Io (a sinistra) in Grecia con gli amici, 2005 |
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Incontri linguistici del lunedì. Presiede Tullio De Mauro
Gli incontri si svolgono a Roma il lunedì, tolti i periodi
di vacanza e le eventuali coincidenze con feste nazionali, presso la sede della
Fondazione Leusso, in viale Regina Margherita 1 (portone d’angolo con via
Salaria), IV piano. L’orario è 17-19.
18 aprile 2016: Giovanni Ghiselli
(Bologna)
Come e perché cercare tracce
antiche nelle letterature moderne
Introduzione alla metodologia dell’insegnamento delle lingue e
letterature greca e latina con taglio europeo e topologico.
Non conoscere il latino significa cecità o almeno
debolezza di vista linguistica.
L'uomo che non
conosce il latino somiglia a colui che si trova in un bel posto, mentre
il tempo è nebbioso: il suo orizzonte è assai limitato; egli vede con chiarezza
solamente quello che gli sta vicino, alcuni passi più in là tutto diventa
indistinto. Invece l'orizzonte del latinista si stende assai lontano,
attraverso i secoli più recenti, il Medioevo e l'antichità.-Il greco o addirittura
il sanscrito allargano certamente ancor più l'orizzonte.
Chi non conosce
affatto il latino, appartiene al volgo, anche se fosse un grande
virtuoso nel campo dell'elettricità e avesse nel crogiuolo il radicale
dell'acido di spato di fluoro"[1].
Si veda un ancora più esplicito svuotamento della sofiva
tecnologica nel discorso di Diotima del Simposio platonico:" kai; oJ me;n peri; ta; toiau'ta sofo;"
daimovnio" ajnhvr, oJ dev, a[llo ti sofo;" w[n, h] peri; tevcna"
h] ceirourgiva" tinav", bavnauso" (203a), chi è sapiente
in tali rapporti[2]
è un uomo demonico, quello invece che si intende di qualcos'altro, o di
tecniche o di certi mestieri, è un facchino.
Avvicino, forse non arbitrariamente, quanto scrive Hegel
nella Fenomenologia dello spirito:
“il signore si rapporta alla cosa in guisa mediata, attraverso il servo”; il
servo invece “col suo lavoro non fa che trasformarla”[3].
Lo studio dei classici serve ad accrescere la nostra
umanità
Perché studiare il greco e il latino, potrebbe
chiederci un giovane, a che cosa servono? Alcuni rispondono:" a niente;
non sono servi di nessuno; per questo sono belli"[4].
Non è questa la nostra risposta. Se è vero che le culture classiche non
si asserviscono alla volgarità delle
mode, infatti non passano mai di moda, è pure certo che la loro forza è
impiegabile in qualsiasi campo. La conoscenza del classico potenzia la natura peculiare dell'uomo che è
animale linguistico. Il greco e il
latino servono all'umanità: accrescono le capacità comunicative che sono la
base di ogni studio e di ogni lavoro non esclusivamente meccanico.
Chi conosce il greco e il latino sa parlare la lingua italiana più e
meglio di chi non li conosce[5].
Sa anche pensare più e meglio di chi non li conosce.
Parlare male non solo è una
stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.
Lo afferma Socrate
nel Fedone :" euj ga;r
i[sqi…a[riste Krivtwn, to; mh;
kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev", ajlla;
kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi
bene…ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma
mette anche del male nelle anime.
Don Milani insegnava che
"bisogna sfiorare tutte le materie un po' alla meglio per arricchire la
parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti nell'arte della parola"[6].
Per essere specialisti in quest’arte bisogna saper parlare in mondo
preciso e conciso, e per raggiungere questo scopo ci vuole ricchezza, vastità e
proprietà di lingua.
Non è possibile parlare né scrivere bene senza conoscere le lingue e le
letterature classiche
“Quanto una lingua è più ricca e più vasta, tanto ha bisogno
di meno parole per esprimersi, e viceversa quanto è più ristretta, tanto più le
conviene largheggiare in parole per comporre un’espressione perfetta. Non si dà
proprietà di parole e modi senza ricchezza e vastità di lingua, e non si dà
brevità di espressione senza proprietà” (Zibaldone,
1822).
Alfieri cercava di trovare per i suoi drammi “un fraseggiare
di brevità e di forza”, traducendo “i
giambi di Seneca” (Vita, 4, 2).
Quintiliano su Tucidide: “densus et brevis et semper instans sibi Thucidides (Institutio oratoria, X, 73).
Shakespeare..paragonato con Sofocle, è come una miniera
piena di un'immensità di oro, piombo e ciottoli, mentre quello non è soltanto
oro, ma oro anche lavorato nel modo più nobile, tale da far quasi dimenticare
il suo valore come metallo"[7].
I versi di Sofocle si distinguono per la loro densità:
ognuno di essi potrebbe essere commentato con un libro.
“La poesia fonda la sua potenza sulla compressione. Poeta in
tedesco si dice Dichter, colui che
rende le cose dicht (spesse, dense,
compatte). L’immagine poetica comprime in un’istantanea un momento particolare
caratteristico di un insieme più vasto, catturandone la profondità, la
complessità, il senso e l’importanza”[8].
Come l’immagine onirica, la parola del poeta è costituita da
condensazione.
La conoscenza dei classici è utile in tutti i campi.
Il sicuro possesso della parola è utile in tutti i campi, da
quello liturgico a quello erotico : "Non
formosus erat, sed erat facundus Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas
", bello
non era, ma era bravo a parlare Ulisse, e pure fece struggere d'amore le dee
del mare, scrive Ovidio nell'Ars amatoria [9].
Kierkegaard
cita questi due versi nel Diario
del seduttore [10].
Nei versi precedenti Ovidio consiglia di imparare bene il
latino e il greco, per potenziare lo spirito e controbilanciare l'inevitabile
decadimento fisico della vecchiaia:"Iam molire animum qui duret, et
adstrue formae:/solus ad extremos permanet ille rogos./Nec levis ingenuas
pectus coluisse per artes/cura sit et linguas edidicisse duas" (Ars
amatoria II, vv. 119-122), oramai
prepara il tuo spirito a durare, e aggiungilo all'aspetto: solo quello rimane
sino al rogo finale. E non sia leggero l'impegno di coltivare la mente
attraverso le arti liberali, e di imparare bene le due lingue.
Il latino e il greco ovviamente. Senza con questo
disprezzare altre lingue.
Le lingue studiate, tutte le lingue, ma in particolare il
greco e il latino che non si parlano, vanno coltivate con uno studio privo di
interruzioni.
II pericolo della dealfabetizzazione, il vocabolo stesso lo
dice, è soprattutto incombente sul greco. Ma riguarda ogni studio che venga
interrotto e trascurato. Cito a questo proposito alcune righe di una
pregevolissima ricerca di Tullio De
Mauro. L’illustre linguista ricava da “due grandi indagini internazionali,
fatte nel 2001 e nel 2006, promosse da Statistics Canada e dal Federal Bureau
of Statistics degli Stati Uniti” che “29% è l’accertata percentuale di italiane
e di italiani con piena padronanza alfabetica e numerica”. E continua: “Il
nostro paese non è l’unico a conoscere la dealfabetizzazione di adulti anche
scolarizzati a livelli alti. Essa in parte è fisiologica: sappiamo che se non
si esercitano le competenze acquisite da giovani a scuola, in età adulta
regrediamo mediamente di cinque anni rispetto ai livelli massimi raggiunti. E’
la regola detta del “meno cinque”. Ogni adulto può comodamente verificarla su
se stesso…dopo cinque anni di greco, quanto ce ne resta se non facciamo i
professori della materia e i classicisti?”.
De Mauro nota che “in tutti i paesi sviluppati esistono
strutture e centri per l’educazione permanente degli adulti, che consentono a
percentuali consistenti di popolazione di rientrare in formazione. L’esperienza
dice che un ciclo anche breve è prezioso per riattivare buona parte delle
competenze smarrite. Ottenere che come altri paesi europei anche l’Italia si
doti di un sistema nazionale di lifelong
learning, di apprendimento per tutta
la vita, è per ora un miraggio”[11].
Il consiglio che posso riproporre è quello già dato da
Ovidio che la cura di queste due
lingue, come di tutte le altre
competenze acquisite a scuola, non sia levis.
Non si può essere veramente bravi a usare la
parola, utilizzabile sempre e per molti fini, tutti sperabilmente buoni, se non
si conoscono le lingue e le civiltà classiche, ossia quelle dei primi della
classe.
continua
[1] A.
Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Tomo II, p. 772.
[3] Fenomenologia
dello spirito (del 1807) . Capitolo
4 (A)
[4] Il greco e il latino, la religione e la matematica
“Erano-e l’insegnante lo faceva notare spesso-del tutto inutili apparentemente
ai fini degli studi futuri e della vita, ma solo apparentemente. In realtà
erano importantissimi, più importanti addirittura di certe materie principali,
perché sviluppano la facoltà di ragionare e costituiscono la base di ogni
pensiero chiaro, sobrio ed efficace” (H. Hesse, Sotto la ruota (del 1906),
p. 24.
[5] Vittorio Alfieri nella sua Vita (composta tra il 1790 e il 1803) racconta di avere impiegato
non poco tempo dell’inverno 1776-1777
traducendo dopo Orazio, Sallustio, un lavoro “più volte rifatto mutato e
limato…certamente con molto mio lucro sì nell’intelligenza della lingua latina,
che nella padronanza di maneggiar l’italiana” (IV, 3).
[8] Hilman, La
forza del carattere, p. 70.
[9] II, 123-124. Bello non era ma era bravo a
parlare Ulisse e pure fece struggere d'amore le dee del mare.
[10] 3 giugno (p. 75).
[11] Tullio De Mauro, La scuola italiana in sette punti in
Italia, Italie. Lezioni sulla storia dell’Italia unita, p. 125. Edizioni Polistampa, Regione Toscana, 2013
Foto stupenda di tre amici....Giovanna Tocco
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