo da Erodoto che
la scuola dei tiranni insegna a uccidere gli oppositori in generale, e prima di
tutti chiunque dia segni di intelligenza e indipendenza. Periandro di Corinto,
quando era ancora tiranno apprendista e la sua malvagità non si era
scatenata, accolse il suggerimento di Trasibulo di Mileto il quale:"oiJ
uJpetivqeto(...)tou;" uJperovcou" tw'n ajstw'n foneuvein",
gli consigliava di mettere a morte i cittadini che si distinguevano (Erodoto, Storie
, V, 92 h).
Il despota esperto aveva
dato il consiglio criminale in maniera simbolica: mostrandosi a un araldo,
mandato da Corinto a domandargli come si potesse governare la città nella
maniera più sicura e bella, mentre recideva le spighe più alte di un campo di
grano. Periandro comprese e allora rivelò tutta la sua malvagità ("
ejnqau'ta dh; pa'san kakovthta ejxevfaine").
Diogene Laerzio I, 7) riferisce da Aristippo (Della lussuria degli antichi
in realtà di ignoto autore del III a. C.) che Periandro si unì con la madre
Crateia innamorata di lui.
Periandro ha in comune con Edipo anche la zoppia razziale (cfr. Labda nonna di
Periandro e Labdaco, nonno di Edipo).
La tirannide è una sovranità claudicante.
Su questa linea si trova
anche Platone il quale chiama in causa Omero che ha rappresentato Tantalo,
Sisifo e Tizio "ejn jAidou to;n
ajei; crovnon timwroumevnou""(
Gorgia, 525e),
puniti nell'Ade per sempre: questi erano appunto re e dinasti; mentre Tersite, e
chiunque altro sia stato malvagio da privato cittadino ("ijdiwvth"")
non ha avuto occasione di fare tanto male, e per questo si può considerare più
fortunato dei potenti dai quali provengono "oiJ
sfovdra ponhroiv" ( 526a) quelli malvagi assai. Da i potenti provengono
quelli che hanno commesso i crimini più atroci e perciò sono
ajnivatoi (525c), incurabili. Da
questi si traggono esempi (ejk touvtwn ta;
paradeivgmata gignetai). Il giudice infernale Radamanto, quando gli si
presenta il Gran Re o altri sovrani ne vede l’anima piena di piaghe (oujlw'n
mesthvn) causate dalla falsità e dall’ingiustizia (uJpo;
ejpiorkiw'n kai; ajdikiva", 525a). L’anima è marchiata perché è cresciuta
lontano dalla verità. Radamanto la vede piena di disordine e di bruttura
(ajsummetriva" te kai; aijscrovthto"
gevmousan th;n yuch;n ei\den (525a).
Dai capitoli erodotei (III,
80-82) ricordati sopra derivano alcuni modelli costituzionali della filosofia (
Platone, Aristotele ) e della storiografia (Polibio) successive. E non solo la
storiografia greca.
Tito Livio
attribuisce lo stesso gesto di Trasibulo, con le stesse intenzioni, al
re Tarquinio il quale indicò al figlio Sesto cosa fare degli abitanti di
Gabi con un'analoga risposta senza parole:" rex velut deliberabundus in
hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa
papaverum capita dicitur baculo decussisse "(I, 54), il re quasi meditabondo
passò nel giardino della reggia seguito dall'inviato del figlio; lì passeggiando
in silenzio, si dice che troncasse con un bastone le teste dei papaveri[9].
Il falso sciocco in Livio
Bruto, per salvarsi, aveva stabilito di non lasciare al re nulla da
temere dall'animo suo, nulla da desiderare nella sua fortuna, e di trovare
sicurezza nell'essere disprezzato:"Ergo ex industria factus ad imitationem
stultitiae, cum se suaque praedae esse regi sineret, Bruti quoque haud abnuit
cognomen " (I, 56, 8) pertanto fingendosi stolto apposta, lasciando se
stesso e i suoi beni al re, non rifiutò neppure il soprannome di Bruto.
“Perché non vi è nulla di più pericoloso di un uomo che rifiuta di sottomettersi
alla tirannia”[10].
Ma quella che sembrava pazzia agli stupidi era invece genio. Quando l'oracolo
delfico infatti preconizzò che avrebbe avuto il sommo potere a Roma quello che
per primo avesse baciato la madre, Bruto, avendo capito, "velut si prolapsus
cecidisset, terram osculo contigit, scilicet quod ea communis mater omnium
mortalium esset " I, 56, 12, come se fosse caduto per una scivolata, diede
un bacio alla terra, evidentemente poiché quella era la madre comune di tutti i
mortali. Cfr. l’Amleto di Shakespeare.
Il
despota non dovrebbe essere invidioso poiché ha tutti i beni.
Invece invidia i cittadini migliori, si compiace dei peggiori (caivrei de; toĩsi kakivstoisi tw̃n astw̃n) ed è ottimo ad accogliere le calunnie ( diabola;ς de; a[ristoς ejndevkesqai, Erodoto, III, 80, 4).
Il tiranno nella storia romana e nella tragedia greca
Cfr. Tiberio e Domiziano in Tacito.
Quanto allo fqovno", Tacito
attribuisce più di una volta l'invidia ai suoi Cesari: Tiberio
(14-37) temeva dai migliori un pericolo per sè, dai peggiori disonore per lo
stato (ex optimis periculum sibi, a pessimis dedĕcus publicum metuebat ,
Annales , I, 80).
Ma
il vizio capitale di Tiberio eral’ipocrisia: si serviva di formule antiche per
nascondere scelleratezze recenti : “Proprium id Tiberio fuit scelera nuper
reperta priscis verbis obtegere” (4, 19).
Domiziano (81-96) invidiava e odiava Agricola per i suoi successi in
Britannia:"Id sibi maxime formidolosum, privati hominis nomen supra
principem attolli " ( Agricola[11],
39), gli faceva paura soprattutto il fatto che il nome di un suddito fosse messo
al di sopra di quello del principe.
La letteratura greca è percorsa dal motivo antitirannico: da Alceo
che esulta per la morte di Mirsilo (fr. 332 LP), o copre di insulti
Pittaco "to;n kakopatrivdan"(
fr. 348 L P) dal padre ignobile,
a Platone che certamente non risparmia biasimi al
turanniko;" ajnh;r. Costui, nella
Repubblica (573c) è uomo, per natura, o per le abitudini, "mequstikov"..
ejrwtikov", melagcolikov"", incline al bere, al sesso, alla
depressione; inoltre è di animo sostanzialmente servile"oJ
tw'/ o[nti tuvranno" tw/' o[nti dou'lo""(579e).
Questa considerazione che sembra paradossale, magari dettata a Platone da un
risentimento personale nei confronti dei despoti incontrati, è confermata da uno
psicoanalista moderno: E. Fromm in Fuga dalla libertà
sostiene che" l'impotenza dà luogo all'impulso sadico a dominare; nella
misura in cui l'individuo è capace, cioè in grado di realizzare le sue
possibilità sulla base della libertà e dell'integrità del suo io, non ha bisogno
di dominare e non prova alcuna brama di potere" (p. 144).
La paura del tiranno. Metus tyranni: Genitivo soggettivo e oggettivo
Il tiranno fa paura, come affermano la nutrice della Medea di Euripide (119
sgg.), e Antigone di Sofocle, a proposito della sottomissione dei Tebani a
Creonte (vv. 502-507).
Il despota vive circondato dal fovbo"
: fa paura e ne ha.
Un doppio ruolo sintetizzato bene da Creonte nell'Oedipus di
Seneca:" Qui sceptra duro saevus imperio regit,/timet timentes;
metus in auctorem redit " (vv. 703-704), chi tiene crudelmente lo
scettro con dura tirannide, teme quelli che lo temono; la paura ricade su chi la
incute chi lo dice.
In forma meno sintetica Cicerone fa la stessa denuncia nel De officiis:
“Qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse est”
( II, 24), quelli che vorranno essere temuti, è inevitabile che essi stessi
temano quelli dai quali saranno temuti. Cicerone fa gli esempi di due tiranni
del IV secolo Dionigi il vecchio di Siracusa e di Alessandro di Fere
il quale sospettava perfino della moglie, non a torto del resto poiché questa
era un’altra furente che infine lo uccise “propter pelicatus suspicionem
(II, 25), per sospetto di adulterio. La conclusione di Cicerone è. “Nec vero
ulla vis imperii tanta est, quae premente metu possit esse diuturna”, non
c’è nessuna forza di potere tanto grande che possa essere durare a lungo sotto
la pressione della paura.
Nell'Edipo re di Sofocle il tiranno di Tebe teme complotti e
chiama Creonte "lh/sthv" t j ejnargh;" th'"
ejmh'" turannivdo"" (v.
535), ladro evidente della mia tirannide. Il cognato più avanti ribatte
che preferisce riposare tranquillo piuttosto che comandare con paura
("a[rcein...xu;n fovboisi",
v. 585).
Perfino Eteocle delle Fenicie , il teorico del valore
assoluto del potere, rivolge una preghiera a
eujlavbeia, cautela, invocata come
crhsimwtavth qew'n, (v. 782), la più
utile delle dee.
"La paura e la diffidenza appaiono dunque connaturate al tiranno"[12].
Il tiranno ha paura che gli tolgano il bene più grande che per lui è il potere
Per Eteocle la divinità più grande è la tirannide (v. 506) e per lei può
essere bellissimo anche commettere ingiustizia:"
ei[per ga;r ajdikei'n crhv, turannivdo"
pevri-kavlliston ajdikei'n, ta[lla d j eujsebei'n crewvn", (Fenicie
vv. 524-525), se davvero è necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo
per il potere assoluto, altrimenti bisogna essere pio. Cicerone considera questo
Eteocle o addirittura Euripide meritevole di pena di morte (Capitalis
Eteocles vel potius Euripides ) che fece eccezione proprio per quell'unico
caso che era il più scellerato di tutti. Questi versi delle Fenicie li
aveva sempre in bocca l'ambizioso Cesare:"Nam si violandum est ius, regnandi
gratia/violandum est; aliis rebus pietatem colas ", (De Officiis ,
III, 82).
La paura che il tiranno ha, è stata messa in evidenza anche dal cesariano
Sallustio:"Nam regibus boni quam mali suspectiores sunt, semperque iis
aliena virtus formidulosa est "[13],
infatti ai re sono più sospetti i valenti che gli inetti, e la virtù degli altri
per loro è sempre motivo di paura.
Si ricordi ancora il formidolosum dell'Agricola (39) di Tacito.
La sua paura accompagna il suo potere: governare in mezzo alle paure, questa è
la condizione del tiranno (Sofocle, Edipo re, v. 585[14]).
L’ argomento del timore del
principe viene ripreso da Machiavelli
che gli antepone e
preferisce quello di Dio.
L'XI capitolo del I libro dei
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1517) verte sulla religione
dei Romani
Questa fu introdotta
beneficamente da Numa, il secondo dei re.
Quindi il segretario fiorentino
nomina Licurgo e Solone tra i legislatori che "ricorrono a Dio".
Infine tira le somme:"Considerato
adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime
cagioni della felicità di quella città, perché quella causò buoni ordini, i
buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici
successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino è cagione della
grandezza delle repubbliche, così il dispregio di quello è cagione della rovina
di esse. Perché dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini
o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' defetti
della religione".
Nel Principe (XVII),
Machiavelli menziona la “disputa: s’elli è meglio essere amato che temuto”
Ebbene: “rispondesi, che si
vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché elli è difficile accozzarli insieme,
è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare
dell’uno de’ dua”
E, poco più avanti: “Debbe, non di
manco, el principe, farsi temere in modo, che, se non acquista lo amore, che
fugga l’odio; il che farà sempre, quando si astenga dalla roba de’ sua cittadini
e de’ sua sudditi e dalle donne loro…ma, sopra a tutto, astenersi dalla roba
d’altri; perché li uomini dimenticano più presto la morte del padre che la
perdita del patrimonio”.
Fine tiranno
Ma torniamo a Otane di Erodoto (III, 80, 6)
I misfatti più gravi del tiranno sono questi: "novmaiav
te kinevei pavtria kai; bia'tai gunai'ka" kteivnei te ajkrivtou"" (III,
80, 5) sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza
giudizio. "Così il persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo
comune fra i Greci per l'opposizione alla tirannide"[15].
Nelle tragedie, il tiranno è il paradigma mitico- o storico- di questo
principio ( Serse nei Persiani di Eschilo, Creonte nell’Antigone
di Sofocle e nelle Supplici di Euripide.
Invece il governo del popolo, sostiene Otane, ha il nome più bello,
l’uguaglianza davanti alla legge: “plh̃qoς
de; a[rcon prw̃ta me;n ou[noma
pavntwn kavlliston e[cei, ijsonomivhn (6), poi esercita a sorte le
magistrature (pavlw/ me;n ajrca;ς
a[rcei ) e ha un potere soggetto a controllo (uJpeuvqunon
de; ajrch;n e[cei) e presenta tutte le deliberazioni del consiglio
all’assemblea pubblica (bouleuvmata de;
pavnta ejς to; koino;n ajnafevrei).
I bouvleumata infatti non sono
khruvgmata, ordinanze, editti come
quello di Creonte nell’Antigone di Sofocle.
Otane dunque propone la democrazia, perché nella massa deve stare ogni potere.
Megabizo invece parlò in favore dell’oligarchia (I, 81). Accetta
la critica alla tirannide ma non l’elogio del popolo. Infatti dice non c’è
niente di più stupido (oujdevn ejsti
ajxunetwvteron, cfr. sunivhmi),
né più prepotente ( uJbristovteron)
di una moltitudine buona a nulla (oJmivlou
ajcrhivou).
Il monarca è caratterizzato dall’ybris, il
dh̃moς
è sfrenato (ajkovlastoς)
La moltitudine non ha imparato niente da altri e non conosce da sé nulla di
buono, e sconvolge lo Stato scagliandosi
a[neu novou simile a un fiume invernale (ceimavrrw/
potamw̃/ i[keloς, 81, 2).
D'Annunzio in Il piacere
denuncia "il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare
sommerge miseramente"; un nubifragio sotto il quale "va anche a poco a poco
scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta
viva di generazione in generazione una certa tradizione familiare d'eletta
cultura, d'eleganza e di arte" (p. 38).
Nelle Supplici di Euripide, l’araldo tebano di Creonte parla
contro la democrazia: “il popolo che
non sa tenere in piedi i propri discorsi, come potrebbe tenere dritta la
città? (417-418).
Una curiosità: Ciano nel suo Diario ha scritto che Mussolini diceva: “il
popolo non sa mai quello che vuole, tranne guadagnare molto e lavorare poco” (22
maggio 1938)
Poi: “Solo un paese vile, brutto, insignificante può essere democratico. Un
popolo forte ed eroico tende all’aristocrazia” (24 giugno 1938)
Dunque, aggiunge Megabizo, il potere va affidato a un gruppo ristretto di
uomini migliori (ajndrw̃n
tw̃n ajrivstwn)
Torniamo a Erodoto. Per ultimo parlò Dario. Approva Megabizo sulla
democrazia, lo confuta sull’oligarchia.
Secondo lui il sistema migliore è la monarchia anche se
tw̃/
lovgw/, a parole, sono ottime tutte e tre.
Non c’è niente di meglio di un uomo ottimo il quale con il suo senno (gnwvmh/,
III, 82, 2) guida tutto il popolo in modo irreprensibile
ajmwvmhtoς. Nell’oligarchia invece
gli oligarchi giungono a grandi inimicizie, da cui nascono stragi, quindi si
passa alla monarchia che così si rivela il regime migliore. Quando invece
comanda il dh̃moς
(dhvmou te au\ a[rcontoς, III, 82,
4) è impossibile che non sopravvenga la malvagità (ajduvnata
mh; ouj kakovthta ejggivnesqai) e i malvagi instaurano tra loro
filivai ijscuraiv, salde amicizie,
poiché danneggiano gli interessi comuni cospirando tra loro.
Questo accade finché li fa cessare uno che viene proclamato monarca. E ancora
una volta si vede wJς
hJ mounarcivh kravtiston.
Del resto per farla breve: a noi la libertà chi l’ha data? Non il popolo né
l’oligarchia ma un monarca, ossia Ciro. Manteniamo dunque la monarchia
III, 83.
Vennero dati dunque questi 3 pareri e gli altri quattro dei sette aderirono
all’ultimo.
Otane che voleva dare ai Persiani l’isonomia, sconfitto, non volle
entrare in lizza per diventare re, e disse: “ejgw;
me;n nun uJmĩn oujk enagwnieũmai:
ou[te ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw” (III, 83, 2).
In Erodoto c’è, come in Eschilo, una logica aperta al contrasto: lo
storiografo conferisce nobiltà a Otane e pure allo spartano Demarato che
era al servizio di Serse e disse al re che ai Greci è sempre stata compagna
assidua penivh, la povertà,
mentre la virtù (ajrethv) è
un acquisto successivo, operato attraverso la saggezza (ajpo;
te sofivhς) e leggi severe (kai;
novmou ijscuroũ)
Avvalendosi di queste, la Grecia si difende dalla povertà e dalla tirannide
(VII, 102, 1).
Quanto agli Spartani in particolare, essi sono liberi, ma non del tutto (ouj
pavnta ejleuvqeroiv eijsi, VII, 104, 4) perché su di loro comanda la
legge (e[pesti ga;r sfi despovthς
novmoς).
Mazzarino riconosce alla cultura
dei Greci una maggiore disponibilità a considerare e accettare punti di vista
diversi tra loro
Così in Erodoto: c'è la "tirannide" dei Greci nemica di Dike; ma c'è anche la
"tirannide" di Deioce[16]
per cui i Medi hanno kòsmos :"La nostra logica è rettilinea, astratta:
quella dei Greci è sempre aperta al contrasto. Nell'Oresteia di Eschilo
Divka Divkai (xymbaleî )
"Dika si scontrerà con Dika"[17]:
ci possono essere due Dikai, due Giustizie nel caso dell'Oresteia ,
quella "matriarcale" di Clitennestra ( e delle Erinni, a cui il ghénos di
Eschilo non può sacrificare) contro quella "patrilinea" di Oreste , la
democrazia dei Greci e la "tirannide" di Ciro, dalla quale i Persiani ricevono
"libertà", eleutherìa "[18].
Per quanto riguarda la prepotenza del popolo, cfr. Senofonte (Elleniche
II) e Polibio (Storie VI). Il popolo che non sottostà alle leggi e rivendica il
diritto di fare ciò che vuole.
La battaglia delle Arginuse e il
processo agli strateghi ( tarda estate del 406 a. C.).
Teramene.
Nel 406 gli Ateniesi con grande
sforzo misero insieme centocinquanta navi per la loro ultima vittoria. La
battaglia avvenne presso le tre isolette Arginuse situate tra Mitilene di Lesbo
e la costa asiatica. Callicratida fu sconfitto e, caduto in mare scomparve ("ajpopesw;n
eij" th;n qavlattan hjfanivsqh",
Elleniche , I, 6, 33) ma anche ai comandanti vincitori toccò una sorte
non buona: il vento e una tempesta impedirono che si portasse soccorso alle
navi danneggiate. Fatto che indusse gli Ateniesi a destituire gli strateghi
tranne Conone. Invece elessero Adimanto e Filocle. Quindi sei strateghi,
tra cui Pericle il Giovane, figlio di Pericle e di Aspasia, e Trasillo, furono
arrestati e accusati, soprattutto da Teramene, poiché era giusto che rendessero
conto del motivo per cui non avevano raccolto i naufraghi:"dikaivou"
ei\nai lovgon uJposcei'n diovti oujk ajneivlonto tou;" nauagouv""
( I, 7, 4).
A proposito della condanna a morte
del figlio di Pericle si può notare che il padre non poté, o non volle,
trasmettere il proprio potere al figlio: “Uomini come Pericle costituirono
certamente un’élite politica, ma non era un’élite capace di perpetuare se
stessa; ad essa si accedeva per meriti pubblici, specialmente in seno
all’Assemblea; era aperta a tutti, e per continuare a farne parte era necessaria
un’attiva presenza continua”[19].
“ A ruling group is a ruling
group so long as it can nominate its successors”, una classe dirigente
continua ad essere tale soltanto fino a quando è in grado di nominare i propri
successori”[20].
Secondo Orwell non importa che
questi siano i figli: “Il Partito non si preoccupa di perpetuare una linea di
discendenza sanguigna, ma di perpetuare se stesso”.
Teramene continua ad essere il
personaggio peggio che ambiguo e camaleontico che abbiamo conosciuto attraverso
Tucidide: infatti proprio a lui, e a Trasibulo, che erano trierarchi, ossia
comandanti di triremi, gli strateghi avevano ordinato di soccorrere le navi
danneggiate (I, 6, 35). Gli strateghi nella loro difesa, breve poiché non fu
concesso loro il tempo di parlare stabilito dalla legge "kata;
to; novmon"(I, 7, 5),
ricordarono di avere appunto ordinato a Teramene e Trasibulo di soccorrere i
naufraghi, ma non volevano incolparli solo perché venivano accusati da loro,
anzi ribadivano che era stata la violenza della tempesta a impedire il
recupero:"ajlla; to; mevgeqo" tou'
ceimw'no" ei\nai to; kwlu'san thvn ajnaivresin"(I,
7, 6).
“Gli strateghi volevano in
definitiva salvare tutti, diluendo le responsabilità fra se stessi e i
trierarchi a loro subordinati; ma è proprio Teramene che, ad evitare anche ogni
possibile sviluppo negativo, parte all’attacco, calcando la mano sulla
responsabilità degli strateghi, i quali finiscono necessariamente schiacciati
tra il furore del popolo e le accuse del subordinato”[21].
Già gli accusati stavano
convincendo l'assemblea, quando il dibattito venne aggiornato dopo tre giorni di
festa, e per la volta seguente i seguaci di Teramene prepararono uomini vestiti
di nero e rasati ("pareskeuvsan
ajnqrwvpou" mevlana iJmavtia e[conta" kai ejn crw' kekarmevnou"[22]",
I, 7, 8) perché si presentassero in assemblea come se fossero parenti dei morti.
Quindi convinsero il consigliere Callisseno a formulare una proposta di condanna
a morte. Si presentò perfino un tale a dire che si era salvato sopra un barile
di farina (favskwn ejpi; teuvcou"
ajlfivtwn swqh'nai, I, 7,
11) e che i naufraghi morendo lo avevano incaricato di accusare gli strateghi di
mancato soccorso. Ci fu un tentativo di difesa, ma nella massa oramai era stato
inoculato l'odio e il desiderio del capro espiatorio ed essa gridava che è
grave se qualcuno non permetterà al popolo di fare quanto vuole ("to;
de; plh'qo" ejbova deino;n ei\nai, eij mhv ti" ejavsei to;n dh'mon pravttein
o} a]n bouvlhtai", I, 7,
12)."E' la
rivendicazione che riecheggia minacciosamente in assemblea ad Atene durante il
processo popolare contro i generali delle Arginuse", è, come vedremo, "la
formula che caratterizza, secondo Polibio, la degenerazione della
democrazia (VI, 4, 4:" quando il popolo è padrone di fare quello che vuole")”.[23]
Da notare che la parola
plh`qo~
, dalla radice pla-/plh
(q), è imparentata con i
vocaboli latini plebs, plenus, impleo
(riempio).
Sentiamo quindi Polibio: “paraplhsivw~
oujde; dhmokrativan, ejn h|/ pa'n plh'qo~ kuvriovn ejsti poiei'n o[ ti pot j a]n
aujto; boulhqh'/ kai; proqh'tai”
(6, 4 , 4),
similmente non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò
che voglia e preferisca; invece, continua Polibio, lo è quella presso la quale
è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli
anziani, obbedire alle leggi; presso tali comunità, quando prevale il parere dei
più (o{tan to; toi'~ pleivosi dovxan
nika'/), questo bisogna chiamare democrazia.
Il
fatto che Polibio più avanti scriva (9, 23, 8) che ai tempi di Pericle ad Atene
gli atti crudeli erano pochi (ojlivga me;n
ta; pikrav) mentre prevalevano quelli buoni e santi (polla;
de; ta; crhsta; kai; semnav) fa pensare che lo storico considerava se non
“vanificata”, certo “contenuta” e limitata da Pericle, la prepotenza del
plh'qo~ nel primo periodo della
democrazia radicale.
Aristotele nella Politica (1292a) scrive che dove non comandano le leggi
non c’è costituzione: o{pou ga;r mh; novmoi
a[rcousin, oujk e[sti politeiva.
Nella Costituzione degli Ateniesi (41) Aristotele passa in rassegna 11
regimi succeduti in Atene. Biasima la riforma di Efialte (del 462 a. C.) che
ridusse i poteri dell’Areopago. Da allora i governi commisero più errori a causa
dei demagoghi. Dopo la tirannide dei Trenta, il popolo si è reso padrone
assoluto di ogni cosa.
Anche Cicerone critica questo
potere eccessivo: “Si vero populus plurimum potest omniaque eius arbitrio
reguntur, dicitur illa libertas, est vero licentia” ( de rep., 3,
23), se poi il popolo ha il massimo potere e tutto viene retto secondo il suo
arbitrio, quella si chiama libertà, ma è piuttosto licenza.
Tucidide
Il torneo oratorio di Sparta 432
I
Corinzi parlano degli Ateniesi con l’acume dell’odio alla I assemblea (non
plenaria) dei delegati della lega Peloponnesiaca che si tenne a Sparta nel 432
Per
tutta la vita essi si affaticano tra prove e pericoli-meta;
povnwn kai; kinduvnwn mocqoũsi
e godono pochissimo di quello che hanno, perché sempre acquistano-dia;
to; aijei; ktãsqai, e non
considerano una festa altro che fare ta;
devonta, quello che devono, e una sventura non meno una tranquillità
inattiva che un’attività penosa ( I, 70)
Anche nella tecnica prevale la scoperta più recente. Così nella politica, che
è una tecnica, ci vogliono sempre innovazioni:
pollh̃ς
th̃ς ejpitecnhvsewς
deĩ (I, 71).
Voi
Spartani non vi rinnovate.
Quindi parlarono gli Ateniesi invitati a questo convegno.
Rivendicano i loro meriti nelle guerre persiane, soprattutto nella seconda: ci
misero il maggior numero di navi, lo stratego più intelligente[24]
e l’impegno più risoluto proqumivan
ajoknotavthn (I. 74).
Al
nostro successivo potenziamento siamo stati costretti.
kathnagkavsqhmen dal timore (malivsta
uJpo; devouς) , dall’onore (e[peita
kai; timh̃ς) e dall’utile (u{steron
kai; wjfelivaς). E’ la logica del potere.
Quindi proclamano il diritto del più forte.
E’
stabilito da sempre che il più debole sia sopraffatto da più forte (aijei;
kaqestw̃toς
to;n h{ssw ujpo; toũ dunatwtevrou
kateivrgesqai, I, 76) e noi ne siamo degni. Noi esercitiamo la supremazia
con moderazione metriavzomen.
I processi
Abbiamo fama di amare i processi: filodikeĩn
dokoũmen (I, 77), e lo
riconosciamo: quelli che possono fare violenza infatti non hanno bisogno di
processi biavzesqai ga;r oi|ς
a}n ejxh̃/ , dikavzesqai oujde;n
prosdevontai (I, 77).
Per
la mania dei processi Le Nuvole di Aristofane del 422.
Il primo discorso[25]
di Pericle del 431 ( Storie, II, 140-144)
Tucidide introduce questo discorso scrivendo che Pericle era prw`to~ jAqhnaivwn , il primo degli Ateniesi e il più capace di parlare e di agire: “levgein te kai; prassein dunatwvtato~.
Essere cittadini significa anche avere delle capacità: in primis quella di parlare, poi quella di agire conseguentemente[26].
Pericle chiede di non cedere agli Spartani (mh;
ei[kein, I, 140, 1).
Tucidide si rifà a un’idea razionale dell’uomo e della storia e, come poi Cesare[27].
e dà poco spazio ai motivi irrazionali delle imprese.
.Tuttavia egli non elimina del tutto il
para; lovgon: a volte la tuvch
conduce i fatti para; lovgon appunto
contro il ragionato calcolo.
Dunque: Non bisogna cedere alle richieste degli Spartani di abrogare il decreto
di Megara e di togliere l’assedio a Potidea, altrimenti arriveranno altri ordini
Sono i capitali , le eccedenze che sostengono le guerre (aiJ
periousivai tou`~ polevmou~ ajnevcousin) e i Peloponnesiaci ne sono
privi.
Senza denaro non si colgono le occasioni le quali non aspettano[28]
(oiJ kairoi; ouJ menetoiv, I, 142,
1), sarà importante dominare il mare e gli Spartani non possono poiché la
nautica è fatta di tecnica e di capitali.
(Cfr, l’ajcrhmativa di, I, 11. Essa
inficiava la grandezza e la potenza della flotta contro Troia).
Non
importa se i campi verranno danneggiati; basta che si salvino le vite umane,
poiché sono gli uomini ad acquistare le cose, non le cose gli uomini. Grande
cosa è il dominio sul mare: “mevga ga;r to;
th̃ς qalavsshς
kravtoς (I, 143, 3).
Pericle conclude il primo discorso, non senza una contraddizione: ricorda che i
loro padri che pure non avevano tante risorse e anzi abbandonarono quelle che
possedevano, affrontarono i Medi con l’intelligenza (gnwvmh/)
più che con la fortuna (plevoni h] tuvch/),
con il coraggio più grande della potenza (tovlmh/
meivzoni h] dunavmei) I, 144, 4.
Si
vede che qui entra anche l’elemento irrazionale (tovlmh/).
Gli
Ateniesi votarono come lui volle.
Secondo discorso di Pericle
Lovgoς
ejpitavfioς (II, 35-46) tenuto nell’inverno 431-430.
La
lode dei caduti sta nelle loro gesta, non nelle espressioni dell’oratore che
deve solo trovare parole adeguate ai fatti.
Soloo i pepaideumevnoi sono capaci
di farlo.
Chi
parla è spesso portato a straparlare: è difficile infatti parlare con misura (calepo;n
ga;r to; metrivwς eijpeĩn,
II, 35, 2). Di chiacchierare sono capaci tutti, ma come dice Pelasgo nelle
Supplici di Eschilo: “makra;n ge me;n
dh; rJh̃sin ouj stevrgei povliς
(273), la città non ama i lunghi discorsi.
Talora gli ascoltatori provano invidia davanti all’eroismo e non credono a ciò
che supera la loro mediocrità.
Pericle cercherà comunque di seguire la tradizione e di incontrare le
aspettative degli uditori.
Il
figlio di Agariste d’altra parte poteva pure permettersi di contraddire i gusti
del suo popolo e provocarlo fino all’ira
pro;ς ojrghvn in quanto era
chiaramente incorruttibile riguardo al denaro : “
diafanw̃ς
ajdwrovtatoς genovmenoς
kateĩce to; plh̃qoς
ejleuqevrwς” (II, 65), teneva in pugno il popolo lasciandolo libero. E’
il commento di Tucidide
Torniamo al lovgoς
ejpitavfioς
Gli abitanti dell’Attica sono autoctoni da sempre.
I
loro padri hanno conquistato l’impero (ajrchvn)
non senza fatica (oujk ajpovnwς) e i
figli lo hanno accresciuto (II, 35, 2) rendendo Atene
aujtarkestavthn[29],
del tutto autosufficiente.
La
grandezza di Atene è dovuta alla sua costituzione (politeiva)
e ai suoi costumi (trovpoi), detto
in breve, poiché Pericle non vuole
makrhgoreĩn, parlare
prolissamemente.
Polibio ripeterà queste formule: infatti Tucidide
ejnomoqevthse, legiferò (cfr.
Luciano)
Quindi il paragrafo , II, 37, 1 delle Storie di Tucidide.
Questo viene echeggiato dalla nostra costituzione
Noi, dice Pericle abbiamo una costituzione esemplare (paravdeigma)
e degna di essere imitata. Si chiama democrazia è c’è una condizione di
uguaglianza (to; i[son) per tutti.
Si viene eletti alle cariche pubbliche secondo la stima del valore (kata;
de; th;n ajxiwvsin) e nessuno viene preferito alle cariche per il
partito di provenienza (oujk ajpo; mevrouς)
più che per il valore (to; plevon ejς
ta; koina; h] ajp j ajreth̃ς), né del resto secondo il criterio della
povertà (oujd j au\ kata; penivan),
se uno può fare qualche cosa di buono per la città, ne è stato impedito per
l’oscurità della sua posizione sociale (ajxiwvmatoς
ajfaneiva/ kekwvlutai).
Sentiamo allora la nostra Costituzione.
Articolo 1: L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La
sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione”.
L’articolo 3 è forse il più noto: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale
e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di
religione, di condizioni personali e sociali
Comma B. E’ compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico
e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione
di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del
paese.
Nel
Menesseno di Platone, Aspasia dice che nessuno è stato escluso per
povertà (peniva/), né per oscurità
dei padri, né d’altra parte per condizioni opposte è stato ritenuto degno di
onore (238d)
Sarebbe stata Aspasia a suggerire il discorso sui morti a Pericle.
“La
costituzione, se è buona, alleva uomini valorosi, se è cattiva invece dei
malvagi. Quella che chiamano democrazia di fatto è un’aristocrazia con il
consenso della massa (e[sti de; th̃/
ajlhqeiva/ metj eujdoxivaς plhvqouς
ajristokrativa (238d). Noi abbiamo sempre avuto dei re. (Il secondo
arconte che presiedeva al culto, aveva il titolo di re)
Il
popolo assegna cariche e potere a chi gli sembra essere il migliore: nessuno è
stato escluso (ajphlevlatai oujdeivς)
per debolezza, povertà, oscurità dei padri, né per motivi opposti (oujde;
toĩς ejnantivoiς) è stato
onorato. C’è un solo limite (ei|ς
o{roς): ha il potere e comanda (krateĩ
kai; a[rcei) chi ha la reputazione di uomo saggio o buono (oJ
dovxaς sofo;ς
h} ajgaqo;ς ei\nai (238d)
Critiche alla democrazia ateniese
L’oligarca della Costituzione degli Ateniesi associa la democrazia alla
potenza della flotta e al potere di chi la fa andare “ad Atene la canaglia
ha preso il potere perché è il popolo che fa andare le navi: “oJ
ejlauvnwn ta;ς naũς”
Senofonte indica invece l’esemplarità della Costituzione spartana: Licurgo
non ha imitato altre costituzioni ma ha scelto l’opposto rispetto alla maggior
parte di esse (Costituzione degli Spartani, I).
Polibio individua la prima Costituzione mista (mikth;
politeiva) nella rJhvtra di
Licurgo (VI, 3, 8). C’erano i re, la
gerousiva, l’Apella e gli Efori che sindacavano l’operato dei potenti.
Isocrate nell’Areopagitico, il principale scritto di politica interna,
del 356, scrive che la Costituzione non è altro che l’anima dello Stato (e[sti
ga;r yuch; povlewς oujde; e{tereon
h} politeiva (14).
Il
liberal- conservatore Tocqueville voleva ridurre al minimo le scuole classiche
in quanto c’è il rischio che producano giacobini e rivoluzionari (La
democrazia in America, 1840). Il comunista Gramsci invece sosteneva che il
latino e il greco sono il più efficace strumento di disciplina intellettuale.
Democrazia contiene la parola kravtoς
che secondo i critici di questo regime può significare “strapotere dei non
possidenti”, come ricorda Canfora
“E’ nel fuoco di questi
problemi che nasce la nozione-e la parola-democratìa, a noi nota, sin
dalle sue prime attestazioni, come parola dello “scontro”, come termine di
parte, coniato dai ceti elevati ad indicare lo “strapotere” (kràtos) dei
non possidenti (dèmos) quando vige, appunto, la democrazia”[30].
Aristofane, in forma comica, poi Platone e Aristotele denunciano la demagogia,
il disordine e la corruzione di questo sistema.
Cfr. Le Vespe di Aristofane del 422, dove il commediografo mette
in rilievo la parzialità dell’Eliea che in origine era una corte d’appello
istituita da Solone, poi ampliata nei poteri e nel numero fino a seimila
giudici.
Il
figlio di Filocleone esorta il “babbino”(pappivdion,
655) a calcolare qual è il tributo (to;n
fovron) che Atene riceve dalle città alleate poi tutte le altre rendite
(tevlh, imposte, miniere,
mevtall j, mercati, porti, confische
649).
Sono duemila talenti
Gli stipendi dei 6000 eliasti arrivano a 150 talenti (un talento
equivalgono a 6000 dracme a 36 mila oboli. Una dracma=6 oboli)
Il
vecchio ci rimane male: nemmeno la decima parte?
E
gli altri quattrini?
Il
figlio risponde che vanno ai demagoghi che adulano la folla e prendono
cinquanta talenti alla volta dagli alleatti terrorizzandoli prima, poi facendosi
corrompere
Tu
ti accontenti di rosicchiare i rimasugli del potere (672) dice Bdelicleone al
suo babbino.
Platone nell'VIII
libro della Repubblica biasima la mancanza di serietà della democrazia,
una costituzione che non si dà pensiero delle abitudini morali di chi fa
politica, ma onora chi dice di essere amico del popolo.
E' una
costituzione populista, piacevole, anarchica e variopinta, che distribuisce una
certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (hJdei'a
politeiva kai; a[narco" kai; poikivlh,
ijsovthtav tina oJmoivw~ i[soi~ te kai;
ajnivsoi~ dianevmousa, 558c).
Un'uguaglianza divaricata dalla giustizia dunque se è vero quanto dice Don
Milani: "Perché non c'è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra
disuguali"[31].
Io credo
che sia più ingiusto fare parti troppo diverse tra persone che sono
sostanzialmente uguali come siamo noi uomini.
I demagoghi
furono Cleone, Iperbolo e Cleofonte, ma Platone ( nel Gorgia) non salva
nemmeno Pericle.
Ma
torniamo al lovgoς
ejpitavfioς.
ejleuqevrwς…politeuvomen,
liberamente viviamo da cittadini (II, 37, 2)
Parte
importante di questa libertà nella cultura logocentrica, e parlata, dei Greci è
la parrhsiva, come si legge nello
Ione e nelle Fenicie di Euripide,
"La parresìa è l'elemento che il Greco avverte come ciò che
massimamente lo distingue dal barbaro. L'esule soffre della perdita della
parresìa come della mancanza del bene più grande (Euripide, Fenicie,
391). Inutile ricordare che il valore della parresìa svolgerà un ruolo
decisivo nell'Annuncio neo-testamentario. E dunque entrambe le componenti della
cultura europea vi trovano fondamento"[32].
Nello Ione[33]
di Euripide il protagonista esprime il desiderio di ereditare da una madre
ateniese questo privilegio, recandosi ad Atene, poiché lo straniero che piomba
in quella città, anche se a parole diventa cittadino, ha schiava la bocca senza
la libertà di parola ("tov ge
stovma-dou'lon pevpatai[34]
koujk e[cei parrhsivan", vv. 674-675).
Analogo concetto si trova nelle Fenicie[35]
quando Polinice risponde alla madre sulla cosa più odiosa per l'esule:"
e{n me;n mevgiston, oujk e[cei parrhsivan"
(v. 391), una soprattutto, che non ha libertà di parola.
Infatti,
conferma Giocasta, è cosa da schiavo non dire quello che si pensa.
Anche la
nostra Costituzione conferisce somma importanza alla libertà di parola: "Articolo
19: "Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa
in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare
in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon
costume.
Articolo
21: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con
la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione".
Pericle poi
ricorda ouj paranomoũmen
(II, 37, 3) , non trasgrediamo le leggi per paura e soprattutto obbediamo a
quelle poste a tutela di chi subisce ingiustizia (o{soi
te ejp j wjfeliva/ tw̃n
ajdikoumevnwn), e anche se non sono scritte (o{soi
a[grafoi o[nteς)
portano un disonore riconosciuto da tutti (aijscuvnhn
oJmologoumevnhn fevrousin).
Pelasgo
nelle Supplici di Eschilo dice che il popolo ama accusare il potere (ajrch̃ς
ga;r filaivtioς
lewvς, 485).
Gli Argivi provano compassione per le Danaidi e odiano il maschio stuolo.
Infatti ognuno ha simpatia toĩς
h{ssosin, per i perdenti.
Il
dibattito leggi scritte o no si fa a distanza, tra le opere di Sofocle (Antigone,
Edipo re), Euripide (Supplici), Antifonte sofista (Della verità
la legge danneggia la vita), Isocrate (Archidamo), Alcidamante (Messeniaco),
Platone (il personaggio Callicle del Gorgia: le leggi sono vincoli
para; fuvsin, mentre
kata; fuvsin è il diritto del più
forte di prevalere 483e) e chissà quanto se ne parlava.
Cfr. per
questo don Abbondio che dice a Renzo: "Non si scherza. Non si tratta di torto o
di ragione: si tratta di forza" I promessi sposi, cap. II.
Tacito:
corruptissima re publica plurimae leges, Annales, III, 27).
Per questa
problematica cfr. la mia Antigone, lo scita Anacarsi in Plutarco, Vita di
Solone e I Promessi sposi di Manzoni dove l'Azzeccagarbugli dice a
Renzo:"Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci (…) perché,
vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente"
(cap. III)
Passiamo
a II, 38, 1 del logvoς
ejpitavfioς
Essere cittadino impegnato
non significa non avere svaghi. Ad Atene vige una festività agonistica: abbiamo
procurato pleivstaς
ajnapauvlaς
th̃/
gnwvmh/ moltissimi
sollievi allo spirito, ajgw̃si
mevn ge qusivaiς
diethvsioς con agoni e
feste sacre che durano tutto l’anno (Grandi Dionisie in primavera, Dionisie
rurali e Lenee d’inverno) e anche con eleganti arredi privati il cui piacere
quotidiano scaccia il dolore.
Viene data una visione dell'Atena
classica non molto diversa dall'idea dell'imperatore Giuliano di Ibsen:"Esiste
un mondo splendido che voi galilei non vedete; un mondo dove la vita è una festa
solenne fra belle statue e inni nei templi, con calici colmi di vino e rose fra
i capelli. Ponti vertiginosi vengono gettati fra spirito e spirito"(Cesare e
Galileo 1,L'apostasia di Cesare , atto primo, 1873 ).
Insomma non circenses,
ma teatro quale festa e quale rito che pone l’uomo e dio, e la polis e la
politica come problemi.
Nietzsche: “ La festa è
paganesimo per eccellenza” (Frammenti potumi,autunno 1887, 268).
E’
dal dolore che si è sviluppato il desiderio di bellezza, di feste, di
divertimenti. Pericle (o Tucidide) ce lo lascia intendere nel grande discorso
funebre (Nietzsche, Tentativo di un’autocritica, 4).
La città riceve ogni cosa da
tutta la terra per la sua potenza. La fruizione dei beni quindi non è solo
quella di prodotti locali (Tucidide, Storie, II, 38, 2)
L’accoglienza degli stranieri
Offriamo la nostra città come
bene comune (th;n te ga;r povlin
koinh;n parevcomen)
per chi vuole imparare o assistere ai nostri spettacoli. Non pratichiamo
xenhlasiva
(xenhlatevw,
xevnoς-
ejlauvnw) il bando
degli stranieri non escludiamo alcuno dall’imparare o dal vedere (kai;
oujk ajpeivrgomevn tina h} maqhvmatoς
h} qeavmatoς
(II, 39, 1), anche se
il nemico se ne può avvantaggiare.
Il mito di Stato
La
tragedia elabora il mito di Stato e mette in rilievo anche l’accoglienza dei
supplici da parte della polis ateniese.
Per
esempio negli Eraclidi (427?) Demofonte, figlio di Teseo e di Fedra,
accoglie i supplici perseguitati da Euristeo. Nella parodo, il coro dice che è
empio per una città trascurare la supplice preghiera di stranieri (107-108)
La
terra ateniese da sempre vuole contribuire con la giustizia ad aiutare chi è
privo di risorse: “ajei; poq j h{de gaĩa
toĩς ajmhcavnoiς
su;n tw̃/ dikaivw/ bouvletai
proswfeleĩn” (329-330).
Arriano (95-175d. C.) fa dire a Callistene che un fuggitivo poteva salvarsi
presso gli Ateniesi che avevano combattuto Euristeo il quale perseguitava gli
Eraclidi e allora tiranneggiava la Grecia: “turrannoũnta
ejn tw̃/ tovte th̃ς
JEllavdoς (Anabasi di
Alessandro, 4, 10, 4).
Nelle Supplici di Euripide (del 422), Etra, la madre di Teseo incoraggia
il figlio ad aiutare le donne argive le quali pregano Atene di soccorrere le
madri: tu non lasci spazio all’ingiustizia e proteggi i disgraziati (vv.
379-380).
Nell’ Edipo a Colono (rappresentata postuma, nel 401) il
protagonista
dice che Atene è la città più pia, la sola capace di aiutare lo straniero
maltrattato (266-267)
Quindi Isocrate nel Panegirico (380) fa un caldo elogio di Atene, e, tra
l’altro e ricorda che prima della guerra di Troia andarono nella città di
Pallade gli Eraclidi e Adrasto re di Argo
Nella Tebaide di Stazio (45-96), Giunone si muove verso le mura di Atene
per convincere Pallade, poi aprire Atene che è bendisposta verso i supplici pii
(supplicibusque piis faciles aperiret Athenas (XII, 294)
L’articolo 10 della nostra Costituzione dice: “Lo straniero al quale
sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche
garantite dalla costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della
Repubblica. Non è ammessa l’estradizione per motivi politici”.
La capacità di improvvisare.
L’educazione dei giovani ateniesi e spartani
Noi confidiamo più nel nostro
coraggio verso l’azione (ejς
ta; e[rga eujyuvcw/)
che nei preparativi e negli stratagemmi. E da giovani viviamo senza costrizioni
hJmeĩς
de; ajneimevnwς[36]
diaitwvmenoi, mentre
altri perseguono il valore
ejpipovnw/ ajskhvsei,
con faticoso esercizio (II, 39, 1).
Cfr. affermazioni opposte Esiodo: “davanti
al valore gli dei hanno posto il sudore: "th'"
d j ajreth'" iJdrw'ta qeoi; propavroiqen e[qhkan"
(Opere, 289).
Nell'Elettra di Sofocle la protagonista dice alla mite sorella
Crisotemi: "o{ra, povnou toi cwri;"
oujde;n eujtucei'''" (v. 945), bada,
senza fatica niente ha successo.
Nei Memorabili[37]
di Senofonte la donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa Eracle al
bivio che gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica e impegno:"tw'n
ga;r o[ntwn ajgaqw'n kai; kalw'n oujde;n a[neu povnou kai; ejpimeleiva" qeoiv
didovasin ajnqrwvpoi"" (II,
1, 28).
Anche Spartani e Spartane del
resto erano fieri della propria educazione. Gorgò, la moglie di Leonida, a una
straniera che le aveva detto: solo voi donne spartane comandate sugli uomini,
Gorgò rispose: “movnai ga;r
tivktomen a[ndraς
(Plutarco, Vita di
Licurgo, 14), infatti solo noi partoriamo degli uomini.
Gorgò da bambina diede ordini
perfino al padre, il re Cleomene. Lo dissuase dall’ accettare il denaro (50
talenti) che Aristagora di Mileto gli offriva in cambio di un aiuto militare
(Erodoto, V, 52, 2).
Senofonte nella
Costituzione degli Spartani mette in rilievo il fatto che per quel popolo
to; peivqesqai,
l’obbedire nell’esercito e in casa è il bene più grande (VIII, 2).
La disciplina dura forma caratteri
forti: il re spartano Archidamo nelle Storie di Tucidide sostiene
gli uomini, i quali non sono poi tanto differenti tra loro, vengono distinti
dalla severa disciplina che rende più forte chi è stato educato nelle massime
difficoltà:"poluv te diafevrein ouj dei'
nomivzein a[nqrwpon ajnqrwvpou, kravtiston de; ei\nai o{sti~ ejn toi'"
ajnagkaiotavtoi" paideuvetai"(I, 84, 4).
Concorda con questa
affermazione del re spartano quanto scrive Nietzsche nell' Epistolario in
data 14 aprile 1887:" Non c'è nulla
infatti che irriti tanto le persone quanto il lasciare scorgere che noi seguiamo
inesorabilmente una rigida disciplina di cui loro non si senton capaci
Tucidide II, 39, 2.
Pericle mette in rilievo la facilità con cui gli Ateniesi vincono le battaglie (ouj
calepw̃ς
macovmenoi kratoũmen)
quando attaccano i vicini.
Lo stratego non nega
l’imperialismo. Cleone sarà ancora più esplicito: “turannivda
e[cete th;n ajrchvn ,
III, 37, 2), avete un impero che è una tirannide
II, 39, 3.
Nessun nemico ha ancora affrontato l’intera potenza ateniese per la nostra cura
della flotta (dia; th;n toũ
nautikoũ
ejpimevleian) e per il
fatto che l’esercito viene mandato in varie direzioni.
II, 39, 4.
Noi Ateniesi vogliamo
affrontare i rischi (ejqevlomen
kinduneuvein) con
noncuranza (rJaqumiva/
) piuttosto che con allenamento alle fatiche (mãllon
h} povnwn melevth/)
e più con l’energia dei
caratteri che con le leggi.
La noncuranza
Dunque gli Ateniesi hanno la
sovrana noncuranza del genio, la sprezzatura che è la virtù opposta
all’affettazione “asperissimo scoglio” (Castiglione, Il Cortegiano).
Sulla noncuranza del genio
scrive anche l’Anonimo autore Sul sublime che la chiama
ajmevleia
e la attribuisce agli scrittori sublimi appunto come Sofocle, Pindaro,
Demostene, Platone. Le loro opere contengono errori che sono in realtà sviste (paroravmata)
dovute a casuale noncuranza (di j
ajmevleian eijkh̃/).
Nel prologo dell’Andria,
Terenzio scrive che preferisce cercare di emulare la negligenza di Nevio,
Plauto, Ennio, che l’oscura diligenza del malevolo vecchio poeta Luscio Lanuvino
(vv. 20-21).
Leopardi ribadisce questa
idea e approva “quella negligente e sicura e non curante e dirò pure ignorante
franchezza che è necessaria nelle somme opere d’arte” quali quelle di Omero,
Dante, Ariosto.
Invece “il Parini e il Monti
sono bellissimi, ma non hanno nessun difetto” Zibaldone 9-10).
Pericle dunque esalta negli
Ateniesi la capacità di improvvisare.
Esiste del resto anche il
tovpoς
contrario che celebra la fatica (Esiodo, Alessandro Magno in Arriano etc.).
Cfr. la mia Metodologia
Tucidide II, 40, 1
Amiamo il bello con
semplicità (Filokaloũmen
met j eujteleiaς)
e amiamo la sapienza (filosofoũmen)
senza mollezza. La sofiva
non è il neutro sofovn
, la fredda erudizione (cfr. Euripide, Baccanti, 395):
sofiva è femminile, è
la cultura che produce e incrementa la vita.
eujtevleia
è il basso prezzo (cfr. eu\ -tevloς)
che costano le cose belle, naturali e necessarie che sono a portata di mano,
come dirà Epicuro[38].
Filokaloũmen:
l’amore del bello è una delle componenti principali della cultura di questo
popolo di esteti. A una vita senza bellezza l’Aiace di Sofocle preferisce la
morte ( Aiace, vv. 479-480). Altrettanto Antigone di Sofocle e Polissena
nell’Ecuba di Euripide (v. 378).
C’è un
tw̃/
pavqei mavqoς e un
tw̃/
pavqei kavlloς.
Articolo 9 della Costituzione
italiana: La
Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e
tecnica.
Tutela il paesaggio e il
patrimonio artistico della nazione.
a[neu malakivaς Pericle del resto
rifiuta quella mollis educatio criticata da Quintiliano che pure
è favorevole alle pause[39]
e al gioco[40]
dei fanciulli. "Mollis
illa educatio, quam indulgentiam vocamus, nervos omnis mentis et corporis
frangit"[41]
quella molle educazione
che chiamiamo indulgenza, spezza tutte le forze della mente e del corpo.
L’improvvisazione di cui si diceva
prima può riuscire bene dopo una pausa successiva ad anni di lavoro.
Di nuovo Tucidide II, 40, 1: ci
serviamo della ricchezza (plouvtw/
…crwvmeqa)
più come occasione per l’azione (e[rgou
mãllon kairw̃/)
che come vanteria di parole[42]
(h} lovgou kovmpw/).
Non è vergogna ammettere di essere poveri (to;
pevnesqai) ma è molto
vergognoso non cercare di fuggire la povertà
Tucidide II, 40, 2
Il cittadino-polivthς,
non può non partecipare alla vita della
povliς.
Solo noi consideriamo (nomivzomen)
non tranquillo ( oujk ajpravgmona)
ma inutile (ajll j ajcreĩon)
chi non prende parte alla vita politica[43]
(tov te mhde;n tw̃nde
metevconta).
Plutarco ricorda che tra le leggi
di Solone era sorprendente quella che sanciva l’ajtimiva,
la privazione dei diritti civili per chi in caso di sedizione non si fosse
schierato da nessuna parte (Vita di Solone, 20, 1).
Alla direttiva del
mevtecein
gli oligarchici contrapposero l’esaltazione della vita privata con il
ta; eJautoũ
pravttein
I professori fascisti, ancora nel
dopoguerra, dicevano: “ a scuola non si deve fare politica”.
Euripide polemizza contro questa
tendenza all’astensionismo politico. Il Ciclope del dramma satiresco afferma che
il suo dio è la pancia e biasima i legislatori che con le leggi hanno complicato
la vita umana ( oiJ de; tou;ς
novmouς- e[qento poikivllonteς
ajnqrwvpwn bivon, Ciclope,
338-339)-
Omero scrive che i Ciclopi non
hanno assemblee deliberanti, non leggi: vivono sule cime dei monti in grotte
profonde, ciascuno governa su moglie e i figli e non si curano l’uno dell’altro
(qemisteuvei de; e[kastoς-paivdwn
hjd j ajlovcwn, oujd j ajllhvlwn ajlevgousi,
Odissea, IX, 114-155)
Un’esistenza precivile è quella del
Ciclope. Una vita disumana, dato che l’uomo è animale politico[44].
II, 40, 2
Non riteniamo i discorsi un danno
per le azioni (ouj tou;ς
lovgouς toĩς
e[rgoiς blavbhn),
ma è piuttosto un danno non essere informati con la parola prima di agire.
II, 40, 3
Calcoliamo i rischi in maniera
molto precisa, eppure osiamo . Anche in questo ci distinguiamo dagli altri (diaferovntwς
kai; tovde e[comen).
Platone scrive: “kalo;ς
ga;r oJ kivndunoς” (Fedone,
114d), bello è infatti il rischio. Il rischio di cui parla Socrate è quello di
credere nei miti relativi alla sorte delle anime, dato che è chiaro che l’anima
è immortale..
I miti sull’aldilà-dice il
maestro di Platone- non si addicono a un uomo che abbia senno (ouj
prevpei noũn
e[conti ajndriv) ma,
siccome è chiaro che l’anima è immortale, si addice pensare che le cose relative
all’anima vadano così o in maniera simile con il giudizio dei morti e tutto il
resto.
Fedone racconta a Echecrate le ultime ore di Socrate
Nel discorso di Pericle c’è
l’orgoglio della propria diversità.
““Ma ecco, non bisogna
essere come gli altri”. suggerisce Alioscia Karamazov allo studente Kolia[45].
“Continuate, dunque, a essere diverso dagli altri; anche se doveste rimanere
solo, continuate lo stesso”[46].
"Della nostra esistenza dobbiamo rispondere a noi stessi, di conseguenza
vogliamo agire come i reali timonieri di essa e non permettere che assomigli ad
una casualità priva di pensiero…E' così provinciale obbligarsi a delle opinioni
che, qualche centinaio di metri più in là già cessano di obbligare…Al mondo vi è
un'unica via che nessuno oltre a te può fare: dove porta? Non domandare,
seguila"[47].
II, 40, 3
Conosciamo lucidamente gli aspetti
terribili e quelli piacevoli della vita, e non per questo ci tiriamo indietro
dai pericoli ta; te deina; kai;
hJdeva safevstata gignwvskonteς kai;
dia; taũta mh; ajpotrepovmenoi ejk
tw̃n kinduvnwn”.
Viene in mente il dionisiaco e pure l’apollineo di Nietzsche
"Con il termine "dionisiaco" si esprime: un impulso verso l'unità, un dilagare
al di fuori della persona, della vita quotidiana, della società, della realtà,
come abisso dell'oblio…un'estatica accettazione del carattere totale della
vita…la grande e panteistica partecipazione alla gioia e al dolore, che
approva e santifica anche le qualità più terribili e problematiche della vita
(…)
Con il termine apollineo si esprime: l'impulso verso il perfetto essere per sé,
verso l'"individuo" tipico, verso tutto ciò che semplifica, pone in rilievo,
rende forte (…) Lo sviluppo ulteriore dell'arte è legato all'antagonismo di
queste due forze artistiche della natura così necessariamente come lo sviluppo
ulteriore dell'umanità è legato all'antagonismo dei sessi. La pienezza della
potenza e la moderazione, la più alta affermazione di sé in una bellezza fredda,
aristocratica, ritrosa: l'apollinismo della volontà ellenica"[48].
Tucidide II, 40, 4
Siamo il contrario dei più anche
per quanto riguarda l’ajrethv:
infatti ci procuriamo gli amici non ricevendo il bene, ma facendolo (
ouj ga;r pavsconteς
eu\ , ajlla; drw̃nteς).
Chi fa del bene conserva
cavrin,
gratitudine, mentre chi lo riceve è lento a contraccambiare e teme di non potere
farlo.
Cfr. Edipo l’eroe della passività
e Prometeo dell’attività (Nietzsche in La nascita della tragedia)
La
cavriς
è un valore molto forte della cultura greca (cfr. Teognide e l’Eracle di
Euripide dove Teseo dice “cavrin de;
ghravskousan ejcqaivrw fivlwn”
1223.
Oppure il Giulio
Cesare di Shakespeare: “ ingratitude more strong than traitor’s
arms/quite vanquished him: then …great Caesar fell” (III, 2)
O il Tito Andronico dove
Tamora ex regina dei Goti dice a Saturnino di prendere tempo prima di annientare
Tito che lo ha aiutato nell’ascesa al trono: rischierebbe troppo: “for
ingratitude/which Rome reputes to be a heinous sin (I, 1), un peccato
odioso.
II, 40, 5
Noi siamo i soli che portiamo aiuto
a uno senza timore (ajdew̃ς
tina; wjfeloũmen)
non più per il calcolo dell’utile (ouj
toũ xumfevrontoς
mãllon logismw̃̃/)
che per fiducia nella libertà h}
th'" ejleuqeriva" pistw'/
II, 41, 1
Riassumendo dico che l’intera città
è scuola dell’Ellade (xunelwvn te
levgw thvn te pãsan povlin th̃ς
j Ellavdoς paivdeusin ei\nai),
una città dove ciascuno può conservare la propria persona indipendente a (to;
swvma au[tarkeς, una specie
di habeas corpus) con la massima eleganza (meta;
carivtwn malist
j)
e con versatilità (eujtrapevlwς)
aperta a molti generi di formazione.
II, 42, 2
Questo non è un vanto di parole (ouJ
lovgwn kovmpoς) ma verità di
fatti (e[rgwn ajlhvqeia).
Lo dimostra la potenza stessa della città
(aujth; hJ duvnamiς
povlewς shmaivnei).
La ajlhvqeia, “non latenza” (lanqavnw,
“rimango nascosto”) e la “non dimenticanza” (lanqavnomai,
“dimentico”) dei fatti è la potenza della città.
II, 41, 3
La nostra è l’unica città che
arriva alla prova più forte della fama –ajkoh̃ς
kreivsswn- e non viene
biasimata né dai nemici né dai sudditi poiché non è mai indegna del suo ruolo.
Un ruolo di comando.
Il ruolo del capo
Caratteristiche e doveri di chi
comanda
Senofonte nella Ciropedia
(I, 3, 1) sostiene che il capo di buona natura si distingue per la rapidità
nell’apprendere e per l’eleganza e il coraggio con cui agisce.
Anche comandare è un fatto che
dipende dalla ejpisthvmh:
nella Ciropedia Senofonte nota che gli uomini congiurano contro quelli di
cui si accorgono che cercano di sottometterli: “ejpi;
touvtou~ ou}~ a]n ai[sqwntai a[rcein auJtw'n ejpiceirou'nta~”
(I, 1, 3). Eppure a Ciro il Vecchio obbedirono molti popoli anche distantissimi
dalla sua persona. Dunque non è impossibile né difficile comandare sugli uomini
“h[n ti~ ejpistamevnw~ tou'to
pravtth/”, se uno lo fa in
maniera accorta.
Platone nella
Repubblica fa dire a Socrate che un capo vero e genuino ("tw'/
o[nti ajlhqino;" a[rcwn", 347d) deve cercare non il proprio utile, bensì
quello dei governati.
Nel Politico, Platone fa
dire allo straniero di Elea che l’arte politica regia è solo quella di prendersi
cura dell’intera comunità umana (ejpimevleia
dev ge ajnqrwpivnh~ sumpavsh~ koinwniva~,
276b).
Guidare gli uomini come fanno i
pastori con gli animali, dobbiamo invece chiamarla
qreptikh;n tevcnhn,
tecnica dell’allevamento, non
basilikh;n kai; politikhvn tevcnhn
(276c), non arte regia e arte politica.
Infatti il re e l’uomo politico è
quello che si prende cura (ejpimevleian)
di uomini bipedi che liberamente l’accettano (eJkousivwn
dipovdwn, 276d ).
Manzoni ne I Promessi Sposi afferma la persuasione "di ciò che
nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser
giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio ( XXII
cap.).
Così in effetti aveva insegnato un discepolo di Zenone ad Antigono
Gonata re di Macedonia (276-239) cui "il regnare apparve un "onorevole servire",
e[ndoxo" douleiva (Eliano, Var.
hist. II 20)"[49].
Seneca nel De Clementia sostiene che la tanto celebrata felicità del
principe consiste nel dare salvezza a molti, nel richiamare la vita dalla morte
stessa e nel meritare la corona civica con la clemenza:"Felicitas illa multis
salutem dare et vitam ab ipsa morte revocare et mereri clementia civicam
"(III, 24, 5).
Tra
i moderni, in E. Fromm troviamo una posizione simile a quella, già
indicata, di Manzoni:"Il capo non è soltanto la persona tecnicamente più
qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche l'uomo che è un esempio,
che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che li serve. Obbedire a un
cosiddetto capo senza queste qualità sarebbe viltà"[50].
Non
proprio questo però era il ruolo di Atene nei confronti dei sudditi.
II, 41, 4. Siamo e saremo ammirati dai posteri senza avere bisogno né di un
Omero elogiatore (oujde;n prosdeovmenoi
ou[te JOmhvrou ejpainevtou) né di chiunque altro che diletterà con i
versi sul momento ( ou[te o{stiς
e[pesi me;n to; aujtivka tevryei).
Cfr. cto; mh; muqw'de" di I, 22, 4"
e la mancanza del favoloso di questi fatti , verosimilmente, apparirà meno
piacevole all'ascolto".-) e, subito dopo, “infatti
come un possesso per l'eternità più che come declamazione da udire per il
momento di una gara, essa è composta”.
Alessandro invece avrebbe voluto essere cantato da Omero: “cum in Sigeo ad
Achillis tumulum adstitisset, “o fortunate, inquit, adulescens, qui tuae
virtutis Homerum praeconem inveneris! (Cicerone, Pro Archia, 24)
Oggi il politico ha bisogno non di un Omero che lo celebri, ma della televisione
che gli dia visibilità.
La
verità metterà nudo quanto è solo presunto e noi saremo ammirati per avere reso
tutto il mare e la terra accessibile
(ejsbatovn) alla nostra audacia (th̃/
hjmetevra/ tolmh/)) avendo edificato ovunque (II, 41, 4)
Il secondo coro (vv. 301-379)[51]
della Medea di Seneca, viceversa, maledice la navigazione come
attività troppo audace per l'uomo:" Audax nimium, qui freta primus/rate
tam fragili perfida rupit/terrasque suas post terga videns/animam levibus
credidit auris/ dubioque secans aequora cursu,/potuit tenui fidere ligno,/inter
vitae mortisque vias/nimium gracili limite ducto" (vv. 301-308), audace
troppo chi per primo ruppe con la barca tanto fragile i perfidi flutti e vedendo
alle spalle la sua terra affidò la vita ai venti incostanti/ e fendendo gli
spazi marini con rotta infida, fu capace di affidarsi a un legno debole guidato
sul confine troppo sottile tra le vie della vita e della morte
Il primo a violare il mare è stato Giasone la cui audacia ha trovato degni
antagonisti nei freta perfida.
Audax nimium (v. 301) è ripreso da avidus nimium
navita (v. 326), il marinaio che, troppo avido, vuole ormai tutti i
venti. "L'avverbio è segnale esplicito e 'tecnico' del motivo della hybris
dell'uomo che 'forza' la natura"[52].
II, 41, 5
Per
una tale città dunque, perché non venisse loro tolta, i nostri concittadini
morirono combattendo nobilmente gennaivwς
.
II, 42,1
Mi
sono dilungato per insegnarvi –didaskalivan
te poiouvmenoς- che il nostro agone per una tale città non è lo stesso
che hanno altri.
Componente didascalica e agonistica.
Nietzsche scrive:"Indizi di una natura aristocratica: non degradare mai i
propri doveri, pensando che siano i doveri di tutti; non voler rinunciare mai
alla propria responsabilità e non volere dividerla con nessuno"[53].
II, 42, 2
Il
valore dei morti ha reso belle le mie parole. Il discorso corrisponde ai fatti.
II, 42, 3
Quei morti possono avere compiuto anche azioni meno belle ma hanno fatto sparire
il male con il bene e recarono pubblico vantaggio-koinw̃ς
wjfevlhsan-più di quanto abbiano danneggiato con i loro vizi privati
Il
privato conta meno del koinovn. Noto
l’eleganza di schivare il luogo comune del de mortuis nihil nisi bonum.
II, 42, 4
Nessuno di loro si rammollì (ejmalakivsqh)
godendo della ricchezza, né rimandò il pericolo, ma stimò questo cimento il più
nobile dei rischi (kinduvnon kavlliston)
.
Preferirono soffrire (paqeĩn)
che salvarsi cedendo (h] to; ejndovnteς
sw/vzesqai) e nella brevissima occasione offerta dal destino se ne
andarono al colmo della gloria.
Vediamo qui l’ideale eroico del non cedere (Achille nell’Iliade,
Callino e Tirteo (VII secolo).
Il
guerriero piantato in prima fila è xuno;n
ejsqlovn, un bene comune per la città e il popolo. Muore combattendo in
prima fila con i piedi ben fissati al suolo e mordendo il labbro con i denti
ceĩloς
ojdoũsi dakwvn (Tirteo, fr.
10 W. 32)
Pindaro nell’Olimpica I scrive oJ
mevgaς de; kivndunoς
a[nalkin ouj fw̃ta lambavnei
(vv. 82-83)
L’Achilleide
di Stazio racconta l’educazione del Pelide da parte di Chirone che spingeva il
ragazzo a battere nella corsa i cervi veloci e i cavalli dei Lapiti (II,
111-113)
L’eroe non cede (Achille in Iliade XIX, 423
ouj lhvxw, non cederò) e Pericle nel
terzo discorso della fine estate del 430 dice che Atene ha grandissima rinomanza
tra gli uomini dia; to; taĩς
xumforaĩς mh; ei[kein, (II,
64, 3) per il fatto che non cede alle disgrazie.
Platone nel Fedro dice che hanno vinto una delle tre gare veramente
olimpiche quelli che fanno prevalere la parte migliore dell’anima: l’auriga
aiutata dal cavallo bianco. I due non devono cedere al cavallo nero.
Ma Leopardi nello Zibaldone sostiene che “l’eroismo e la perfezione
sono cose contraddittorie. Ogni eroe è imperfetto” (471). Enea è meno bello di
Achille che dà in escandescenze.
II, 43, 1
Questi caduti furono tali da convenire alla città (proshkovntwς
th̃/ povlei ejgevnonto)
Le
hanno dato un vantaggio. Il sumfevron
vale quanto il kalovn. I vivi devono
seguire il loro esempio
II, 43, 2
Dando la loro vita per il bene comune hanno ricevuto una lode che non invecchia
(ajghvrwn e[painon ejlavmbanon) e
una tomba dove la gloria rimane indimenticabile, ma hanno quel sepolcro in cui
la loro fama rimane memorabile in ogni occasione che si presenta di parlare e di
agire. Infatti degli uomini illustri la terra intera è sepolcro (ajndrw'n
ga;r ejpifanw'n pa'sa gh' tavfo~).
Simonide elogia Leonida e i suoi opliti morti per ritardare l'avanzata di
Serse (fr.5 D.):
"dei
morti alle Termopili
gloriosa è la sorte, bello il destino,
un altare è il sepolcro (bwmo;~ d j o
tavfo~), e invece dei lamenti c'è il ricordo, e il compianto è un
encomio (oi\kto~ e[paino~)
Un sudario del genere né ruggine
Questo recinto sacro di uomini prodi si prese
come custode la gloria dell'Ellade: lo testimonia anche Leonida
re di Sparta che ha lasciato un grande ornamento
di valore, e fama perenne.
In
tempi moderni, oltre Leopardi che traduce letteralmente
bwmo;~ d j o tavfo~ con
"la vostra tomba è un'ara" (All'Italia , v.125), l'episodio torna
diverse volte nella poesia.
In quella ottocentesca italiana di spirito patriottico-risorgimentale: prima di
Leopardi, Foscolo nel carme Dei Sepolcri (98) ricorda che le tombe
erano "are a' figli".
Nell’Eracle di Euripide, il Coro dei vecchi Tebani dice: il valore delle
imprese nobili è l’ornamento dei morti (“gennaivwn
d j ajretai; povnwn toĩς qanoũsin
a[galma” (357-358).
II, 43, 3
Ogni terra è tomba degli uomini insigni il cui ricordo aleggia ovunque.
II, 43, 4
Considerate felicità la libertà e la libertà coraggio e non abbiate paura della
guerra.
Felicità invero è la coincidenza tra il nostro essere in potenza e il nostro
essere in atto. L’infelicità è lo squilibrio tra la potenza e l’atto.
II, 43, 5-6
Più
dolorosa della morte è la sventura con la debolezza morale.
II 44, 1
Morire può coincidere con essere felici. Quei morti hanno compiuto la vita
felicemente.
Cfr. La sapienza silenica
II, 44, 2-3-4
I
genitori dei morti devono consolarsi pensando alla gloria. I più giovani possono
avere la speranza di altri figli. La gloria non invecchia ed essere onorati è il
guadagno più grande
II 45, 1-2
I
morti hanno lasciato un grande esempio e una grande gara ai figli e ai fratelli
(oJrw̃
mevgan to;n ajgw̃na). Cfr. La
mentalità agonistica dei Greci.
Il
vanto delle donne sarà non essere inferiori alla loro natura, e buona sarà la
reputazione di quella la cui rinomanza in lode o biasimo sarà minima tra gli
uomini.
II, 46, 1-2
I
sepolti sono stati onorati e i loro figli saranno mantenuti a spese pubbliche.
Ora che avete pianto abbastanza, andate a casa.
II, 47, 1
Tale discorso cadde nell’inverno (431-430) e, passato questo, finiva il primo
anno di guerra.
Ultimo discorso di Pericle (II. 60-64) e giudizio di Tucidide sull’uomo
Nel
430 ci fu la seconda invasione (deutevra
ejsbolhv, 2, 59) dell’Attica da parte di Archidamo, quindi la peste (hJ
novso") che infuriava. Gli Ateniesi volevano venire a patti con i
Lacedemoni e accusavano Pericle di averli persuasi a fare la guerra.
Pericle dice che si aspettava la loro collera (ojrghv)
e per questo ha convocato l’assemblea (kai;
ejkklhsivan touvtou e{neka xunhvgagon, 2, 60). Dice che non è corretto
prendersela con lui.
Pericle ricorda di essere filovpoliς
te kai; crhmavtwn kreivsswn (II, 60, 5) amante della città e superiore
al denaro. La guerra è stata decisa da tutti.
La
guerra era necessaria per non cedere.
“
Io sono sempre il medesimo, dice, e non cambio “kai;
ejgw; me;n oJ aujtov" eijmi kai; oujk ejxivstamai”, ha un’identità
sicura, che non muta, mentre talora varua quella volubile del popolo. Ora voi
siete inficiati da debolezza di pensiero (ejn
tw'/ uJmetevrw/ ajsqenei' th'" gnwvmh"): vedete i mali presenti e non i
vantaggi lontani. La vostra mente è meschina
(tapeinh; uJmw'n hJ diavnoia) e non
ha la forza di tener duro (ejgkarterei'n)
nelle decisioni. Dovete pensare alla salvezza comune consolandovi dei lutti
privati. Atene ha il dominio assoluto del mare e nessuno puà ostacolarlo. La
terra devastata in confronto a tele dominio marittimo è come un giardinetto
khpivon o un oggetto ornamentale (ejgkallwvpisma,
2, 62, 3) fornitoci dalla nostra ricchezza. Se saremo sudditi di altri, ne verrà
limitata la libertà, se invece la salveremo, ricostruiremo ciò che abbiamo
perduto. Non dobbiamo apparire inferiori ai nostri padri (patevrwn
ceivrou") e andare contro i nemici non solo con sicurezza ma con
disprezzo (mh; fronhvmati movnon, ajlla;
kai; katafronhvmati). La iattanza, la vanagloria (au[chma)
può esserci anche in un vile, ma il disprezzo
katafrovnhsi" solo in chi ha fiducia
nella propria superiorità di cui ha la piena coscienza (hJ
xuvnesi").
Allora è giusto che non evitiate le fatiche necessarie agli onori (povnoi-timaiv
cfr. l’Iliade). Non potete tirarvi indietro dall’impero (ajrch'"
ejksth'nai, 2, 63).
wJ" turannivda ga;r h[dh e[cete aujthvn,
oramai l’avete come una tirannide, e averlo preso può sembare ingiusto, ma
lasciarlo sarebbe pericoloso. L’inerzia infatti non salva-to;
ga;r a[pragmon ouj swv/zetai se non è schierata con l’attività e non
conviene in una città che comanda ma in una che è suddita.
Gli
attacchi dei nemici erano previsti, la pestilenza no.
Bisogna sopportare come necessità (ajnagkaivw")
quello che viene dagli dei e virilmente (ajndreivw")
quanto viene dagli uomini, Questo è nell’
e[qo", nell’abitudine della nostra
città che ha una grandissima rinomanza tra gli uomini proprio perché non cede
alle sventure (dia; to;
tai'ς
xumforaĩς mh; ei[kein 64, 2)
e perché ha speso in guerra vite umane e fatiche. Per questo è diventata
ricchissima e grandissima. Saremo oggetto di biasimo dagli accidiosi, di
emulazione e invidia dalle persone attive. I più forti non si abbattono nelle
difficoltà e resistono con energia.
Il
popolo non mandò più ambascerie a Sparta ma multarono Pericle. Tuttavia lo
rielessero stratego. Morì due anni e sei mesi dopo lo scoppio della guerra, alla
fine del 429,
Tucidide apprezza Pericle: la sua provnoia,
gli faceva prevedere che bisognava curarsi della flotta e non correre rischi
(II, 65, 6-7).
Nella veduta tucididea la politica è l’arte della previsione.
Temistocle è l'eroe di questa
intelligenza laica: egli che "oijkeiva/
xunevsei" appunto, con la
sua facoltà di capire, era "tw'n te
paracrh'ma di j ejlacivsth" boulh'" kravtisto" gnwvmwn",
ottimo giudice della situazione presente attraverso un rapidissimo esame" e "tw'n
mellovntwn ejpi; plei'ston tou' genhsomevnou a[risto" eijkasthv""
(I, 138, 3), e ottimo a congetturare il futuro per ampio raggio in quello che
sarebbe accaduto. Prevedeva benissimo i danni o i vantaggi quando erano ancora
avvolti nell’oscurità: “tov te
a[meinon h] cei'ron ejn tw/' ajfanei' e[ti proewvra malista”.
"Per questo più che lo stesso
Pericle, è Temistocle il politico per eccellenza, il modello e insieme
l'ideale: colui nel quale l'
eijkavzein , il ricavare per
indizi dall'esperienza del passato l'orientamento per l'azione, è dote naturale
(oijkeiva xuvnesi"),
come Tucidide si esprime nel memorabile elogio che gli dedica al termine del
racconto della sua vicenda estrema"[55].
Dopo la sua morte, gli Ateniesi vennero fuorviati dai demagoghi
Tucidide fa l'elogio finale di
Pericle dicendo che lo statista, per il fatto di essere chiaramente e
assolutamente incorruttibile dal denaro (crhmavtwn
te diafanw'~ ajdwrovtato~[56]
genovmeno~ , II, 65, 8)
, teneva in pugno la massa
lasciandola libera ("katei'ce to;
plh'qo" ejleuqevrw"").
“plh`qo~
sono i cittadini che formano la massa dell’assemblea popolare, la parte più
“democratica” del popolo, in contrapposizione con correnti più conservatrici o
anche oligarchiche”[57].
Pericle era dunque superiore al
denaro. Plutarco scrive che rese la città da grande grandissima e superò in
potere molti re e tiranni, ma non accrebbe di una sola dracma il suo patrimonio
privato, quello ricevuto in eredità dal padre: “miã/
dracmh̃/ meivzona th;n oujsivan oujk
ejpoivhsen” ( Vita,
15, 3)
Confronto tra Pericle e Alcibiade
che non realizzò i piani del suo predecessore.
Verso la fine delle Storie
di Tucidide si legge che Alcibiade, quando (nel 411) la flotta di Samo si
accingeva a navigare contro Atene, fermò i marinai nel momento in cui nessun
altro sarebbe stato capace di trattenere la folla:"kai;
ejn tw'/ tovte a[llo" me;n oujd j a]n ei\~ iJkano;" ejgevneto katascei'n
to;n o[clon"(VIII, 86, 5);
egli però fu responsabile dell'impresa fallimentare di Sicilia che, a giudizio
di Tucidide, fu "peggio di qualsiasi delitto; fu un errore politico o meglio una
serie d'errori"[58].
Sulla vita privata non
irreprensibile di Alcibiade, Tucidide afferma che aveva desideri troppo grandi
rispetto alle sue ricchezze, sia per l'allevamento di cavalli sia per le altre
spese:" ejpiqumivai" meivzosin h]
kata; th;n uJpavrcousan oujsivan ejcrh'to e[" te ta;" iJppotrofiva" kai; ta;"
a[lla" dapavna""(VI 15, 3);
e, per questo essendo criticabile, non poteva permettersi a lungo l'arroganza
con cui diceva:"Kai; proshvkei moi
ma'llon eJtevrwn, w\ jAqhnai'oi, a[rcein"(VI
16, 1), spetta a me Ateniesi, più che ad altri comandare.
Pericle poteva contrastare il
dh'mo"
fino a spingerlo all'ira (kai; pro;"
ojrghvn, II, 65, 8) poiché
era inattaccabile nelle questioni di denaro:"ciò gli dava l'autorità di dire al
popolo la verità, anziché piaggiarlo. Egli ebbe sempre le redini in pugno: se la
moltitudine voleva romper la cavezza, egli sapeva imporlesi e intimidirla; se
era abbattuta, sapeva rianimarla. Così Atene sotto di lui, "non era più una
democrazia che di nome, ma in realtà era l'imperio del primo uomo"[59].
Tucidide usa un'espressione ( "
ejgivgnetov te lovgw/ me;n
dhmokrativa, e[rgw/ de; uJpo; tou' prwvtou ajndro;" ajrchv",
II, 65, 9) per la quale Jaeger nota che "la teoria filosofica posteriore, della
costituzione mista quale ottima forma di Stato, è qui anticipata da Tucidide. La
"democrazia" ateniese non è per lui la realizzazione di quell'esteriore
eguaglianza meccanica che gli uni esaltano quale apice della giustizia, gli
altri condannano quale suo opposto"[60].
La democrazia ateniese del tempo di
Pericle, nel discorso epitafico di Aspasia riferito da Socrate nel Menesseno
di Platone è un’aristocrazia con il consenso della massa: “met
j eujdoxiva~ plhvqou~ ajristokrativa”
(238d).
Costituzione mista fu per Tucidide
quella del governo dei 5000 del 411. La definisce infatti
metriva xuvgkrasiς,
misurata mescolanza di oligarchia e democrazia (VIII, 97, 2)
Canfora scrive di “ Il
meccanismo della circolarità masse-capi….Il demo crede di imporre il proprio
volere ma è il capo che lo pilota, anche attraverso i “retori minori”…Quella
circolarità riemerge, sulla scala dei millenni, ogni volta che un moto di
popolo, un ridestarsi del “popolo”, prende corpo e dà forma a uno Stato”[61].
Alexis De Tocqueville nota che
“Atene, con il suo suffragio universale, non era dunque, dopotutto, che una
repubblica aistocratica in cui tutti i nobili avevano eguale diritto di governo”[62].
Era insomma una aristocrazia democratica, e, per certi versi, socialista.
“Pericle è considerato in
particolare come colui che “reggeva saldamente la folla, pur nella libertà, e la
guidava più di quanto non fosse da essa guidato” (II 65, 8), colui che aveva
trasformato, quasi insensibilmente e senza pregiudizio alcuno per i cittadini,
la democrazia vigente ad Atene in una sorta di regime personale: “a parole si
trattava dunque di una democrazia, ma in realtà del governo del primo cittadino”
(II 65, 9). Approvare in pieno e con entusiasmo la politica periclea, per un
ateniese del tempo di Tucidide, significava sostanzialmente accettare le due
realtà che ne costituivano le emanazioni più dirette: il regime democratico e
l’impero. Qualche riserva, tuttavia, Tucidide esprime sia sulla politeia
democratica, sia sul ruolo imperiale della città. Per quanto riguarda la
democrazia, la questione è abbastanza semplice: lo storico manifesta con
insistenza giudizi negativi e talvolta vero e proprio disprezzo nei confronti
delle masse, che gli appaiono incompetenti, incostanti e volubili (cfr. II 65,
4; IV 28, 3; VIII 97, 2); di conseguenza, la sua adesione ad un regime che
prevedeva e consentiva di fatto la partecipazione di tutti i cittadini al
governo dello Stato era necessariamente subordinata alla esistenza di una
qualche forma di controllo delle forze popolari. Uno dei grandi meriti di
Pericle era stato appunto quello di avere esercitato una funzione di controllo
sulla massa.
Il giudizio espresso a proposito
del governo dei Cinquemila instaurato nel 411 a. C. costituisce un preciso
riscontro a questa interpretazione della posizione politica di Tucidide: “allora
per la prima volta, almeno per quanto riguarda i miei tempi, gli Ateniesi
risultarono retti da un governo assai buono. Si ebbe, infatti, una moderata
combinazione fra gli oligarchici e la massa e ciò contribuì più di ogni altra
cosa a sollevare la città da una situazione che era diventata brutta” (VIII 97,
2).
Morto Pericle , vennero alla
ribalta personaggi che non solo non erano in grado di esercitare alcuna funzione
di controllo, ma subivano anche forti condizionamenti dalla massa ed erano più
inclini a compiacerla per soddisfare le ambizioni personali che a contrastarla
per salvaguardare i superiori e generali interessi dello Stato (II 65, 10).
“Soltanto un regime di democrazia
moderata o di oligarchia allargata, che comportava l’estromissione dalla vita
politica di una parte consistente della cittadinanza sulla base dell’assenza
della necessaria qualificazione censitaria, poteva incontrare l’approvazione e
il plauso di Tucidide”[63].
La guerra dunque fu persa per la
mancanza di Pericle, il vero capo nell'antico senso solonico, mentre i suoi
successori commisero una serie di sbagli, soprattutto quello di fare la
spedizione in Sicilia:" hJmarthvqh
kai; oJ ej" Sikelivan plou'""(II
65, 11) senza avere assegnato a chi partiva i mezzi sufficienti. Per giunta
seguirono calunnie e discordie tra gli Ateniesi. Eppure, dopo la catastrofe
siciliana, Atene resistette per dieci anni ai tanti nemici, a quelli di prima, e
a quelli che si aggiunsero in seguito alla sconfitta, compreso il figlio del re
di Persia, Ciro (il Giovane) :" o}"
parei'ce crhvmata Peloponnhsivoi" ej" to; nautikovn"
(Tucidide, II 65, 12) il quale forniva ai Peloponnesiaci il denaro per la
flotta, fatto che segnò la fine della guerra e, dal punto di vista della
letteratura, che è il nostro, provocò la chiamata a raccolta di tutte le energie
contro i Persiani da parte di Euripide nell'Ifigenia in Aulide in
particolare, quando la ragazza proclama la necessità della guerra santa contro i
barbari di Oriente (vv. 1397-1401 che vedremo più avanti).
Isocrate: “e[sti ga;r yuch; povlewς
oujde;n e{teron h] politeiva, tosauvthn e[cousa duvnamin o{shn per ejn
swvmati frovnhsiς.
Au{th gavr ejstin hJ bouleuomevnh peri;
aJpavntwn kai; ta; me;n ajgaqa; diafulavttousa, ta;ς
de; sumfora;ς
diafeuvgousa» (Areopagitico[64],
14), infatti la costituzione non è altro che l’anima della città, in quanto ha
una potere tanto grande quanto la mente sul corpo. E’ lei infatti che decide su
tutto, conserva i successi, evita le congiunture negative
giovanni ghiselli, Bologna 25
ottobre 2015
Nel febbraio del 2013 ho
aperto un blog
che è arrivato a 278022 contatti
Riferisco il numero dei contatti
superiori a 300 in Italia e nei paesi esteri
talia
|
130336
|
Stati Uniti
|
129139
|
Federazione Russa
|
2758
|
Germania
|
2389
|
Regno Unito
|
2187
|
Francia
|
1256
|
Ucraina
|
1242
|
Svizzera
|
498
|
Paesi Bassi
|
347
|
Cina
|
327
|
Stati Uniti
|
945
|
Italia
|
457
|
Federazione Russa
|
76
|
Norvegia
|
24
|
Portogallo
|
18
|
Francia
|
10
|
Germania
|
8
|
Brasile
|
6
|
Regno Unito
|
6
|
Ucraina
|
5
|
Continua
Giovanni ghiselli
Esporrò questo percorso il 24 giugno alle 18, 30, in piazza Verdi a Bologna
[1]
M.Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, p. 30.
[2]
Nel secondo canto del poema più antico, Odisseo, simile a Zeus per
intelligenza (Διὶ μῆτιν ἀτάλαντον,
v. 169) riceve da Atena il compito di trattenere la fuga dell’esercito
acheo da Troia con blande parole (ἀγανοῖς ἐπέεσσιν,
v. 180). La dea per rivolgersi all’eroe utilizza un epiteto formulare (πολυμήχανος,
v. 173, ricco di risorse) il quale lo caratterizza come uomo
intelligente e capace.
[4] Fu
scoperto da Fedime, figlia di Otane. Ciro aveva fatto mozzare gli
orecchi del Mago Smerdi per una grave colpa (III, 69) e Fedime, che il
falso Smerdi aveva ereditato come moglie da Cambise, una notte si
accorse di questa mutilazione, quindi lo riferì al padre che le aveva
ordinato di scoprirla.
Il vero Smerdi, figlio di Ciro e fratello di Cambise, lo aveva ucciso
Pressaspe per ordine dello stesso Cambise che aveva fatto un sogno
ingannevole. Cambise era morto dopo essersi ferito, involontariamente,
da solo. Pressaspe dopo morte di Cambise si era ucciso, e il Mago Medo
Smerdi aveva usurpato il potere persiano
I Sette nobili persiani conosciuta l’usurpazione, si riunirono per
congiurare contro l’usurpatore (III, 70)- Dario è il più deciso dei
Sette e vuole agire subito.
Otane vorrebbe prendere tempo ma Gobria appoggia la proposta di Dario :
siamo comandati da un Medo, dice
kai; touvtou w\ta oujk e[contoς
(III, 73) e uno senza orecchi. Per giunta Cambise morendo aveva lanciato
una maledizione di sterilità se avessero lasciato che i Medi
riprendessero il potere ( cfr. III, 65). Allora tutti approvarono
Gobria. I Magi cercarono di far dichiarare a Pressaspe, il quale aveva
ucciso il vero Smerdi per ordine di Cambise, che la Persia era
governata dal figlio di Ciro. Speravano che lo facesse perché Cambise
aveva ucciso il figlio di Pressaspe con un colpo di freccia e quindi il
padre doveva odiare gli Achemenidi. Ma Pressaspe disse la verità: che
lui per ordine di Cambise aveva ucciso Smerdi e che i Magi avevano preso
il regno. Poi si uccise. I Sette andarono alla reggia dove poterono
entrare dato il loro rango. Poi ci fu una battaglia: Intafrene perse un
occhio. Dario uccise il Mago.
[5] Otane,
Intafrene, Gobria, Megabizo, Aspatine, Idarne, Dario
[6]
Erodoto, Le Storie, libro III, La Persia, Fondazione
Valla, Milano, 1990, p. 297.
[7] L.
Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, p. 17.
[9] Il
tiranno è invidioso. Infatti L'Invidia personificata da Ovidio "exurit
herbas et summa papavera carpit" (Metamorfosi, II, 792),
dissecca le erbe e stacca le cime dei papaveri.
[10] S.
Màrai, La recita di Bolzano, p. 20.
[11] Del
98 d. C.
[12]D.
Lanza, Il tiranno e il suo pubblico., p. 47.
[13]De
Catilinae coniuratione , 7.
[14]
a[rcein.. xu;n fovboisi
(v. 585), già citato
[15]C. M.
Bowra, Mito E Modernità Della Letteratura Greca , p. 170.
[16]
Il quale ridusse a unità il popolo dei Medi e lo governò. (Erodoto,
Storie, I, 101). Venne scelto come re dotato di potere assoluto
poiché era stato capace di porre termine alle ruberie e ai disordini con
i suoi giudizi (Erodoto, I, 96 ss.) (ndr)
[17]Coefore
461:" [Arh" [Arei xumbalei',
Divka/ Divka".
[18]S.
Mazzarino, Il pensiero storico classico , I, p. 175.
[19] Moses
I. Finle, La democrazia degli antichi e ei moderni, p. 26.
[20] G.
Orwell, 1984, p. 219.
[21] D.
Musti, Storia greca, p. 447.
[22]Participio
perfetto medio di keivrw.
[23]Canfora,
Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica , Volume I, Tomo II, p.
835.
[24]
Temistocle a Salamina (480)
[25]
Socrate nel Fedro afferma che probabilmente Pericle è stato il
più perfetto nell’oratoria.
[26]
Nel 427, Diodoto
parlando contro Cleone, dice che i discorsi sono maestri dei fatti (lovgoi
didavskaloi tw`n pragmavtwn
Tucidide,
III, 42, 2)
[27]
Svetonio ricava il famoso “il dado è tratto” da Asinio Pollione
[28]
L’occasione è necessario acciuffarla poiché è “calva di dietro”.
[29]
Ma l’aujtavrkeia assoluta
non è possibile come capisce il
Duvskoloς di Menandro quando cade in un pozzo (“credevo di
essere aujtavrkhς”, 713
ss.). Ha voluto pensarlo
vedendo l’egoismo degli altri, l’attenzione che tutti rivolgono al
profitto. Era regredito in una esistenza precivile da Ciclope
[30] L.
Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia , p. 15 e
p. 33.
[31]
Lettera a una professoressa, p. 55.
[32] M.
Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, p. 21 n. 2.
[33] Del
411 a. C.
[34] Forma
poetica equivalente a kevkthtai.
[35]Rappresentata
poco tempo dopo lo Ione. Tratta la guerra dei Sette contro Tebe.
[36]
Cfr.
ajnivhmi,
“lascio ”, indica la sovrana negligenza del genio che non deve
prepararsi con duro esercizio ma può improvvisare, o almeno sa dare
questa impressione. Cfr. l’ajmevleia
dell’Anonimo Sul sublime e la sui neglegentia di Petronio (Annales,
XVI, 18)
[37]
Scritto socratico in
quattro libri che presenta il maestro come un uomo probo e onesto,
rispettoso della religione e delle leggi, valida guida morale nella vita
pratica
[38]
Nell’ Epistola a Meneceo Epicuro scrive che, tra i
desideri (tw'n ejpiqumiw'n),
alcuni sono naturali (fusikaiv),
altri vani (kenaiv) e tra i
naturali alcuni sono anche necessari (ajnagkai'ai,
127); ebbene tutto ciò che è naturale è a portata di mano:"to;
me;n fusiko;n pa'n eujpovristovn ejsti” (130) . Ciò che è vano
invece è difficile da procacciarsi:
to; de; keno;n duspovriston.
[39] E'
comunque necessario concedere qualche intervallo a tutti:"Danda est
tamen omnibus aliqua remissio" Inst., I, 3, 8.
.
[40] Dove
i pueri manifestano più schiettamente le inclinazioni di
ciascuno:"mores quoque se inter ludendum simplicius detegunt "
Quintiliano, Institutio oratoria., I, 3, 8.
[42] Cfr.
l’ajpeirokaliva degli
arricchiti come Trimalchione e quella di certi pezzenti televisivi o
pure della vita quotidiana: quelli che vantano e spesso millantano
millantano vacanze a Cortina e soggiorni in suite di alberghi
prestigiosi. Io mi vanto delle mie notti negli ostelli di Olimpia e di
Micene dove arrivo in bicicletta.
[43]
Cfr. la tradizione
elegiaca latina dove l’amore sottrae il poeta ai negotia del
civis e del miles, collocandolo nella nequitia,
inettitudina, di chi si sottrae ai doveri politici e militari
[44]
Celeberrima è la definizione aristotelica dell'uomo quale
fuvsei
politiko;n zw'/on, l'uomo
per natura è animale politico e chi vive fuori dalla comunità, per
natura e non per qualche caso, non vale nulla oppure è superiore
all'umano ("fau'lov" ejstin h]
kreivttwn h] a[nqrwpo"", Politica , 1253 a).
[45]
Quello che rifiutava i classici. Evidentemente glieli facevano male.
[46]
F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, p. 668. Cito spesso questo
romanzo, tante volte quante l’Odissea, o quasi. Mi conforta in
questa scelta l’amico Piero Boitani: “Per il mio compleanno, sul finire
di quell’anno 1’anno 1968…mi feci regalare da una coppia di amici l’Odissea
greca nell’edizione oxoniense dell’Allen: la conservo ancora,
naturalmente, con il loro biglietto di auguri per segnalibro. Da allora,
e per almeno dieci anni, ho riletto il poema, nell’originale e in
traduzione italiana o inglese, ogni anno: insieme ai Fratelli
Karamazov, era il mio libro-e lo è rimasto” (P. Boitani, L’ombra
di Ulisse, p. 45).
[47] F.
Nietzsche, Considerazioni inattuali III (1874), Schopenhauer
come educatore, p 167.
[48] F.
Nietzsche, Frammenti postumi, Primavera 1888-14
[49]Pohlenz,
La Stoa , p. 33.
[50]Psicanalisi
Della Società Contemporanea , p. 299.
[51] In
dimetri anapestici (quattro piedi anapestici). Sono monometri (due piedi
anapestici) i versi 317, 328, 379.
[52]
G. B. Conte, op. cit., p. 346.
[53]Di
là dal bene e dal male , Che cosa è aristocratico, 272
[54]
Nella prima scena di Love’s Labour’ s lost (del 1595) Ferdinando
re di Navarra definisce il tempo “cormorant devouring Time” (I,
1), il cormorano che ci divora.
In Pericle, principe di Tiro (1608) “Time ‘s the king of men;/He’s
both their parent and he is their grave,/And gives them what he will,
not what they crave” (II, 3), il Tempo è il re degli uomini, è
insieme il loro padre e la loro tomba, e dà loro ciò che vuole, non
quello che essi desiderano.
[55]Canfora
,Antologia Della Letteratura Greca , II vol., p. 459.
[56]
Si pensi ai
basilh'~ dwrofavgoi,
i re divoratori di doni, cui Esiodo chiede di raddrizzare i giudizi (Opere,
263-264).
[57]
Avezzù, Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 216.
[58]Jaeger,
Paideia , I vol., p. 677.
[59]
Jaeger, op. cit., p. 680.
[60]Op.
cit. p. 684. La
costituzione è un nutrimento di uomini (trofh;
ajnqrwvpwn), di
persone
buone, se è buona, di
individui malvagi se è cattiva.
Quella ateniese ha nutrito
uomini di valore.
p. 198
Essa non esclude nessuno
per debolezza sociale, né per povertà, né per oscurità dei padri; e
neppure preferisce alcuno per i motivi contrari. I medesimi pregi
vengono attribuiti alla “sua” democrazia dallo stesso Pericle nel
discorso che gli attribuisce Tucidide in Storie II 35 sgg. quando
lo stratego fa l’encomio dei caduti nel primo anno di guerra e l’elogio
di Atene, la scuola dell’Ellade (II, 41)
[61]
Luciano Canfora, Legge o natura? In
NOMOS BASILEUS, p. 59
[62] La
democrazia in America, p. 479
[63] Mauro
Moggi, Op. cit., p. 2303-2304.
[64] Il
principale scritto di politica interna di Isocrate, del 356 a. C.
Propone di restituire all’Areopago i poteri di tutela sulla vita
politica che aveva prima della riforma di Efialte (461 a. C.). Ne
abbiamo una traduzione di Leopardi
[65] .
Celeberrima è la definizione aristotelica dell'uomo quale
fuvsei
politiko;n zw'/on, l'uomo
per natura è animale politico e chi vive fuori dalla comunità, per
natura e non per qualche caso, non vale nulla, oppure è superiore
all'umano ("fau'lov" ejstin h]
kreivttwn h] a[nqrwpo"", Politica , 1253 a).
Nessun commento:
Posta un commento