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Il termine classicus designava il cittadino che
apparteneva alla classis più elevata dei contribuenti fiscali;
"solo per traslato uno scrittore del II secolo d. C., Aulo Gellio,
definisce "classicus scriptor, non
proletarius" uno scrittore "di prim' ordine", non della
massa" (Noctes Atticae 19. 8.
15; cfr. 6. 13. 1 e 16. 10. 2-15), o (forse meglio) "buono da essere letto
dai classici (i contribuenti più ricchi), e non dal popolo"; classicus
è ulteriormente definito come adsiduus (altra designazione di censo,
"contribuente solido e frequente") e antiquior ; l'anteriorità
al presente è dunque requisito della "classicità"[1].
Gellio consiglia di consultare sui termini quadrigam e harenas uno degli scrittori
“e cohorte illa dumtaxat antiquiore vel
oratorum aliquis vel poetarum, id est classicus, adsiduusque aliquis scriptor,
non proletarius” (Noctes Atticae,
XIX, 8, 15), purché appartenente alla schiera più antica.
Noi vorremmo
che tutti potessero conoscere i classici attraverso una scuola che fosse
nello stesso tempo popolare e di alta qualità.
In XVI, 10, 13 Gellio scrive che i proletari a munere officioque prolis edendae appellati
sunt (dal compito-dovere di generare la prole)
Il greco e il latino infatti, tanto come lingue
quanto come culture, sono utili non solo a scuola, e il loro impiego non è
confinato nei licei e nella Accademie.
Si può pensare a una conferenza, a una sceneggiatura
cinematografica, o alla redazione di un articolo di giornale, o a una
recensione, a una diagnosi, a una prognosi medica, a qualunque attività insomma
che richieda un impiego non banale, non volgare della parola: la civiltà
classica dota chi la conosce di una miniera di topoi, frasi, metafore, immagini, idèe preziose che valorizzano il
tessuto verbale e allargano la visione d’insieme fino a renderla panoramica.
I topoi o loci sono argomenti utilizzabili in molte occorrenze e
necessità Nel De inventione[2]
il giovane Cicerone aveva definito i loci communes: "argumenta
quae transferri in multas causas possunt" (2, 48), argomenti che si
possono utilizzare per molte cause. Sono strumenti del parlare e dello
scrivere.
Sul vocabolo argumentum aggiungo una riflessione di
Bettini:"Argumentum è qualcosa che realizza il processo dell'arguere,
produce quella rivelazione che il verbo implica…Una buona via per scendere più
in profondità nel significato di queste parole è costituita dagli usi
dell'aggettivo argutus che ad arguo è ugualmente correlato. In
molti casi infatti l'aggettivo argutus indica ciò che va a colpire i
sensi con particolare forza[3]
(…) Parole come arguo, argumentum, argutus, non possono che ricollegarsi
a una forma *argus che significa "chiarità" o
"chiarezza". Si tratta infatti della stessa radice *arg- che
ritroviamo nel greco ajrgov"
"chiaro, brillante" e nell'ittita hargi " chiaro,
bianco". In latino, da questa stessa radice derivano anche argentum
(metallo brillante) argilla
"("terra bianca")[4].
Quindi argumentari latino e
argomentare italiano, discutere portando argomenti a sostegno.
Possiamo anche ricordare il verbo inglese to argue, “discutere” e “provare”.
I tovpoi
costituiscono i serbatoi non solo della retorica ma anche della letteratura e
dell'arte in genere.
I tovpoi sono argumenta che, ricorrendo nella cultura europea, ne
rivelano l'unità.
Io intendo e impiego i topoi
come idee, frasi, versi belli e pieni di forza, tanto estetica quanto etica,
comunque una forza rivelatrice.
I ragazzi provano interesse e gioia nel sentire parole belle
e vere, insomma parole che sono tasselli
di opere d’arte:" l'arte è il fatto più reale, la più austera
scuola di vita, e il vero Giudizio finale"[5].
Perfino i criminali provano gioia per le parole belle,
finanche gli animali.
Erodoto racconta di un grandissimo prodigio (qw`ma mevgiston[6])
capitato ad Arione, il primo fra gli
uomini che compose un ditirambo, gli diede il nome e lo fece rappresentare a
Corinto, al tempo del tiranno Periandro ( inizio VI secolo).
Questo poeta dunque viaggiava su una nave corinzia per
tornare da Taranto a Corinto. Ma i marinai in alto mare complottarono per
gettarlo in acqua e prendersi le sue
ricchezze. Arione li pregò di non ammazzarlo almeno, ma quei farabutti gli concessero solo di uccidersi da solo,
saltando in mare se voleva. Allora Arione
chiese di poter cantare stando in piedi tra i banchi della nave jen
th`/ skeuh`/ pavsh/ , con tutta la
sua acconciatura, promettendo che dopo il canto si sarebbe ucciso.
Allora quelli si
sentirono invadere da senso di gioia (kai;
toi'si ejselqei'n hJdonhvn[7])
al pensiero che stavano per udire il migliore di tutti i cantori, e si
ritirarono, dalla prua, verso il centro della nave. Arione, indossato tutto il
suo abbigliamento, ritto tra i banchi, eseguì il canto nel tono elevato (novmon to;n o[[rqion), quindi si gettò in
mare, vestito com’era. A questo punto intervenne un delfino che, evidentemente
affascinato anch’esso dal canto del poeta, lo prese sopra di sé e lo portò fino
a capo Tenaro (to;n delfi``na levgousi
uJpolabovnta ejxenei`kai ejpi; Taivnaron) .
Orfeo con il suo canto
riusciva a commuovere addiritture le tenui ombre dei morti e le loro
dimore, le Eumenidi, e Cerbero, e a fermare la ruota di Issione[8].
Tale è l’incanto delle parole, in questi casi accompagnate dalla musica, ma non
dimentichiamo che la civiltà dei Greci e dei Latini è logocentrica e, nel
rapporto tra parola e musica, questa è ancilla
verbi.
Quindi, tornando a noi, credo che ricordare le sentenze
belle degli auctores, e
citarne brani delle opere mostrandone la carne viva, significhi imparare a esprimersi non senza bellezza e, quindi,
trovare e riconoscere qualche cosa di bello in noi stessi.
Questo per quanto riguarda il campo dell’efficacia e
della bellezza.
Ma c’è pure, e forse anche prima dell’estetica, la
categoria dell’etica. Si pensi alla crasi kalokajgaqiva.
Quello dei Greci era : “un popolo che, eziandio nella
lingua, faceva pochissima differenza dal buono al bello” (Leopardi, Detti memorabili di Filippo Ottonieri ). Per questo la bruttezza di Socrate gli era
di non piccolo pregiudizio in un popolo che per giunta “era deditissimo a
motteggiare”. Sicché Socrate “impedito di aver parte, per dir così, nella vita
(…) si pose per ozio a ragionare sottilmente (…) nel che gli venne usata una
certa ironia, un’ironia che “non fu
sdegnosa e acerba, ma riposata e dolce”. Socrate parlava con le persone giovani e belle “più
volentieri che cogli altri” poiché da questi avrebbe voluto essere amato.
L’Ottonieri concludeva che “ l’origine di quasi tutta la filosofia greca, dalla
quale nacque la moderna, fu il naso rincagnato, e il viso da satiro, di un uomo
eccellente d’ingegno e ardentissimo di cuore”
Non si può essere nemmeno morali se non si conoscono
a fondo i princìpi e i valori dell’etica classica.
Questa non
penalizza la felicità, che anzi deve essere associata alla moralità. Fare bene
e stare bene, avere successo, come si sa, coincidono.
Essere felici secondo Strabone, geografo dell'età di Augusto, è un atto di pietas
:"gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene, ma si
potrebbe dire ancor meglio quando sono felici (o{tan eujdaimonw'si)"[9].
C’è una interdipendenza
tra etica e felicità: " sostengo
che non vi è profonda felicità senza morale profonda"[10].
Felicità è anche coscienza di sé, realizzazione e compimento della propria
natura, identità di potenza e atto. Per ottenere tali risultati è necessario
comprendere a fondo che cosa essenzialmente siamo.
Per autorizzare questa
mia convinzione, utilizzo Eraclito che
scrive: “ho indagato me stesso”[11], e pure Sofocle i cui personaggi affrontano
ogni difficoltà e qualunque rischio per sapere chi sono, quindi per
non smentire la propria identità. Il “conosci te stesso”[12]
scritto sul tempio di Delfi e il “diventa quello che sei” di Pindaro[13]
esprimono il medesimo pensiero.
Oggi, in questo
guazzabuglio di idiomi mal conosciuti e parlati male, si rischia di perdere
l’dentità, linguistica e umana, di non sapere più parlare bene nemmeno una sola
lingua, e, quello che è peggio, di non sapere più chi siamo.
“L’uomo moderno soffre
di una personalità indebolita. Come il romano dell’epoca imperiale abbandonò la
sua romanità (…) come egli perdette se stesso sotto l’irrompere delle cose
straniere e degenerò in mezzo al cosmopolitico carnevale di dèi, costumi e
arti; così deve accadere all’uomo moderno”[14].
Le due lingue classiche con le loro
letterature, ci danno un ancoraggio sicuro, al riparo dal fluttuare nella
indeterminatezza amorfa o deforme del parlare di uso comune, una chiacchiera,
spesso uno sproloquio, che riflette una scarsa aderenza persino alle realtà più
evidenti e naturali.
E’ necessario salire di qualche gradino per uscire dal
pantano della parola incolore, o addirittura insensata, del luogo comune trito
che molti usano per nascondere la propria ignoranza, mentre invece la rivela,
e denuncia la pochezza mentale di chi
rumina il sentito dire senza sottoporlo a giudizio critico. Per esempio che
l’estate inizi il 21 giugno è una negazione dell’evidenza. Casomai il 21 giugno
è il culmine dell’estate che da quel giorno almeno come luce comincia a
declinare.
“E’ una beffa! A partire dall’inverno i giorni si allungano,
e quando arriva il più lungo, il 21 giugno, ossia l’inizio dell’estate, subito
cominciano a calare, si accorciano e si va verso l’inverno… E’ come se un
buffone avesse arrangiato le cose in modo tale da far cominciare la primavera
all’inizio dell’inverno e l’autunno all’inizio dell’estate” (T. Mann, La
montagna incantata, cap. VI)
Autorizzo questa mia conclusione attraverso Seneca:"nulla res nos maioribus malis implicat quam
quod ad rumorem componimur " (De
vita beata , 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di
regolarci secondo il "si dice".
“Il bruto è più tenace servo dell’assuefazione”[15].
Riporto una espressione di O. Wilde nella cui filigrana si
può leggere Seneca: “La morale moderna consiste nell’accettare i luoghi comuni
della nostra epoca, ed io credo che per un uomo colto l’accettare i luoghi
comuni della propria epoca sia la più rozza forma di immoralità”[16].
“Il senso della filologia classica è quello di agire nel
tempo nostro in modo inattuale , cioè contro il tempo e in favore di un tempo
venturo “[17].
La conoscenza della paideia
classica è anche una difesa dal veleno della pubblicità che cerca di
colonizzare e intossicare i nostri cervelli.
continua
[1] S. Settis, Futuro del "classico", p.
66.
[2] Trattato in due libri, dell'84 a . C.
[3] Cfr. Thesaurus
linguae latinae, II, 557, 48 sgg,
[4] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 297 e p.
299.
[5] M. Proust, Il tempo ritrovato (uscito postumo
nel 1927), p. 211.
[6] Erodoto, Storie
I, 23.
[7] I, 24, 5.
[8] Cfr. Virgilio, Georgica
IV, vv. 472-484
[9] Strabone (64 ca a. C.-24 ca d. C.), Geografia,
X, 3, 9.
[10]R. Musil, L'uomo senza qualità , p. 846.
[14] Sull’utilità e
il danno della storia per la vita (5). Seconda della Considerazioni
inattuali, del 1874
[15] Leopardi, Zibaldone,
1762.
[16] Il ritratto di
Dorian Gray, p. 88.
[17]Nietzsche,
Prefazione a Utilità e danno della
storia.
giovanna tocco
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