Bruto |
PER VISUALIZZARE IL GRECO CLICCA QUI E SCARICA IL FONT HELLENIKA
Il falso sciocco
Bruto, per salvarsi, aveva stabilito di non
lasciare al re nulla da temere dall'animo suo, nulla da desiderare nella sua
fortuna, e di trovare sicurezza nell'essere disprezzato: “Ergo ex industria factus ad imitationem stultitiae, cum se suaque
praedae esse regi sineret, Bruti quoque haud abnuit cognomen " (I, 56,
8) pertanto fingendosi stolto apposta, lasciando se stesso e i suoi beni al re,
non rifiutò neppure il soprannome di Bruto. “Perché non vi è nulla di più
pericoloso di un uomo che rifiuta di sottomettersi alla tirannia”[1].
Ma
quella che sembrava pazzia agli stupidi era invece genio. Quando l'oracolo
delfico infatti preconizzò che avrebbe avuto il sommo potere a Roma quello che
per primo avesse baciato la madre, Bruto, avendo capito, "velut si prolapsus cecidisset, terram osculo
contigit, scilicet quod ea communis mater omnium mortalium esset " I,
56, 12, come se fosse caduto per una scivolata, diede un bacio alla terra,
evidentemente poiché quella era la madre comune di tutti i mortali.
Eppure il sovrano non dovrebbe essere invidioso poiché ha
tutti i beni.
Invece
invidia i cittadini migliori, si compiace dei peggiori (caivrei de; toĩsi kakivstoisi tw̃n astw̃n) ed è
ottimo ad accogliere le calunnie ( diabola;ς de; a[ristoς ejndevkesqai, Erodoto, III, 80, 4).
Il tiranno nella storia
romana e nella tragedia greca
Cfr. Tiberio e Domiziano in Tacito.
Quanto
allo fqovno", Tacito
attribuisce più di una volta l'invidia ai
suoi Cesari: Tiberio (14-37) temeva dai migliori un pericolo per sè, dai
peggiori disonore per lo stato (ex
optimis periculum sibi, a pessimis dedĕcus publicum metuebat , Annales , I, 80).
Tiberio:
crudeltà e libidine.
La
libidine sfrenata di Tiberio. Già negli anni trascorsi a Rodi (6 a.C-2 d. C.)
non aveva meditato altro quam iram et
simulationem et secretas libidines (Annales, I, 4). Fece morire Cremuzio
Cordo il quale aveva scritto che Bruto e Cassio erano gli ultimi dei Romani.
Applicò con rigore la lex maiestatis.
Alla
morte di Augusto fece assassinare subito Agrippa Postumo, nipote del primo
imperatore. “Primus facinus novi
principatus fuit Postumi Agrippae caedes (Annales, I, 6). Quindi ammonì la madre che non venissero rivelati
gli arcana domus: “ eam condicionem esse
imperandi ut non aliter ratio constet quam si uni reddatur”
Altro
imperii arcanum: “posse principem alibi quam Romae fieri ”
(Historiae, I, 4). Questo si svelò
alla morte di Nerone.
Il
suo maestro Teodoro di Gadara (maestro anche dell’Anonimo del Peri; u{you~) lo definiva phlo;n ai{mati pefurmevnon, fango
impastato con sangue (Svetonio, Vita di
Tiberio, 57).
Giravano
epigrammi contro Tiberio:
“Aurea mutasti Saturni saecula, Caesar
Incolumi nam te
ferrea semper erunt”
“Fastidit vinum, quia iam sitit iste cruorem
Tam bibit hunc
avide, quam bibit ante merum”.
A
Capri un pescatore gli offrì una triglia (mulla)
e Tiberio gliela fece spiaccicare in faccia. L’uomo gli disse: “meno male che
non ti ho offerto un’aragosta (locusta).
Allora l’imperatore gli fece straziare la faccia con questa. Riempiva di vino i
torturati poi gli faceva legare stretto il pene e li faceva gonfiare nel
tormento della cordicella e dell’urina. Diceva: “oderint, dum probent”.
Sempre a Capri, da vecchio, addestrava i fanciulli quos pisciculos vocabat. Erano pueri
primae teneritudinis Li stuzzicava con la lingua e con i morsi, poi offriva
il suo membro come un capezzolo. Alcuni bambini non erano ancora stati svezzati
dalla nutrice. (Svenonio, Vita, 43).
Leggeva i libri infami di Elefantide
e Domiziano (81-96) invidiava e odiava
Agricola per i suoi successi in Britannia: “Id
sibi maxime formidolosum, privati hominis nomen supra principem attolli
" ( Agricola[2],
39), gli faceva paura soprattutto il fatto che il nome di un suddito fosse
messo al di sopra di quello del principe.
Poi l’ipocrisia di Tiberio il quale si serviva di formule
antiche per nascondere scelleratezze recenti : “Proprium id Tiberio fuit scelera nuper reperta priscis verbis obtegere”
(4, 19).
La letteratura greca è percorsa dal motivo antitirannico: da
Alceo che esulta per la morte di Mirsilo (fr. 332 LP), o copre di insulti
Pittaco "to;n kakopatrivdan"(
fr. 348 L
P) dal padre ignobile, a Platone
che certamente non risparmia biasimi al turanniko;"
ajnh;r.
Costui, nella Repubblica (573c) è definito uomo, per
natura, o per le abitudini, "mequstikov".. ejrwtikov",
melagcolikov"",
incline al bere, al sesso, alla depressione; inoltre è di animo sostanzialmente
servile"oJ
tw'/ o[nti tuvranno" tw/' o[nti dou'lo""(579e).
Questa considerazione che sembra paradossale, magari dettata
a Platone da un risentimento personale nei confronti dei despoti incontrati, è
confermata da uno psicoanalista moderno: E. Fromm in Fuga dalla libertà sostiene che" l'impotenza dà luogo
all'impulso sadico a dominare; nella misura in cui l'individuo è capace, cioè
in grado di realizzare le sue possibilità sulla base della libertà e
dell'integrità del suo io, non ha bisogno di dominare e non prova alcuna brama
di potere" (p. 144).
La paura del tiranno. Metus
tyranni: Genitivo soggettivo e oggettivo
Il tiranno fa paura, come affermano la nutrice di Medea ( Medea, 119-121 deina; turavnnwn lhvmata kaiv pw~-ojlivg j ajrcovmenoi, polla;
kratou`nte~- calepw`~ ojrga;~ metabavllousin ), e Antigone a proposito
della sottomissione dei Tebani a Creonte (vv. 502-507 la paura tiene le bocche
chiuse a chiave ) , La paura del
tiranno è genitivo soggettivo e
oggettivo, ossia il despota vive circondato dal fovbo" : fa paura e ne ha.
Un doppio ruolo sintetizzato bene da Creonte nell'Oedipus
di Seneca: “ Qui sceptra duro saevus imperio regit,/timet timentes; metus in auctorem
redit ". (vv. 703-704), chi tiene crudelmente lo scettro con dura
tirannide, teme quelli che lo temono; la paura ricade su chi la incute chi lo
dice.
In forma meno sintetica Cicerone fa la stessa denuncia nel De officiis[3]: “Qui se metui volent, a quibus metuentur,
eosdem metuant ipsi necesse est” ( II, 24), quelli che vorranno essere
temuti, è inevitabile che essi stessi temano quelli dai quali saranno temuti.
Cicerone fa gli esempi di Dionigi il vecchio di Siracusa (405-367) e di Alessandro
tiranno di Fere il quale sospettava perfino della moglie, non a torto del resto
poiché questa era un’altra furente che infine lo uccise “propter pelicatus suspicionem (II, 25), per sospetto di adulterio.
La conclusione di Cicerone è. “Nec vero ulla vis imperii tanta est, quae premente metu possit esse
diuturna”, non c’è nessuna forza di potere tanto grande che possa essere
durare a lungo sotto la pressione della paura.
Nell'Edipo
re di Sofocle il tiranno di Tebe teme complotti e chiama Creonte
"lh/sthv" t j ejnargh;"
th'" ejmh'" turannivdo"" (vvv. 535), ladro
evidente della mia tirannide. Il cognato-zio più avanti ribatte che preferisce
riposare tranquillo piuttosto che comandare con paura ("a[rcein... xu;n
fovboisi", v. 585).
“In realtà il tiranno è circospetto perché teme. La sua
paura accompagna il suo potere: a[rcein
xu;n fovboisi governare in mezzo alle paure, questa è la condizione del
tiranno (Sofocle, Edipo re, v. 585).
Perfino Eteocle
delle Fenicie , il teorico del valore assoluto del potere,
rivolge una preghiera a eujlavbeia, cautela,
invocata come crhsimwtavth qew'n, (v.
782), la più utile delle dee.
"La paura e la
diffidenza appaiono dunque connaturate al tiranno"[4].
Il tiranno ha paura che gli tolgano il bene più grande che
per lui è il potere
Per Eteocle la
divinità più grande è la tirannide (v. 506) e per essa può essere
bellissimo anche commettere ingiustizia: “ ei[per
ga;r ajdikei'n crhv, turannivdo" pevri-kavlliston ajdikei'n, ta[lla d j eujsebei'n
crewvn", Fenicie vv.
524-525, se davvero è necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo per
il potere assoluto, altrimenti bisogna essere pio.
Cicerone considera questo Eteocle o addirittura Euripide
meritevole di pena di morte (Capitalis
Eteocles vel potius Euripides) che fece eccezione proprio per quell'unico
caso che era il più scellerato di tutti. Questi versi delle Fenicie li aveva sempre in bocca
l'ambizioso Cesare: “Nam si violandum est
ius, regnandi gratia/violandum est; aliis rebus pietatem colas ", (De Officiis , III, 82).
La paura del tiranno è stata messa in evidenza anche dal
cesariano Sallustio: “Nam regibus boni quam mali suspectiores
sunt, semperque iis aliena virtus formidulosa est "[5],
infatti ai re sono più sospetti i valenti che gli inetti, e la virtù degli
altri per loro è sempre motivo di paura.
Si ricordi ancora il formidolosum dell'Agricola
(39) di Tacito.
.
L’ argomento del
timore del principe viene ripreso da Machiavelli . L'XI capitolo del I
libro dei Discorsi sopra la prima deca di
Tito Livio (1517) verte sulla
religione dei Romani
Introdotta
beneficamente da Numa, il secondo dei re.
Quindi il segretario
fiorentino nomina nomina Licurgo e Solone tra i legislatori che "ricorrono
a Dio".
Infine tira
le somme: “Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da
Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città, perché quella
causò buoni ordini, i buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna
nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino
è cagione della grandezza delle repubbliche, così il dispregio di quello è
cagione della rovina di esse. Perché dove manca il timore di Dio, conviene o
che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che
sopperisca a' defetti della religione".
Nel Principe
(XVII), Machiavelli menziona la “disputa: s’elli è meglio essere amato che
temuto”
Ebbene: “rispondesi, che si vorrebbe essere l’uno e l’altro;
ma perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto
che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua”
E, poco più avanti: “Debbe, non di manco, el principe, farsi
temere in modo, che, se non acquista lo amore, che fugga l’odio; il che farà
sempre, quando si astenga dalla roba de’ sua cittadini e de’ sua sudditi e
dalle donne loro…ma, sopra a tutto, astenersi dalla roba d’altri; perché li
uomini dimenticano più presto la morte del padre che la perdita del
patrimonio”.
Tuttavia Tacito ammette che dopo 100 anni di guerre civili
iniziate con i Gracchi “omnem potentiam
ad unum conferri pacis interfuit (Hist.
I, 1). Comunque: “veritas pluribus modis
infracta, primum inscitia rei publicae ut alienae, mox libidine adsentandi aut
rursus odio adversus dominantis” (Hist., I, 1)
E negli Annales
(I, 7): “At Romae ruere in servitium
consules, patres, eques. Quanto quis inlustrior, tanto magis falsi et
festinantes”
continua
A volte è proprio chi possiede di più,chi ha tutti i beni come un sovrano, che diventa ingordo...come si dice,la fame vien mangiando? Giovanna Tocco
RispondiElimina