NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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venerdì 15 gennaio 2016

La Commedia antica. Aristofane. V parte

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Ma torniamo agli Acarnesi. Uscito il tebano che, da vero beota, si porta via il sicofante, entra un servo di Lamaco, lo stratego guerrafondaio il quale ha dato l'ordine di comprare tordi e anguille da Diceopoli.
 Il nostro eroe però non si lascia intimidire dalla prosopopèa guerresca dell'uomo e tiene tutto per sé il frutto della pace separata (960 e sgg. ). Il coro intanto si convince delle buone ragioni del protagonista e giura:
"io non accoglierò mai in casa Polemo"(977) che poi è la personificazione del conflitto, visto come "un uomo ubriaco"(981) il quale "ha operato tutti i mali e sconvolgeva, e rovinava"(983) e, pur invitato a fare la pace:
"bruciava ancora di più con il fuoco i pali delle viti
 e rovesciava a forza il nostro vino fuori dalle vigne"(986 - 987).
La guerra dunque è odiata dai contadini poiché distrugge alberi e raccolti.

Il dio della guerra è detestato dai cittadini cui dà voce Sofocle nell'Edipo re dove Ares è deprecato come "il dio disonorato tra gli dei"(215). Del resto già nell'Iliade Zeus gli dice: " tu per me sei il più odioso tra gli dei che abitano l'Olimpo (V, 890). Eschilo nell'Agamennone lo definisce sprezzantemente "il cambiavalute dei corpi" (v. 437); Virgilio nella prima Georgica (511) lo chiama "Mars impius ", empio Marte, e Orazio in Carmina, II, 14, 13, cruentus, insanguinato.

Maledetta la guerra da Diceopoli, dal coro e da noi, arriva la Pace, salutata come "compagna di Cipride la bella e delle Grazie"(989).
Il Coro intorno alla donna formosa vede aleggiare amore e lavoro, i beni negati dalla guerra. Intanto Diceopoli comincia a preparare un banchetto a base di lepri e tordi (1005 - 1006). Poi entra un povero contadino vestito a lutto (in bianco, v. 1024) poiché ha perduto i buoi. Vorrebbe che Diceopoli gli ungesse con una goccia di pace gli occhi rovinati dal pianto, ma il nostro eroe bada solo a dare ordini per il banchetto:
 "tu sulla salsiccia versa del miele
 e friggi le seppie... voi arrostite le anguille"(1040 - 1043) 
con un compiacimento che fa pensare a carenze alimentari patite dai Greci, sia per la guerra, sia perché l'aridità del suolo li costringeva a lottare per trarne l'estremo, non abbondante, prodotto.
Tutti invidiano Diceopoli e vorrebbero la sua pace: uno sposo gli manda della carne del banchetto nuziale per avere in cambio una "coppa di pace: per non andare in guerra ma restare in casa a fare l'amore"(1052 - 1053).
 Diceopoli rilutta, ma arriva anche una messaggera con la richiesta della sposa:
"che il pene del marito rimanga a casa"(1060). Questa preghiera fa breccia nel cuore del protagonista:
"perché una donna non merita di soffrire per la guerra"(1062).

Abbiamo qui una variante della figura femminile rispetto a quella facies barbarica e feroce che Eschilo ha attribuito a Clitennestra o Euripide a Medea, le due "leonesse" omicide.
Questa sposina di Aristofane, se vorrà tenere il marito con sé, dovrà spalmargli il liquido della pace sul pene (1066), un organo che infatti le veterofemministe degli anni settanta chiamavano "guerrafondaio".

Poi esce di casa lo stratego Lamaco. Un messaggero lo informa che deve andare a sorvegliare le frontiere del nord, sotto la neve (1075). Egli ne è contrariato assai; intanto Diceopoli viene invitato ad un banchetto da un messo che è sacerdote di Dioniso: c'è cibo in abbondanza e non mancano le ragazze. Quindi si svolgono contemporaneamente i due preparativi contrastanti: per la guerra e per l'orgia. Dei due naturalmente Lamaco che si fa portare "il tondo scudo con la Gorgone"(1124) è infelice, Diceopoli, che ordina "il tondo piatto di torta col formaggio"(1125), è felice.
Il corifèo sottolinea l'enorme disparità delle condizioni, ovviamente per indurre gli Ateniesi a desiderare la pace:
"a uno spetta bere incoronato di fiori,
a te fare la guardia tremando dal freddo,
a lui dormire
con una ragazza splendidissima
stropicciandosi il coso!"(1144 - 1148).

 Nella guerra dunque non c'è niente di eroico, bello, invidiabile.

Anche Dino Buzzati nel romanzo Il deserto dei Tartari la demitizza, seppure in modo diverso. Giovanni Drogo, un personaggio da tragedia greca, ha passato la vita nell'attesa della gloria militare. Ebbene, quando arrivano i Tartari a portare la guerra, il protagonista, malato a morte, non può prendervi parte. Allora, invece di cedere alla disperazione accetta il suo destino come un eroe sofocleo e, in punto di morire, completamente solo, " benché nessuno lo veda, sorride" poiché ha compreso di avere affrontato e superato una prova ben più difficile di quella di coloro che muoiono in battaglia: " Tutto succederà nella stanza di una locanda ignota, al lume di una candela, nella più nuda solitudine. Non si combatte per tornare coronati di fiori, in un mattino di sole, fra sorrisi di giovani donne. Non c'è nessuno che guardi, nessuno che gli dirà bravo. Oh, è una ben più dura battaglia di quella che lui un tempo sperava"(p. 147). Insomma anche Buzzati, come Aristofane, dice che c'è qualcosa di più eroico della guerra.

Negli Acarnesi segue la seconda Parabasi, breve (1150 - 1173), nella quale l'autore se la prende con un suo nemico cui augura buffe disavventure culinarie e scatologiche. Nell'Esodo (1174 - 1233) entra prima un servo che racconta la malasorte di Lamaco, poi lo stesso stratego malconcio e lamentoso.
Diceopoli invece, entrando dall'altra parte tra due ragazze esclama:
"come son sode queste tettine, sembrano mele cotogne!"(1201).

 Seguono esclamazioni di dolore da una parte, di tripudio erotico e culinario dall'altra. Abbiamo trovato in questa commedia la satira politica e la sensualità; possiamo notare intrecci di realismo vigoroso e di trasfigurazioni grottesche, di comicità plebea e di dolore tragico nella farsa del megarese costretto a vendere le figlie. In questa prima commedia non manca, di tipico, la parodia letteraria di Euripide, mentre è assente quella filosofica e pedagogica della scuola Socrate.


Per trovarla bisogna leggere soprattutto le Nuvole, la commedia del 423 che potrebbe addirittura avere contribuito alla condanna a morte del maestro di Platone. Vediamone la trama commentandone alcuni particolari. Un elemento dell'intreccio è il contrasto tra le generazioni: come nelle Vespe (del 422) un padre e un figlio non hanno gli stessi gusti. Il vecchio, Strepsiade, non riesce a dormire di notte per i pensieri e i debiti che gli infligge il degenere rampollo Fidippide, un giovane moderno e scialacquatore:
"io disgraziato non riesco a dormire morso
dalle spese, dalla mangiatoia, dai debiti
per colpa di questo figlio qui. Lui con i capelli lunghi
cavalca e guida pure il cocchio
sogna cavalli, ed io mi sento morire
quando vedo la luna che porta il venti del mese:
ché gli interessi corrono"(12 - 18). Come si vede, è presente anche il tema dell'usura.
Intanto Fidippide che stava dormendo e sognando corse equine si sveglia e domanda:
"davvero, babbo,
perché brontoli e ti giri tutta la notte? "(35 - 36).
E il vecchio risponde:
"mi morde un esattore e salto fuori dalle coperte"(37). Ma il ragazzo non si preoccupa e riprende a dormire. Il padre però ne è impedito dal pensiero dei debiti.

Nei Buddenbrook di T. Mann troviamo una massima di salvaguardia dei sonni di questi commercianti di granaglie.
Una sentenza scritta "in grosse lettere gotiche, accuratamente miniate e incorniciate: "Figlio mio, dedicati con ardore agli affari durante il giorno, ma combina soltanto quelli che ti consentano di dormire tranquillamente di notte"(35).
Qui la causa che impedisce di dormire è diversa, ma hanno la stessa origine la stranezza di Fidippide e la stravaganza dell'ultimo Buddenbrook, Hanno che muore dolescente: la grande diversità di inclinazioni del padre e della madre.

Ecco come se ne lamenta Strepsiade:
"magari fosse andata in malora la mezzana,
che mi spinse a sposare tua madre:
io infatti passavo una dolcissima vita tra i campi
lercia, sporca, messa a casaccio,
piena di api, pecore e sansa!
Poi sposai una nipote di Megacle
figlio di Megacle, io uno dei campi, lei della città,
altezzosa, delicata, una incesirata"(41 - 48).

 Cesira era una donna signorile e tipica della famiglia degli Alcmeonidi, stirpe tra le più antiche, raffinate e note di Atene: vi apparteneva, per esempio, Agariste, la madre di Pericle.

 Il povero contadino dunque, maritatosi con tale signora, si trova a disagio fin dal primo momento:
"Quando la sposai io stavo a letto con lei
che sapevo di mosto, di fichi secchi, di lana, di abbondanza;
lei invece di profumo, di croco, di finezze di lingua
di spese, di ghiottoneria"(49 - 52) in senso anche erotico, a giudicare dalle parole successive.
Alla nascita del figlio i due coniugi poco armonizzati cominciarono a litigare per il nome: lei ne voleva uno desinente in "ippo", cavallo, come Santippo (nome del padre e di un figlio di Pericle) o Carippo; lui preferiva chiamarlo Fidonide, come suo padre. Un nome formato sul verbo feivdomai, “risparmio”. Giunsero al compromesso di chiamarlo Fidippide, sparagnacavallide. Tra la madre che lo educava alla cavalleria e il padre a pascolare le capre, il figlio non ebbe dubbi: scelse la mamma e:
"sommerse la sostanza sotto una smania cavallina"(73). Il vecchio dunque rimugina tutta la notte su come venirne fuori e finalmente fa una grande pensata: quella di mandare il figlio alla scuola di Socrate. Lo sveglia e glielo propone:
"questi insegnano, se uno dà del denaro,
a vincere dicendo tanto il giusto quanto l'ingiusto"(98 - 99). Strepside vorrebbe assicurare il figlio che fa domande perplesso:
"il nome non lo so con precisione;
ma sono pensatori sottili, persone ottime"(100 - 101).
Ma a Fidippide quei "maestri" sono venuti in mente con un'immagine diversa:
'ah, certo quei disgraziati, quei ciarlatani
quelle facce pallide, gli scalzi
e tra loro quello sciagurato di Socrate e Cherefonte"(102 - 104).

Di Cherefonte parla Socrate nell'Apologia scritta da Platone in questi termini: "Cherefonte infatti voi lo conoscete, credo. Questo era mio amico fin da giovane ed era amico della vostra democrazia, e partecipò a questo esilio e poi tornò con voi. Allora sapete certo che tipo era Cherefonte, com'era impetuoso in qualunque cosa si accingesse a fare. E insomma una volta andato a Delfi osò chiedere questo responso - e ora, per ciò che dico, non fate chiasso, uomini - infatti domandò davvero se ci fosse uno più sapiente di me. Rispose dunque la Pizia che nessuno era più sapiente"(21a).

 Aristofane vede Socrate e i suoi discepoli come dei chiacchieroni miserabili e disonesti: gente lontana dalla luce del sole e dal pulsare della vita. E' l'ostilità della concretezza attica nei confronti di un uomo che passa il tempo chiacchierando con dei ragazzi; è la reazione del realismo all'estraneità della filosofia dalla vita. Cfr. l’antica ruggine tra poeti e filosofi (Socrate nella Repubblica con l’indice dei passi di Omero da censurare e Musil)
nella Repubblica di Platone, Socrate manifesta la sua diffidenza nei confronti di Omero e di tutta la poesia che non consista in “inni agli dèi” ed “elogi dei buoni”, attaccando in particolare la Musa drogata (th; n hjdusmevnhn[1] Mou`san, 607) dei canti lirici o epici che insediano piacere e dolore nel trono della città. Poi però il filosofo abbozza una scusa, dicendo che tra la poesia e la filosofia c’è un’antica ruggine (palaia; mevn ti~ diaforav, 607b) e cita alcuni sberleffi dei comici nei confronti dei filosofi.
Platone critica gli agoni drammatici frequentati troppo spesso, e male, da un pubblico becero, trascinato dalla musica caotica diffusa da poeti ignoranti, maestri di disordinate trasgressioni, i quali mescolavano peani con ditirambi, confondendo, appunto, tutto con tutto (pavnta eij~ pavnta sunavgonte~, Leggi, 700d); di conseguenza le càvee dei teatri divennero, da silenziose, vocianti, e al posto dell’aristocrazia del gusto subentrò una sfacciata teatrocrazia per quanto riguarda quest’arte (701). Come se fossero stati tutti sapienti, diventarono impavidi e l'audacia generò l'impudenza (701b).




continua


[1] Da hJduvnw, “condisco”. 

1 commento:

  1. L'educazione dei giovani è sempre stata motivo di incomprensione tra coniugi dunque,il padre risparmiatore e la madre molle e dissipatrice.Giovanna Tocco

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