Cicerone |
La tradizione della
scuola (p. 494)
Giasone, nipote di Posidonio, assunse la direzione della
scuola di Rodi dopo la morte dello zio. Panezio e Posidonio avevano attaccato
Crisippo, la colonna dell’ortodossia. Per esempio con l’universalità del sapere.
Panezio diede valore alla conoscenza pura e la inserì tra le virtù cardinali
come parte della frovnhsi",
la virtù teoretica. Del resto anche le virtù pratiche avevano alcunché di
teoretico.
Nel De legibus Cicerone utilizza la teoria stoica del
diritto naturale. La giustizia non è altro che una manifestazione della vita
secondo natura, una tesi che appare molto vicina alla definizione del fine
della vita data da Antipatro.
Rispetto alla Stoà antica la quale pensava che l’uomo alla
nascita è una tabula rasa con la disposizione a formare i concetti, Cicerone
nel primo libro delle Leggi
introdusse la variante che l’uomo venendo al mondo ha nella sua anima i
concetti di tutte le cose, non chiari, tuttavia inchoatae, adumbratae
intelligentiae, incompiute, ancora in ombra.
Ricordava forse la teoria platonica dell’anamnesi, il
ricordo delle idee archetipe. Ma può averlo ricavato da Antipatro.
Posidonio e Panezio citavano spesso Platone che così fu
studiato da tutti gli altri stoici. Catone poco prima di uccidersi aprì il Fedone.
Ci furono polemiche all’interno della Stoà, ma a questa
scuola continuarono a volgersi quanti non trovavano appagamento nell’egoismo e
nell’edonismo (511).
A Roma la retorica aprì la strada alla riflessione
filosofica. La dialettica stoica con le sue definizioni precise e lasua
sillogistica rigorosa apparve una sorta di oratoria compressa e fu considerata
una propedeutica all’educazione retorica. Il retore più geniale è l’Anonimo Sul
sublime. La magnanimità megalofrosuvnh trova la sua eco in uno stile sublime e solo
l’oratore commosso dalle grandi cose che scrive può trascinare l’uditorio
comunicandogli la sua commozione. Le suggestione posidoniane sono innegabili, soprattutto
dove il sublime viene individuato nelle parole della Genesi: sia fatta luce e la fuce fu fatta.
Cicerone prese maggiori spunti dall’Accademia.
Il primato della Stoà nella filosofia p. 515 - 533
L’epicureismo fece meno proseliti.
La Stoà a Roma p. 535
I Romani erano alieni dal filosofare e piuttosto interessati
agli scopi pratici. Legge suprema non era il sapere ma la volontà. Non qewriva (cfr.
qeva,
visione, vista) la contemplazione fine a se stessa era loro estranea. Lo scopo
era l’utile. Si dedicavano con impegno ai doveri concreti senza sentirsi stimolati
a risalire all’universale. Pensavano che su ogni azione vegliasse un dio e che
bisognasse propiziarlo: dispensa, semina, raccolto. Sono gli dèi istantanei,
tipo Rumīna, la deadell’allattamento.
Dei non simili agli
uomini e non fusi in una sola unità. I Romani avevano uno spiccato senso
dell’ordine, della legge, della disciplina che li predispose al pensiero
giuridico e alla creazione di quel diritto positivo che avrebbe fatto da
modello a tutto l’Occidente. Nella legislazione si basavano su formulazioni
giuridiche convalidate dalla prassi e conservate dagli editti del pretore. Alla
formulazione del diritto contribuì la tradizione etica, ossia il mos maiorum.
In Grecia, un potente individualismo si ribellava al nomos
che minacciavadi ostacolarlo, mentre a Roma anche i rivoluzionari si
appellavano a leggi magari cadute in disuso.
I Gracchi dopo tutto volevano ripristinare la piccola proprietà
agraria che stava scomparendo .
Un valore do cui erano orgogliosi i Romani era la pietas
che riguardava i rapporti con la divinità, la famiglia, il prossimo. Poi la
giustizia che insegnava a rispettare lo ius, poi la fides, la
lealtà che fa nascere la fiducia, la laboriosià, la parsimonia, la semplicità,
la capacità di resistere, non abbandonare il proprio posto in battaglia. Tale
era la virtus e tale il vir.
Il vir bonus era
tale per la virtus che assommava
tutte le qualità.
Catone definì l’oratore vir bonus dicendi peritus (in
Quintiliano, XII, 1)
Il cittadino doveva mettere le sue energie al servizio della
res publica, un termine che si
affermò intorno al 200 a. C
La moralità dell’azione si misura con il riconoscimento che
ottiene dal popolo. Morale è quanto la collettività riconosce come honestum.
Il fine della virtus è ottenere gli honores,
le cariche pubbliche che il popolo assegna a chi si è dimostrato ottimo fra gli
uomini.
Tutto questo rimase finché i Romani non vennero a contatto
con la grecità la quale diede loro i modelli della letteratura. I Greci
mandarono cuochi, etere e anche molti pedagoghi, Sopravvenne una crisi
spirituale. Atene l’aveva avuta 3 secoli prima. Le autorità prima indiscusse
persero valore.
Dapprima sentirono il pericolo della filosofia: nel 173
furono cacciati due filosofi epicurei. Ma nel 155 Catone ascoltò Carneade il
quale diceva che la politica estera dei Romani era fondta sull’ingiustizia. Poi
però si adoperò per rispedirlo in patria con gli altri due: lo stoico Diogene e
il Peripatetico Critolao.
I Romani per combattere la cavillosa dialettica degli altri
pensatori greci scelsero la filosofia stoica che poteva fornire una base salda
alle concezioni etiche tradizionali.
Per la positività dei
Romani, il razionalismo della Stoà era la forma di pensiero più adatta. Era
loro congeniale che nel mondo e nell’individuo regni la ragione, che una
provvidenza divina abbia dato forma all’universo finalisticamente, che le
singole divinità siano manifestazioni della divinità universale, che dèi e
uomini formino insieme un’unica comunità naturale e che la virtus sia il compito della vita. Scoprivano che la virtus garantiva la vita beata, eujdaimoniva.
Invece al romano ripugnavano le sottigliezze dialettiche e il dottrinarismo.
Allora arrivò Panezio il quale trasformò la dottrina stoica in un’arte del
vivere adeguata allo spirito occidentale (cfr. la socialdemocrazia rispetto al
comunismo marxista, con Marx ebreo come Zenone).
Per giunta Panezio incontrò Scipione che univa la tradizione
romana alla disposizione ad accogliere la cultura greca. Panezio insegnò a
Scipione che la moralità è il compiuto sviluppo della natura umana universale e
individuale. La tradizionale aspirazione romana al primato deve trasformarsi in
megaloyuciva,
una grandezza d’animo da porre al servizio della comunità. Ai Romani piacque
lìideale della condotta basata sulla coerenza assoluta. Per loro il kalovn, il
bello morale equivaleva all’honestum che comprendeva il desiderio degli honores.
Honestus è colui che con le sue caratteristiche
morali e il suo operato merita gli honores. Poi il kaqh'kon
che corrisponde a officium, quello che si deve fare di norma.
Tiberio Gracco seguiva Blossio scolaro di Antipatro, e
l’antica teoria dell’uguaglianza degli uomini, mentre Panezio insegnava la
santità della proprietà privata e contro Carneade difendeva l’imperialismo
romano che però assicurasse il benessere dei popoli soggetti
Scipione fu per Panezio il modello dell’uomo perfetto, un
uomo molto diverso da quello che era il vero romano secondo Catone: il
contadino legato alla zolla.La sua sentenza forse più famosa è rem tene, verba sequentur, e mostra la
preminenza data alla res, alla
materia del discorso rispetto all’elocutio,
alla sua realizzazione formale.
CONTINUA
Giovanna Tocco
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