Pierre Peyro, La morte di Alcesti |
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Il potere assoluto
dell' jjjjAnavgkh verrà apertamente affermato da Euripide
nell'Alcesti. Nel terzo Stasimo della
tragedia più antica ( è del 438) tra le diciassette a noi pervenute, il Coro
eleva un inno alla Necessità vista come la divinità massima, quella che vincola
e subordina tutti, compresi gli dèi:
"Io attraverso
le muse/mi lanciai nelle altezze, e/ho toccato moltissimi ragionamenti (pleivstwn
aJyavmeno" lovgwn),/ma non
ho trovato niente più forte/della Necessità né alcun rimedio (krei'sson oujde;n jAnavgka"
- hu|ron oujdev ti favrmakon)/nelle
tavolette tracie che scrisse la voce di/Orfeo, né tra quanti rimedi/diede agli
Asclepiadi Febo/dopo averli ricavati dalle erbe come antidoti/per i mortali
afflitti dalle malattie"(vv. 962 - 972). Da questi versi si vede che la Necessità è più forte
del lovgo" , della poesia, dell'arte medica.
E ancora: la Necessità non è meno
forte di Zeus: “kai;
ga;r Zeu;~ o{ti neuvsh/ - su;n soi; tou'to teleuta'/” (Alcesti,
978 - 979), e infatti qualunque cosa Zeus approvi, con te (la Necessità ) lo porta a
compimento, le dice il coro dei vecchi di Fere.
Nella Prefazione al
romanzo Notre - Dame de Paris, Victor
Hugo scrive che “rovistando all’interno di Notre - Dame…trovò in un recesso
oscuro di una delle torri, questa parola incisa a mano sul muro:
ANAGKH”
Ebbene, conclude la prefazione: “Proprio su quella
parola si è fatto questo libro.
Marzo 1831” .
Alcuni versi prima,
nel terzo episodio, Eracle aveva affermato l’impotenza della tevcnh nei confronti della tuvch: “non è chiaro dove procederà il passo della
sorte (to;
th'" tuvch"), e non è
insegnabile (ouj
didaktovn) e non si lascia
prendere dalla tecnica (oujd j aJlivsketai tevcnh/ )” ( Alcesti, vv. 785 - 786)
Prometeo, che toglie
agli uomini la visione del destino e dona loro il pane terrestre, si comporta
come il grande Inquisitore della
leggenda di Ivan Karamazov il quale racconta ad Alioscia questo suo
poema composto solo mentalmente. Il redentore era affamato dopo quaranta
giorni e quaranta notti di digiuno. Il diavolo gli disse."Si Filius Dei
es, dic, ut lapides isti panes fiant "[1], se
sei figlio di Dio, di' che queste pietre divengano pani". E Cristo
rispose."Non in pane solo vivet homo, sed in omni verbo, quod procedit
de ore Dei " (4, 4), non di solo pane vivrà l'uomo ma di ogni parola
che viene dalla bocca di Dio. Ebbene l'Inquisitore rinfaccia al Redentore
questa scelta:"Ma Tu non hai voluto togliere all'uomo la libertà e hai
respinto la proposta…La Tua
risposta fu che l'uomo non vive di solo pane; sai Tu, però, che in nome di
questo pane quotidiano si solleverà contro di te lo spirito della terra ed
entrerà in lotta con Te e Ti vincerà, e tutti lo seguiranno…Si persuaderanno
pure che non potranno mai essere liberi, perché sono deboli, viziosi,
miserabili e ribelli. Tu hai promesso loro il pane celeste, ma - lo ripeto
ancora - come potrebbe esso tornar gradito quanto il pane terrestre, agli occhi
della debole, eternamente viziosa e ignobile razza umana?".
Solo pochi essere forti e grandi sono capaci
di intendere e seguire il Cristo. La gran parte dell'umanità non può capirlo.
Né Lui può comprendere questa moltitudine. "A noi - continua il Grande
Vecchio - invece, sono cari i deboli. Essi sono depravati e ribelli, ma,
infine, i più obbedienti sarannno proprio loro. Essi ci ammireranno e ci
considereranno come altrettanti dei, per aver consentito, dopo esserci messi
alla loro testa, a prendere sulle nostre spalle il carico della libertà, della
quale essi hanno avuto paura, e per aver consentito a dominarli; tanto tremendo
finirà col sembrar loro l'essere liberi!…Per l'uomo rimasto libero non esiste
una preoccupazione più assillante e tormentosa che quella di trovare al più
presto qualcuno davanti al quale prosternarsi". [2]
Secondo Snell anche
Prometeo si sobbarca il peso colossale della libertà"Nella
contrapposizione di tevcnh e ajnavgkh viene data una concisa formulazione al
conflitto tra conoscenza e fato, tra agire e soffrire, tra libertà e
costrizione, che si trova pure nelle precedenti tragedie. Il peso della libertà
è qui più grave che in tutte le opere anteriori…Poiché l’ambito, al quale il
personaggio si sente legato e per il quale s’impegna, si è così smisuratamente
allargato, ora la responsabilità pesa unicamente su di lui"[3].
E. Severino dà
un’altra interpretazione“La somma potenza produttiva e distruttiva non è la tevcnh ma la Necessità : la tevcnh è il mezzo, lo strumento attraverso il quale la Necessità stabilisce la
sorte dell’uomo. Anche per Eschilo ajnavgkh
è Divkh: divkh è
lo stesso apparire (divkh, deivknumi) di ajnavgkh. E la coscienza di questa necessità è la
somma sapienza della filosofia”[4].
Secondo Severino in questa tragedia sarebbe
preannunciato il passaggio dallo Zeus del mito allo Zeus filosofo:” Eschilo
apre la strada all’intera tradizione filosofica dell’Occidente…Eschilo sta
dunque portando alla luce la differenza tra lo Zeus del mito e lo Zeus che è la
forma più alta dell’essere ed è il contenuto del culmine della sapienza, cioè
del dei`xai
safw`~ della filosofia: lo Zeus
che, come Prometeo, non è più dominato dalla u{bri~ ma dal culmine della sapienza, è dunque lo Zeus filosofo” (p. 125 - 126).
Prometeo nell’esodo afferma di avere Zeus in
pugno poiché, sebbene sia un tiranno aujqavdh~ (v. 907), narcisista, sta per celebrare delle nozze[5] che lo sbalzeranno dal trono secondo la
maledizione di Crono. Nessuno degli dei tranne me, aggiunge il Titano, potrebbe
indicargli una via di scampo da tali travagli con chiarezza: “toiw`nde movcqwn
ejjktroph;n oujdei;~ qew`n - duvnait j a]n aujtw`/ plh;n ejmou` dei`xai safw`~” (vv. 913 - 914).
Severino interpreta
questo dei`xai
safw`~ come il “culmine della
sapienza”. Egli assimila a questa espressione del Prometeo incatenato il “frenw`n to; pa`n[6] dell’Agamennone
di Eschilo (v. 175), in entrambi i casi “il culmine della sapienza” che poi
sarà chiamata filosofia”[7].
Invero si tratta di safev~ , ma anche se si trattasse di sofo;n , "to; sofo;n d jjj ouj sofiva" il sapere non è sapienza, come afferma nelle Baccanti (v. 395) di Euripide il coro, e comunque il
sapere di Prometeo non è la sapienza di Zeus.
Vediamo nel
dettaglio quali
sono i doni del Titano alla razza umana. Innanzitutto egli rubò e donò ai
mortali il fulgore del fuoco, padre di tutte le tecniche:"pantevcnou puro;" sevla" , - qnhtoi'si klevya" w[pasen[8]"
(vv. 7 - 8). Il fuoco era fiore di Efesto (to; so;n ga;r
a[nqo"
, v. 7), ricorda Cratos, Dominio, uno dei due[9]
sgherri di Zeus, a Efesto stesso che, pur impietosito, si accinge a inchiodare
il Titano a una rupe della Scizia.
Il
primo peccato di Prometeo è stato quello antiapollineo di avere tentato di
annientare il principium individuationis che deve differenziare
gli uomini dagli dèi.
A proposito di Dioniso e del principium
individuationis, si pensi alle Baccanti:
“ come il principio d’individuazione a cui l’uomo si aggrappa è una fragile ma
rassicurante barriera che gli consente di essere e di pensarsi, così la
tentazione di confondersi nuovamente con le primordiali forze della natura
agisce pericolosamente sulla sua anima[11].
Stringere i legami tra sé e gli altri, scavalcare la barriera degli anni, che
divide i giovani e i vecchi (come nella tragedia accade a Tiresia e Cadmo),
superare le differenze sociali: ecco il richiamo che il culto di Dioniso
propone a chi vi si abbandona”[12].
Io
trovo che nelle Baccanti ci sia
piuttosto un’individuazione settaria, di setta, con un’esclusione criminale
degli altri e l’acquisizione di un’identità gregaria per quanti compongono il
tiaso.
Odisseo
sfugge sempre alla tentazione di perdere la propria identità.
Claudio
Magris:"Come diranno più tardi Adorno e Horkheimer, l'io occidentale è
simboleggiato da Odisseo, che costruisce faticosamente la propria identità ed
il proprio dominio - su Itaca, sul suo equipaggio e su se stesso - rinunciando
alle sirene, a Calipso e al fiore del loto ossia resistendo alla tentazione di
abbandonarsi alla beata indifferenza in grembo alla natura". L'inversione
di questo processo cui tende Nietzsche, continua Magris, è "lo
scioglimento dionisiaco dell'io". Tale tendenza alla "dispersione
dionisiaca dell'io nel fluire sensibile"[13]
veramente è ben più antica di Nietzsche, però è condivisibile anzi è
ineccepibile la collocazione dell'uomo Odisseo nella categoria dell'apollineo:
egli è l'uomo che si individua nella conoscenza e nel dolore, quindi difende e
mantiene il principium individuationis
davanti a tutte le lusinghe e contro tutti gli assalti. L'Odissea è dunque "hjqikhv", fatta di caratteri, prima di
tutto quello del suo protagonista, come la definiva già Aristotele[14], oltre
che complessa per via dei numerosi riconoscimenti, a partire dall' ajnagnwvrisi" che di
se stesso compie Odisseo. E attraverso la sua lettura tutti noi possiamo
riconoscere qualche cosa di quello che siamo, arrivando alla scienza suprema,
quella prescritta dall'oracolo delfico. "Conosci
te stesso" è tutta la scienza . Solo alla fine della conoscenza di
tutte le cose, l'uomo avrà conosciuto se stesso. Le cose infatti sono soltanto
i limiti dell'uomo"[15].
L’ u{bri" di Prometeo è analoga a quella di Serse che cercò di unificare i
mondi ben separati dell'Asia e dell'Europa volendo aggiogare al suo carro
culture differenti e tentando perfino di mettere in ceppi l'Ellesponto, di
prevalere su Poseidone e su tutti gli dèi.
continua
[1] Matteo, 4, 3.
[2] F: Dostoevskij. I fratelli
Karamazov, pp. 320 e sgg.
[3] B. Snell, Eschilo e l'azione
drammatica, pp. 122 - 123.
[4] E. Severino, Dall’Islam a Prometeo, p. 128..
[5] Con Teti.
[6] E’ la pienezza del senno che
otterrà chi innalza volentieri epinici a Zeus (Agamennone, vv. 174 - 175), n.d.r.
[7] Dall’Islam a Prometeo, p. 126.
[10] Nietzsche, La nascita della
tragedia, p. 70.
[11] Com’è noto, era questo l’aspetto
dello spirito dionisiaco che Nietzsche sviluppò in modo particolare nella Nascita della tragedia, anche per
influsso delle sue letture di Schopenhauer.
[12] Guidorizzi, Euripide Baccanti, p. 18.
[15]Nietzsche, Aurora , p. 40.
Anch'io credo nel destino.... Giovanna Tocco
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