NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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domenica 3 gennaio 2016

I "Remedia amoris" di Ovidio, Parte XIII

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La gelosia
Altro motivo di sofferenza, anzi il più grande, è la gelosia causata dalla presenza di un rivale: " aemulus est nostri maxima causa mali" (v. 768) . Di questa piovra del cervello abbiamo già detto; il rimedio suggerito da Ovidio è quello di non figurarsi alcun rivale e di pensare che lei dorma sola nel letto: " At tu rivalem noli tibi fingere quemquam/inque suo solam crede iacere toro" (vv. 769 - 770).
Sappiamo da Saffo, e dall'esperienza, che difficilmente la donna lo fa volentieri: "E' tramontata la luna/e le Pleiadi; è a metà/ la notte[1], trascorre la giovinezza/e io dormo sola"[2] (e[gw de; movna kateuvdw) fr. 94D.) .

La presenza di un rivale, di un altro amante o pretendente, rende più cara e preziosa la donna. Vengono fatti, al solito, esempi tratti dal mito: Oreste si innamorò di Ermione quando questa aveva cominciato a essere di Pirro, figlio di Achille, ed Elena divenne cara a Menelao, che era andato a Creta senza di lei, quando Paride la portò a Troia.
Achille piangeva (flebat Achilles, v. 777) come gli fu tolta Briseide. Il pianto dell'eroe Achille, biasimato da Platone che considera indegni di lettura le lacrime e i lamenti del figlio di Tetide, dovunque si trovino rappresentati[3], viene interpretato da Ovidio come segno della potenza dolorifica insita nella gelosia che dunque va evitata. I suggerimenti contro questo mostro sono tanti. Il Sulmonese consiglia di scappare a gambe levate dal covo (antrum) della donna quando si è trovata la forza di lasciarla, facendo come Ulisse con i Lotofagi e le Sirene: " Illo Lotophagos, illo Sirenas in antro/ esse puta; remis adice vela tuis" (789 - 790) , pensa che in quell'antro ci siano i Lotofagi e le Sirene; ai tuoi remi aggiungi le vele.
 La forza del pensiero insomma deve controbattere e superare quella dell'istinto e dell'emotività. Altrimenti si potrebbe finire come Medea.

La Gelosia e l'invidia "sguardo obliquo"[4]
In Proust Questo morbo era parzialità di visione, una forma di a[th o accecamento mentale che impediva di vedere nella donna: "il disordine della mente, l'insufficienza dell'educazione, la mancanza di franchezza e di volontà" (Dalla parte di Swann, p. 237) . La freccia amorosa era partita dall'impressione di una somiglianza: "ella colpì Swann per la sua rassomiglianza con quella figura di Sefora, la figlia di Ietro, che si vede in un affresco della cappella Sistina" (p. 237) . Dopo avere assimilato Odette all'immagine del Botticelli, egli vedeva in quella creatura "una matassa di linee sottili e belle che i suoi sguardi dipanarono, seguendo la curva del loro avviluppamento, ricongiungendo la cadenza della nuca con la flessione delle palpebre, come in un suo ritratto nel quale il suo tipo divenisse intellegibile e chiaro" (p. 238) . Il mal d'amore poi crescendo diviene "una necessità ansiosa, che ha per oggetto quello stesso essere, una necessità assurda, che le leggi di questo mondo rendono impossibile da soddisfare e difficile da guarire: la necessità insensata e dolorosa di possederlo" (p. 246) . L'angoscia era scoppiata una sera che Swann non trovò Odette dai Verdurin i borghesi bottegai dai quali solitamente si recava: "forse, anzi, proprio a quell'angoscia andava debitore dell'importanza che Odette aveva presa per lui. Gli esseri ci sono di consueto così indifferenti che, quando collochiamo in uno di essi simili possibilità di sofferenza e di gioia, esso ci sembra appartenere a un altro universo, si aureola di poesia" (p. 251) .

La gelosia, che fa sempre parte della malattia d'amore, è descritta come un mostro edace il quale ricorda da lontano quello di Shakespeare: " O, beware, my lord, of jealousy; it is the green eyed monster, which doth mock the meat it fedds on”, dice Iago a Otello,
oh, signore, guardatevi dalla gelosia: il mostro dagli occhi verdi che deride il cibo di cui si pasce"[5].

La necessità dolorosa di Odette era attivata dalla gelosia.
Swann la sentiva "quasi che questa avesse avuto una vitalità indipendente, egoistica, vorace di tutto quanto l'alimentasse" (p. 300) . Essa era "come una piovra che getta un primo, poi un secondo, poi un terzo tentacolo" (p. 301) . E in un volume successivo: "La gelosia, avendo gli occhi bendati, non solo è incapace di scoprire alcunché nelle tenebre onde è avvolta; è, inoltre, uno di quei supplizi nei quali si è costretti a ricominciare senza posa il proprio lavoro, come quello d'Issione o delle Danaidi"[6].

Pavese consiglia un altro pensiero contro il "mostro dagli occhi verdi": " Perché essere geloso? Lui non vede in lei quel che vedo io - probabilmente non vede nulla. Tanto varrebbe esser geloso di un cane o dell'acqua della piscina. Anzi, l'acqua è più all - pervading di qualunque amante"[7]. E, diversi anni dopo: "Una donna, con gli altri, o fa sul serio o scherza. Se fa sul serio, allora appartiene a quell'altro e basta; se scherza, allora è una vacca e basta"[8].
Del resto in Il mestiere di vivere troviamo scritto pure: " Chi non è geloso anche delle mutandine della sua bella, non è innamorato".

La guarigione completa, conclude Ovidio, ci sarà quando potrai dare un bacio al rivale: "oscula cum poteris iam dare, sanus eris" (v. 794) , probabilmente poiché ti ha liberato da un grave peso.

I cibi “nocivi”, ossia afrodisiaci. Il vino
Quindi Ovidio passa ai cibi accentuando la componente medica del resto sempre presente nel suo poemetto: "Daunius an Libycis bulbus tibi missus ab oris/an veniat Megaris, noxius omnis erit " (Remedia amoris, vv. 797 - 798) , la cipolla della Daunia o mandata dalle coste libiche o importata da Megara sarà sempre nociva.
 In questa prospettiva, ribaltata rispetto a quella del viagra o alle pratiche cui si sottopone Encolpio contro l'impotenza, nocivo significa eccitante.
 Tale è anche la rucola: "Nec minus erucas aptum vitare salaces, /et quicquid Veneri corpora nostra parat " (799 - 800) , e non è meno opportuno evitare la rucola afrodisiaca e tutto quanto dispone il nostro corpo a Venere. - salaces, da salax, connesso a salio, salto, significa propriamente "che fa saltare". "La radice deriva dall'indoeuropeo *sal - che ha dato come esito in greco aJl - , in latino sal - "[9]. Cfr. a{llomai., “salto”.

Nell'Ars amatoria che condivide l'impianto didascalico dei Remedia amoris, ma vuole insegnare il contrario, Ovidio consiglia gli stessi e altri cibi afrodisiaci a chi non deve risparmiare i lombi: "bulbus et, ex horto quae venit herba salax/ovaque sumantur, sumantur Hymettia mella/quasque tulit folio pinus acuta nuces" (II, 422 - 424) , si prenda la cipolla, e la rucola eccitante che viene dall'orto, le uova e si prenda il miele dell'Imetto e i pinoli che produce il pino dalle foglie aghiformi.
 La cipolla (bolbov") è con le conchiglie e le lumache, tra gli ingredienti principali anche del povto" aJduv" (v. 17) , il magnifico banchetto che svela l'amore di Cinisca nel XIV idillio di Teocrito.
La cipolla e la rucola sono messi tra gli afrodisiaci anche da Marziale. Questi peraltro non aiutano Luperco abbandonato dalla mentula: "sed nihil erucae faciunt bulbique salaces" (III, 75, 3) , niente ti fanno la rucola e le cipolle eccitanti.

Veniamo quindi al vino: " Vina parant animum Veneri, nisi plurima sumas/ et stupeant multo corda sepulta mero. /Nutritur vento, vento restinguitur ignis; /lenis alit flammas, grandior aura necat. /Aut nulla ebrietas, aut tanta sit, ut tibi curas/eripiat; si qua est inter utrumque nocet " (Remedia amoris, vv. 805 - 808) , il vino dispone l'animo a Venere, se non ne prendi troppo e non vengono intontiti i sensi sepolti dal molto vino. Viene nutrito dal vento, dal vento viene pure spento il fuoco; una lieve brezza alimenta le fiamme, un vento più grande la spenge. O non ci sia l'ebbrezza o sia così grande da portarti via gli affanni, se una si trova a metà, ti fa male.

Nell'Ars amatoria leggiamo: "Vina parant animos faciuntque caloribus aptos; /cura fugit multo diluitque mero. /Tunc veniunt risus, tum pauper cornua sumit, /tum dolor et curae rugaque frontis abit. /Tunc aperit mentes aevo rarissima nostro simplicitas, / artes excutiente deo. /Illic saepe animos iuvenum rapuere puellae, /et Venus in vinis ignis in igne fuit" (I, 237 - 244) , il vino dispone gli animi e li rende pronti agli ardori; l'ansia fugge e si scioglie con molto vino. Allora nascono le risate, allora il povero prende coraggio, allora il dolore e le ansie e la ruga della fronte se ne vanno. Allora la semplicità, rarissima nel nostro tempo, rivela i pensieri, poiché il dio scuote via gli artifici. Lì spesso le ragazze conquistano i cuori dei giovani e Venere nel vino è fuoco nel fuoco.

Già Euripide nelle Baccanti aveva collegato Cipride al vino: "oi[nou de; mhkevt j o[nto" oujk e[stin Kuvpri" - oujd j a[llo terpno; n oujde; n ajnqrwvpoi" e[ti" (vv. 773 - 774) , E quando non c'è più il vino, non c'è Cipride/né più alcun altro piacere per gli uomini. Con queste parole il messo conclude la sua rJh'si" sul comportamento delle Baccanti tebane.
 Una riflessione sugli effetti erogeni del vino si trova ne L'asino d'oro di Apuleio. Il curiosus protagonista Lucio, preparandosi a un incontro amoroso con l'ancella Fotide, ricevuta in dono un'anfora di prezioso vino invecchiato, vini cadum in aetate pretiosi, invita l'amante a bere insieme il liquido di Bacco elogiandolo come il miglior viatico per percorrere una lunga rotta sulla barca di Venere: "Ecce - inquam, - Veneris hortator et armĭger Liber advenit ultro! Vinum istud hodie sorbamus omne, quod nobis restinguat pudoris ignaviam et alăcrem vigorem libidinis incutiat. Hac enim sitarchĭa navigium Veneris indĭget sola, ut in nocte pervigili et oleo lucerna et vino calix abundet " (II, 11) , ecco, dico, che stimolatore e armigero di Venere arriva Libero spontaneamente ! Beviamocelo tutto oggi questo vino che spenga in noi la viltà del pudore e susciti un vivace vigore di libidine. In effetti la barca di Venere ha bisogno soltanto di questo approvvigionamento in modo che, durante la notte di veglia, la lucerna sia piena d'olio e la coppa di vino.
Il nesso vino - Venere viene ricordato controvoglia da Leena, la vecchia ubriaca del Curculio di Plauto che deve offrire un goccio del suo tesoro liquido, com'è consuetudine, alla dea dell'amore: "Venus, de paullo paullulum hic tibi dabo hau lubenter. / Nam tibi amantes propitiantes vinum dant potantes/omnes…" (vv. 123 - 125) , Venere, del poco che c'è qui darò un pochino a te non volentieri. Infatti tutti gli amanti facendo un brindisi ti offrono del vino per propiziarti.
Il portiere del castello di Macbeth, una specie di portiere dell'inferno come ipotizza di essere con ironia sofoclea[10], disquisisce, intorno agli effetti del bere sulla libidine: la provoca e la sprovoca; provoca il desiderio ma ne porta via l'esecuzione. " Therefore, much drink may be said to be an equivocator with lechery ", perciò bere molto si può denominare colui che rende equivoca la lascivia: la crea e la distrugge; la spinge innanzi e la tira indietro; la persuade e la scoraggia; "makes him stand to, and not stand to", la mette in piedi e non la tiene su, insomma la equivoca col sonno e dandole una smentita la pianta (Macbeth, II, 3) . In questo monologo, "di un fine umorismo lucianesco…occorrono certe allusioni a fatti contemporanei, che allora, cioè quando Shakespeare scriveva il Macbeth [11], dovevano essere a common topic[12], o, come diremmo noi, sulla bocca di tutti, e che ci riportano a quell'anno"[13] (1606) .
Chiarini fa l'esempio della parola equivocator usata due volte nel monologo e che allude alla dottrina gesuitica dell'equivocazione invocata da Enrico Garnet, superiore dell'ordine dei gesuiti processato nel 1606 appunto per l' accusa di avere partecipato alla congiura delle polveri (gunpowdwer plot) ordita dai cattolici, nel 1605, contro Giacomo I.

Si può aggiungere e precisare che bere alcolici, in quantità non eccessiva, può disinibire in certi casi o, in altri, fare obliare la scarsa attrazione sentita in condizione di lucidità per un partner che non ci piace.




continua

[1]La divisione della locuzione mezzanotte ha forse influito sull'espressione di Leopardi "è notte senza stelle a mezzo il verno" (Aspasia, 108)
[2]Orazio (in Sat. I, 5, 82 - 83) utilizzerà, in un contesto ironico, il luogo saffico: "hic ego mendacem stultissimus usque puellam/ad mediam noctem expecto ", qui io sono tanto stupido da aspettare fino a mezzanotte una ragazza bugiarda.
[3]Repubblica, 388b.
[4] M. Zambrano, L'uomo e il divino, p. 262.
[5]Otello, III, 3.
[6] M. Proust, La prigioniera, p. 151.
[7] Il mestiere di vivere, 21 febbraio 1938.
[8] 27 dicembre 1946.
[9] G. Ugolini, Lexis, p. 109.
[10] Egli esordisce dicendo: questo si chiama bussare per davvero! Se un uomo fosse portiere dell'inferno (if a man were porter of hell - gate) avrebbe l'abitudine antica di girare la chiave (II, 3) . Non "possiamo fare a meno di sentire che nel far finta di essere il portiere dell'inferno egli è terribilmente vicino alla verità" (Bradley, op. cit., p. 424) .
[11] Regnò sulla Scozia dal 1040 al 1057.
[12] A proposito dei nostri tovpoi!
[13] Cino Chiarini (a cura di) Macbeth, p. XII. 

1 commento:

  1. La gelosia è un coltello senza manico,si impugna sempre dalla parte della lama.Giovanna Tocco

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