Mary Godwin Shelley |
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Platone considera
l’oro promotore di mali.
Vediamo cosa dice
l'Ateniese nelle Leggi: "Poveri per questo motivo non erano, né,
costretti dalla povertà, divenivano discordi tra loro; e nemmeno ricchi
divennero mai in quanto privi di oro e di argento… nella società in cui non sia
presente né ricchezza né povertà, direi che i costumi potrebbero essere
nobilissimi: infatti violenza, né ingiustizia, né gelosie né invidie possono
nascervi. Erano buoni in grazia di questa vita e di quella che si dice semplicità”
(679b - c).
La scrittura. Il Fedro
platonico. Quintiliano. Cesare. Il divieto di scordare nell’Odissea.
Una
confutazione efficace dei benefici operati dalla scrittura nei confronti della
memoria si trova nel mito di Theuth del Fedro
di Platone. Il dio Theuth è il Prometeo degli Egiziani: egli si reca dal re
Thamus, che dovrebbe corrispondere ad Ammone, quindi a Zeus, e gli presenta le
sue invenzioni elogiandole: i numeri, il calcolo, l'astronomia, la geometria,
il tavoliere, i dadi, e le lettere; di queste in particolare
dice:"renderanno gli Egiziani più saggi e più capaci di ricordare: è stato
trovato un farmaco della memoria e della sapienza"(274e); ma il "re
di tutto quanto l'Egitto", rispose:" tu, essendo il padre della
scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quanto essa può. Questa
infatti produrrà dimenticanza nelle anime di coloro che l'hanno imparata, per
incuria della memoria, poiché per fiducia nella scrittura, ricordano
dall'esterno, da segni estranei, non dall'interno, essi da se stessi: dunque
non hai trovato un farmaco della memoria ma del ricordo"( ou[koun mnhvmh~, alla;
uJpomnhvsew~, favrmakon hu|re~, 275a).
Così viene confutata la scrittura da Platone.
Lo ricorda Quintiliano: “invenio apud
Platonem obstare memoriae usum litterarum, videlicet quoniam illa, quae
scriptis reposuimus, velut custodire desinimus et ipsa securitate dimittimus”
(Institutio oratoria, XI, 2, 9),
leggo in Platone che ostacola la memoria l’uso dei caratteri scritti,
evidentemente perché quello che abbiamo messo da parte negli scritti smettiamo
di custodirlo, per così dire, e per questa stessa tranquillità lo lasciamo
perdere.
Cesare raccontando dei drùidi, i quali tra i
Galli attendono al culto, mette in rilievo che essi sono tenuti in conto e
onorati tanto che molti cercano di entrare nella loro scuola o ci vengono
mandati dai genitori. La disciplina cui sono sottoposti per arrivare a quei
privilegi però è durissima e impone un grande sviluppo della memoria attraverso
il disuso della parola scritta: “Magnum ibi numerum versuum ediscere
dicuntur” (De bello gallico, VI, 14), si dice che imparino a memoria
un gran numero di versi. “Itaque annos nonnulli XX in disciplina permanent”,
così alcuni rimango a scuola per venti anni. “Neque fas esse existimant ea
litteris mandare, cum in reliquis fere rebus, publicis privatisque rationibus,
Graecis utantur litteris”, non considerano attività permessa affidare
quelle dottrine alla scrittura, mentre in quasi tutte le altre pratiche, quelle
amministrative, conti pubblici e privati, fanno uso dell'alfabeto greco. Quindi
Cesare ne spiega le ragioni che sono più o meno quelle di Thamus:"id
mihi duabus de causis instituisse videatur, quod neque in vulgum disciplinam
efferri velint, neque eos qui discunt, litteris confisos minus memoriae
studere; quod fere plerisque accidit, ut praesidio litterarum diligentiam in
perdiscendo ac memoriam remittant" (VI, 14), credo che abbiano
disposto questo per due ragioni: non vogliono che la loro scienza venga
divulgata né che i discepoli fidandosi della scrittura diano meno importanza
alla memoria; poiché di solito ai più succede che con l'aiuto della scrittura
abbandonano l'impegno di imparare bene e perdono la memoria.
Sul rischio di
scordare il ritorno, e l’Odissea, ha scritto parole interessanti
Calvino:"Il ritorno va individuato e pensato e ricordato: il pericolo è
che possa essere scordato prima che sia avvenuto. Difatti, una delle prime
tappe del viaggio raccontato da Ulisse, quella presso i Lotofagi, comporta il
rischio di perdere la memoria, per aver mangiato il dolce frutto del loto. Che
la prova della dimenticanza si presenti all'inizio dell'itinerario d'Ulisse e
non alla fine, può apparire strano. Se dopo aver superato tante prove,
sopportato tante traversie, appreso tante lezioni, Ulisse avesse scordato ogni
cosa, la sua perdita sarebbe stata ben più grave: non trarre alcuna esperienza
da quanto ha sofferto, alcun senso da quel che ha vissuto. Ma, a ben vedere,
questa della smemoratezza è una minaccia che nei canti IX - XII si ripropone
più volte: prima con l'invito dei Lotofagi, poi con i farmaci di Circe, poi
ancora col canto delle Sirene. Ogni volta Ulisse deve guardarsene, se non vuole
dimenticare all'istante...Dimenticare che cosa? La guerra di Troia? L'assedio?
Il cavallo? No: la casa, la rotta della navigazione, lo scopo del viaggio.
L'espressione che Omero usa in questi casi è "scordare il ritorno".
Ulisse non deve dimenticare la strada che deve percorrere, la forma del suo
destino: insomma non deve dimenticare l'Odissea. Ma anche l'aedo che compone
improvvisando o il rapsodo che ripete a memoria brani di poemi già cantati non
devono dimenticare se vogliono "dire il ritorno"; per chi canta versi
senza l'appoggio di un testo scritto "dimenticare" è il verbo più
negativo che esista; e per loro "dimenticare il ritorno" vuol dire
dimenticare i poemi chiamati nostoi ,
cavallo di battaglia del loro repertorio"[1].
Giunti tra i
lotofagi, quanti mangiavano il dolcissimo frutto del loto voleva rimanere là a
mangiarlo novstou
te laqevsqai (Odissea, 9, 97) e scordare il ritorno.
Anche
l'aggiogamento degli animali non
è visto come un atto produttivo di bene dal tradizionalismo antico.
Esso
fa parte di quella sofiva tecnologica che costituisce una violenza sulla
natura e non accresce né la felicità né la stessa vita dell'uomo. La necessità,
lo abbiamo già detto, è più forte della tecnica (v. 514) che non comprende il
destino.
Questo predominio
del fato non risparmia nessuno, e il martire aggiunge, consolandosene, che
nemmeno Zeus "potrebbe in alcun
modo sfuggire alla parte che gli ha dato il destino (th;n peprwmevnhn)"(v. 518).
Destino e Necessità
sono le divinità supreme.
Nel trattato Della tirannide (del 1777) Alfieri
distingue la religione cristiana dalla pagana rilevando l’incompatibilità della
prima con la libertà: “La religion pagana, col suo moltiplicare sterminatamente
gli dèi, e col fare del cielo quasi una repubblica, e sottomettere Giove stesso
alle leggi del fato, e ad altri usi e privilegi della corte celeste, dovea essere,
e fu infatti, assai favorevole al vivere libero…La cristiana religione, che è
quella di quasi tutta la Europa ,
non è per se stessa favorevole al viver libero: ma la cattolica religione
riesce incompatibile quasi col viver libero…Ed in fatti, nella pagana
antichità, i Giovi, gli Apollini, le Sibille, gli Oracoli, a gara tutti
comandavano ai diversi popoli e l’amor della patria e la libertà. Ma la
religion cristiana, nata in popolo non libero, non guerriero, non illuminato e
già intieramente soggiogato dai sacerdoti, non comanda se non la cieca
obbedienza; non nomina né pure mai la libertà; ed il tiranno (o sacerdote o
laico sia egli) interamente assimila a Dio” (I, 8).
U. Galimberti
ricorda alcuni versi del Prometeo incatenato a proposito della catastrofe
che ha colpito l'Asia il 26 dicembre 2004: "Rassicurato dalla sua mente e
dai prodotti della sua mente interrogò[2] Prometeo, che aveva donato la tecnica agli
uomini, ponendogli questa domanda:" E' più forte la tecnica o la necessità
che governa le leggi della natura?". Prometeo, amico degli uomini e
inventore delle tecniche, dà la sua risposta lapidaria:"La tecnica è di
gran lunga più debole della necessità che governa le leggi della natura".
Così riferisce Eschilo nel Prometeo incatenato[3], e Sofocle, di rincalzo, nell'Antigone
dice che l'aratro ferisce la terra, ma questa si ricompone dopo il suo
passaggio. Allo stesso modo la nave fende la calma trasognata del mare, ma le
acque si ricompongono perché la natura è sovrana. Noi abbiamo dimenticato la
sovranità della natura…Fedeli esecutori del comando biblico che invitava Adamo
al dominio della terra, abbiamo trasformato il suo uso in usura…La terra per
noi è diventata materia prima e niente di più, il suolo coltre da perforare per
estrarre energia dal sottosuolo, la foresta legname da utilizzare, la montagna
cava di pietra, il fiume energia da imbrigliare, il mare riserva da esplorare
per futuri sfruttamenti, l'aria spazio dove scaricare i veleni rarefatti delle
nostre opere…Non dimentichiamoci la potenza della natura e non abituiamoci a
pensare che essa non è altro che materia prima, o deposito di rifiuti"[4].
Alessandro Magno voleva forzare la natura. Quando ebbe attraversato
l’Oxo, arrivò a Margiana. Rimaneva da conquistare una rupe di 5000 metri , scoscesa.
Sembrava imprendibile: “cupido deinde incessit animo naturam quoque
fatigandi” (Historiae
Alexandri Magni , 7, 11, 4).
L’età dell'oro di Tibullo
non aveva le invenzioni di Prometeo.
Sotto il regno di
Saturno, al tempo dell'armonia tra l'uomo e la natura, non c'erano le navi, non
c'era il commercio, né l'aggiogamento del toro, né
l'imbrigliamento del cavallo, né la proprietà privata, né il profitto: allora
la terra con i suoi figli, piante e animali, erano generosi nei confronti degli
uomini e questi vivevano senza preoccupazioni :"nondum caeruleas pinus
contempserat undas,/effusum ventis praebueratque sinum;//nec vagus ignotis
repetens compendia terris/presserat externa navita merce ratem.// illo non validus subiit iuga tempore
taurus,/non domito frenos ore momordit equus; // non domus ulla fores habuit,
non fixus in agris/qui regeret certis finibus arva lapis// Ipsae mella dabant
quercus, ultroque ferebant/obvia securis ubera lactis oves" (I, 3, 37 - 46), ancora il pino non aveva
sfidato le onde azzurre, e non aveva esposto ai venti il seno aperto[5]: né il marinaio errante cercando profitti in
terre ignote aveva caricato la barca di merci straniere. In quel
tempo il toro robusto non si sottopose al giogo, il cavallo non morse il freno
con bocca domata; le dimore non avevano porte, non c'era pietra conficcata nei
campi che segnasse la terra da arare con limiti certi. Le querce offrivano il
miele da sé, e le pecore spontaneamente portavano le poppe gonfie di latte in
mano a quegli uomini senza preoccupazioni.
La sfiducia nella
scienza e nella tecnica dunque serpeggia nella cultura occidentale, nelle
epoche prerazionalistiche oppure in quelle di stanchezza del razionalismo. Così
nell'Ottocento ( nel 1818 precisamente, in epoca romantica dunque) abbiamo il Frankestein
di Mary Shelley dal significativo secondo titolo ovvero il Prometeo moderno , con il quale l'autrice accusa i
disastri provocati dalla scienza, anticipando una denuncia che si
ripeterà durante il decadentismo . Lo studioso ginevrino si illude al pari di
Prometeo:"Una nuova specie mi avrebbe benedetto come sua origine e
creatore"(p.56), ma deve additare la sua opera ardita come modello
negativo:"Imparate da me - se non dai miei consigli, dal mio esempio - quanto
pericoloso sia l'acquisto della scienza, quanto più felice sia chi crede mondo
la sua città, di chi aspira ad elevarsi più di quanto la sua natura
consenta"(p.55).
continua
[1]I. Calvino, Perché leggere i classici , pp. 15 - 16.
[2] Il soggetto è l'uomo che
costruisce argini, difese e inventa la tecnica previsionale per allontanare il
più possibile l'inquietudine dell'imprevedibile.
[3] Cfr. v. 514 (n. d. r.)
[4] U. Galimberti, La natura
inumana, in "la
Repubblica " 27 dicembre 2004, p. 23.
[5]Quello delle vele, quasi fossero
donne sfacciate.
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