Luca Signorelli, Orazio (dagli affreschi del Duomo di Orvieto, ca. 1500) |
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Leopardi con il fuoco critica anche la navigazione avvalendosi di Orazio: "Orazio (I, Od. 3) considera l'invenzione e l'uso del fuoco come cosa tanto
ardita, e come un ardire tanto contro natura[1], quanto lo è la navigazione, e l'invenzion
d'essa; e come origine, principio e cagione di altrettanti mali e morbi ec., di
quanto la navigazione; e come altrettanto colpevole della corruzione e
snaturamento e indebolimento ec. della specie umana.(Zibaldone , p. 3646).
La
menzionata Ode (I, 3, in
sistema asclepiadeo IV) del poeta di Venosa verte sull'ardimento umano e
biasima prima l'invenzione della navigazione, le empie navi che valicano acque
intangibili ("tamen impiae / non tangenda rates transiliunt vada",
I, 3, 23 - 24), quindi (27 - 33) Prometeo, inventore del fuoco[2]:
"audax Iapeti genus / ignem fraude mala gentibus intulit; / post ignem
aetheria domo / subductum macies et nova febrium / terris incubuit cohors /
semotique prius tarda necessitas / leti corripuit gradum ", l'audace
prole di Giàpeto, portò con frode malvagia il fuoco tra i popoli; dopo che il
fuoco fu sottratto dalla sede celeste, la consunzione e una nuova schiera di
febbri piombò sulla terra, e la
Necessità , prima lenta, affrettò il passo della morte
lontana.
Infine Orazio ricorda Dedalo che volò "pennis
non homini datis" (v. 35) con penne non concesse all'uomo, ed Ercole
che irruppe vivo nell'Acheronte. Dunque:"nil mortalibus ardui
est;/caelum ipsum petimus stultitia neque/per nostrum patimur scelus/iracunda
Iovem ponere fulmina" (Odi, I, 3, vv. 37 - 40), niente è difficile per
i mortali; attacchiamo il cielo stesso nella nostra follia, e con i nostri
delitti impediamo a Giove di deporre i fulmini dell'ira.
I soldati di
Alessandro prima della battaglia di Arbela (ottobre 331) si lamentavano, molto
realisticamente, invero dicendo: “in
unius hominis iactationem tot milium sanguinem impendi”[3] per la vanagloria di un solo uomo si
spendeva il sangue di tante migliaia. Il conquistatore macedone era uno che
rinnegava il padre Filippo, e “caelum
vanis cogitationibus petere”, mirava al cielo con vane fantasie.
La
navigazione è uno degli aspetti della violenza umana nei confronti della
natura, un ardimento piena di rischi, come fa notare Sofocle nel primo Stasimo
dell'Antigone. Vediamone la prima strofe e la prima antistrofe: "Molte sono le cose inquietanti e
nessuna/è più inquietante dell'uomo/ questo prodigio anche al di là del
mare/canuto con l'austro tempestoso/procede (cwrei', v. 336), passando sotto/i flutti gonfi che si spalancano intorno, e
tra le divinità,/la suprema, la
Terra ,/che non si consuma, che non si stanca, lui cerca di
affaticare/quando vengono girati gli aratri, anno per anno/rivoltandola con la
stirpe equina./ E la razza degli uccelli dalla mente/alata, circondando con
maglie/di reti intrecciate/cattura, e le stirpi delle fiere selvatiche/e la
progenie sprofondata nel mare,/l'uomo che sa pensare, e si impossessa/con i
suoi mezzi della bestia/che dimora nei campi, che vaga sui monti, e il
cavallo/dalla cervice crinita trascina sotto il giogo che cinge il collo/e il
montano, infaticabile toro" (vv. 332 - 352).
Sono tutti i
benefici di Prometeo (cfr. Prometeo
incatenato vv. 459 sgg.).
Sentiamo il commento
di Heidegger: il coro "canta l'irruzione prorompente sull'abisso ondoso e
senza fondo, l'abbandono della terra ferma. La partenza non avviene in una
calma serenità di acqua scintillante, ma nel bel mezzo di una tempesta
invernale …cwrei',
ossia, egli abbandona il suo luogo, si dis - loca e si espone alla forza
soverchiante, senza dimora, del flutto marino. La parola cwrei' si erge, nella strutturazione del verso,
come una colonna. Ma, intrisecamente connessa a questa partenza violenta contro
la predominanza del mare, si trova l'irruzione incessante nell'indistruttibile
dominio della terra. Facciamo bene attenzione: la terra rappresenta qui la
suprema divinità. Col far - violenza l'uomo disturba la calma della crescita,
il nutricare, il generare di questa infaticabile. Nel caso della terra, il
predominante non è colui che domina con la ferocia autodistruttiva, ma colei
che senza pena né fatica porta a maturazione ed elargisce con la tranquilla
superiorità di una grande ricchezza, l'inesauribile librantesi al di sopra di
ogni sforzo. In tale dominio irrompe colui che violenta: anno per anno la
dirompe con l'aratro, e coinvolge l'infaticabile nell'agitazione del proprio
sforzo"[4].
Il
topos dell’antinavigazione procede con Lucrezio il quale dà un'immagine
composita dell'età più antica:
allora la vita degli uomini era dura assai, ma le guerre non distruggevano in
un sol giorno molte miglia di uomini schierati, né c'era la morte per acqua
marina:"nec poterat quemquam placidi
pellacia ponti/subdola pellicere [5] in
fraudem ridentibus undis./Improba navigii ratio tum caeca iacebat "(V, 1004 - 1006), né la seduzione
subdola del mare in bonaccia poteva sedurre alcuno con il sorriso delle onde[6]. Allora la detestabile arte del navigare
giaceva sconosciuta.
Virgilio
nella IV ecloga, dove
annuncia il ritorno dell'età dell'oro, mette la navigazione, con la guerra e
l'agricoltura, tra le attività perfide e dure a morire dell'età ferrea: anche
quando l'uva penderà rossa dai rovi incolti e le querce suderanno mieli
rugiadosi "pauca tamen suberunt priscae vestigia fraudis,/quae temptare
Thetin ratibus, quae cingere muris/oppida, quae iubeant telluri infindere
sulcos" (vv. 31 - 33), tuttavia
sotto resteranno poche tracce dell'antica perfidia, quelle che spingono a
tentare il mare con le navi, a cingere di mura le fortezze, a scavare solchi
nella terra.
Non meno
negativamente considera la traversata marina Properzio il quale anzi impreca
contro l'inventore di quel viaggiare sull'acqua che lo ha portato lontano da
Cinzia:"A pereat, quicumque ratis et
vela paravit/primus et invito gurgite fecit iter " (I, 17, 13 - 14),
ah, perisca chiunque per primo costruì le navi e le vele, e si aprì il cammino
tra i gorghi riluttanti. E’ il topos dell’imprecazione contro l’inventor di un’attività.
Nel primo libro
delle Metamorfosi Ovidio afferma che durante l'età dell'oro non c'erano
le navi che solcavano i mari:"nullaque mortales praeter sua
litora norant" (v. 96), i mortali non conoscevano altri lidi che i
propri.
Un’eco di questa maledizione si trova in El burlador de Sevilla (1630) di Tirso
de Molina, il padre di tutti i Don Giovanni. Il servo di Don Juan, Catalinòn,
in seguito a un naufragio, si salva dalla morte per acqua e, portando in
braccio il padrone semivivo, dice: “Maledetto chi per primo/ha piantato pini in
mare/e con un fragile legno/ha sfidato le sue rotte!...Maledetto sia Giasone/ e
maledetto anche Tifi!” (I, 11).
Il secondo coro della Medea
di Seneca maledice, in dimetri anapestici, la navigazione come
attività troppo audace per l'uomo: “Audax
nimium[7], qui freta
primus/rate tam fragili perfida rupit/terrasque suas post terga videns/animam
levibus credidit auris/ dubioque secans aequora cursu,/potuit tenui fidere
ligno,/inter vitae mortisque vias/nimium gracili limite ducto” (vv. 301 - 308), audace troppo chi per
primo ruppe con la barca tanto fragile i perfidi flutti e vedendo alle spalle
la sua terra affidò la vita ai venti incostanti e fendendo gli spazi marini con
rotta infida, fu capace di affidarsi a un legno debole, guidato sul confine
troppo sottile tra le vie della vita e della morte
Il primo a violare il mare è stato, con gli
altri argonauti, Giasone la cui audacia, e la successiva perfidia nei confronti
di Medea, ha trovato degni antagonisti nei freta perfida.
L'inventore però rimane
Prometeo.
"Ciò che
colpisce immediatamente il lettore del secondo coro (vv. 301 - 379) è il ritmo
temporale che lo scandisce, la diastole e la sistole, mi si passi l'immagine,
tra un passato positivo e un presente negativo, di cui la spedizione argonautica
rappresenta il diaframma. Il coro si apre con la presentazione (vv. 301 - 308)
del primo navigatore che, nimium audax (superfluo ricordare la
connotazione negativa di audax intensificata dal nimium) per
avere affrontato con la fragilità della nave i perfida freta ( una
fragilità che Seneca esprime anche nel gioco fonosimbolico delle allitterazioni
e, soprattutto, nella protratta iterazione della "r") si è fatto reo
di aver infranto il limes tra la vita e la morte divenuto in tal modo nimium
gracilis"[8].
"Alla breve
presentazione dell'audacia del primo navigatore segue la descrizione (vv. 309 -
317) del tempus precedente come tempo di pura contemplazione o comunque
di non strumentalizzazione del cosmo - starei per dire dello spazio - da parte
dell'uomo:“nondum quisquam sidera
norat,/stellisque quibus pingitur aether/non erat usus”[9]. Nessuno ancora conosceva i nomi degli astri
né faceva uso delle stelle di cui è dipinta la volta celeste.
La cultura pragmatica arriva a
strumentalizzare tutto.
"L'interpretazione
puramente pragmatica (senza Carità) delle azione umane deriva in conclusione da
questa assenza di cultura: o perlomeno da questa cultura puramente formale e
pratica"[10].
Seneca contrappone
l'età preargonautica a quella che viene dopo l’ardire di Tifi, il pilota della
nave Argo:"Ausus Tiphis pandere
vasto/ carbǎsa ponto legesque novas/ scribere ventis" (vv. 318
- 320), Tifi osò distendere le vele sul vasto mare e dettare leggi nuove ai
venti. Torna il biasimo dell'audacia poiché questa impresa "che fé Nettuno
ammirar l'ombra d'Argo"[11] costituisce un aspetto di quello
"sviluppo" quale "fatto pragmatico ed economico" senza
"progresso" come "nozione ideale" di cui parla Pasolini
negli Scritti corsari (p.220), o un ingrassamento senza grandezza, come
quello che Platone nel Gorgia attribuisce all'azione dei politici
Ateniesi i quali:" in effetti senza preoccuparsi della temperanza e della
giustizia (a[neu
ga;r swfrosuvnh" kai; dikaiosuvnh") hanno riempito la città di
porti, di arsenali, di mura, di contributi e di altre sciocchezze del genere (toiouvtwn fluariw'n
ejmpeplhvkasi th;n povlin, 519a).
Si
veda un ancora più esplicito svuotamento della sofiva tecnologica nel discorso di
Diotima del Simposio platonico:"kai; oJ me;n peri; ta; toiau'ta sofo;" daimovnio"
ajnhvr, oJ dev, a[llo ti sofo;" w[n, h] peri; tevcna" h]
ceirourgiva" tinav", bavnauso"" (203a), chi è sapiente in
tali rapporti[12] è un
uomo demonico, quello invece che si intende di qualcos'altro, o di tecniche o
di certi mestieri, è un facchino.
Seneca ripete questo concetto quando dissente (non concesserim) da questa affermazione di Posidonio: “ artes quidem a philosophia inventas quibus
in cotidiano vita utitur” (Ep.
90, 7), che la filosofia ha inventato gli strumenti che la vita utilizza ogni
giorno. Quindi fa alcuni esempi. Vediamone uno: “Quid ais? Philosophia homines docuit habere clavem et seram? Quid aliud
erat avaritiae signum dare?” (90, 8), che cosa dici? continua
[2]Oltre che delle navi: i cocchi
dalle ali di lino del Prometeo incatenato di Eschilo (v. 468).
[3] Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, 4, 10, 3.
[4] M. Heidegger, Introduzione
alla metafisica, p. 162.
[5]Si noti l'allitterazione con la p che sembra preludere all'esplosione
della successiva tempesta marina.
[6]Traduco “il
sorriso delle onde”, come del resto ha già fatto Luca Canali , poiché a parer
mio l'espressione di Lucrezio risente di quella eschilèa:" pontivwn te kumavtwn - ajnhvriqmon
gevlasma"
(Prometeo incatenato , 89 - 90),
innumerevole sorriso delle onde marine.
[8] G. Biondi, Il mito
argonautico nella Medea. Lo stile 'filosofico' del drammatico Seneca,
"Dioniso" 1981, p. 427.
[9] G. Biondi, ibidem, p. 427. Sono citati i vv. 309 - 311 del secondo coro della Medea.
[10] P.P. Pasolini, Scritti
corsari, p. 49.
[11] Dante, Paradiso, XXXIII,
96.
[12] Quelli tra gli uomini e gli dèi.
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