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Ma torniamo agli Acarnesi. Uscito il tebano che, da vero
beota, si porta via il sicofante, entra un servo di Lamaco, lo stratego
guerrafondaio il quale ha dato l'ordine di comprare tordi e anguille da
Diceopoli.
Il nostro eroe però non si lascia intimidire
dalla prosopopèa guerresca dell'uomo e tiene tutto per sé il frutto della pace
separata (960 e sgg. ). Il coro intanto si convince delle buone ragioni del
protagonista e giura:
"io non
accoglierò mai in casa Polemo"(977) che poi è la personificazione del
conflitto, visto come "un uomo ubriaco"(981) il quale "ha
operato tutti i mali e sconvolgeva, e rovinava"(983) e, pur invitato a
fare la pace:
"bruciava
ancora di più con il fuoco i pali delle viti
e rovesciava a forza il nostro vino fuori
dalle vigne"(986 - 987).
La
guerra dunque è odiata dai contadini poiché distrugge alberi e raccolti.
Il
dio della guerra è detestato dai cittadini cui dà voce Sofocle nell'Edipo re dove Ares è deprecato come "il dio disonorato tra gli
dei"(215). Del resto già nell'Iliade
Zeus gli dice: " tu per me sei il più odioso tra gli dei che abitano
l'Olimpo (V, 890). Eschilo nell'Agamennone
lo definisce sprezzantemente "il cambiavalute dei corpi" (v. 437); Virgilio
nella prima Georgica (511) lo chiama "Mars
impius ", empio Marte, e Orazio in Carmina,
II, 14, 13, cruentus, insanguinato.
Maledetta
la guerra da Diceopoli, dal coro e da noi, arriva la Pace, salutata come
"compagna di Cipride la bella e delle Grazie"(989).
Il
Coro intorno alla donna formosa vede aleggiare amore e lavoro, i beni negati
dalla guerra. Intanto Diceopoli comincia a preparare un banchetto a base di
lepri e tordi (1005 - 1006). Poi entra un povero contadino vestito a lutto (in
bianco, v. 1024) poiché ha perduto i buoi. Vorrebbe che Diceopoli gli ungesse
con una goccia di pace gli occhi rovinati dal pianto, ma il nostro eroe bada
solo a dare ordini per il banchetto:
"tu sulla salsiccia versa del miele
e friggi le seppie... voi arrostite le
anguille"(1040 - 1043)
con un compiacimento che fa pensare a carenze
alimentari patite dai Greci, sia per la guerra, sia perché l'aridità del suolo li costringeva a lottare
per trarne l'estremo, non abbondante, prodotto.
Tutti
invidiano Diceopoli e vorrebbero la sua pace: uno sposo gli manda della carne
del banchetto nuziale per avere in cambio una "coppa di pace: per non
andare in guerra ma restare in casa a fare l'amore"(1052 - 1053).
Diceopoli rilutta, ma arriva anche una
messaggera con la richiesta della sposa:
"che il pene del marito rimanga a casa"(1060). Questa preghiera fa breccia
nel cuore del protagonista:
"perché
una donna non merita di soffrire per la guerra"(1062).
Abbiamo
qui una variante della figura femminile rispetto a quella facies barbarica e feroce che Eschilo ha attribuito a Clitennestra
o Euripide a Medea, le due "leonesse" omicide.
Questa
sposina di Aristofane, se vorrà tenere il marito con sé, dovrà spalmargli il
liquido della pace sul pene (1066), un organo che infatti le veterofemministe
degli anni settanta chiamavano "guerrafondaio".
Poi
esce di casa lo stratego Lamaco. Un messaggero lo informa che deve andare a
sorvegliare le frontiere del nord, sotto la neve (1075). Egli ne è contrariato
assai; intanto Diceopoli viene invitato ad un banchetto da un messo che è
sacerdote di Dioniso: c'è cibo in abbondanza e non mancano le ragazze. Quindi
si svolgono contemporaneamente i due preparativi contrastanti: per la guerra e
per l'orgia. Dei due naturalmente Lamaco che si fa portare "il tondo scudo
con la Gorgone"(1124) è infelice, Diceopoli, che ordina "il tondo
piatto di torta col formaggio"(1125), è felice.
Il
corifèo sottolinea l'enorme disparità delle condizioni, ovviamente per indurre
gli Ateniesi a desiderare la pace:
"a
uno spetta bere incoronato di fiori,
a
te fare la guardia tremando dal freddo,
a
lui dormire
con
una ragazza splendidissima
stropicciandosi
il coso!"(1144 - 1148).
Nella guerra dunque non c'è niente di eroico, bello,
invidiabile.
Anche
Dino Buzzati nel romanzo Il deserto dei
Tartari la demitizza, seppure in modo diverso. Giovanni Drogo, un
personaggio da tragedia greca, ha passato la vita nell'attesa della gloria
militare. Ebbene, quando arrivano i Tartari a portare la guerra, il
protagonista, malato a morte, non può prendervi parte. Allora, invece di cedere
alla disperazione accetta il suo destino come un eroe sofocleo e, in punto di
morire, completamente solo, " benché nessuno lo veda, sorride" poiché
ha compreso di avere affrontato e superato una prova ben più difficile di
quella di coloro che muoiono in battaglia: " Tutto succederà nella stanza
di una locanda ignota, al lume di una candela, nella più nuda solitudine. Non
si combatte per tornare coronati di fiori, in un mattino di sole, fra sorrisi
di giovani donne. Non c'è nessuno che guardi, nessuno che gli dirà bravo. Oh, è
una ben più dura battaglia di quella che lui un tempo sperava"(p. 147). Insomma
anche Buzzati, come Aristofane, dice che c'è qualcosa di più eroico della
guerra.
Negli
Acarnesi segue la seconda Parabasi, breve
(1150 - 1173), nella quale l'autore se la prende con un suo nemico cui augura
buffe disavventure culinarie e scatologiche. Nell'Esodo (1174 - 1233) entra prima un servo che racconta la malasorte
di Lamaco, poi lo stesso stratego malconcio e lamentoso.
Diceopoli
invece, entrando dall'altra parte tra due ragazze esclama:
"come
son sode queste tettine, sembrano mele cotogne!"(1201).
Seguono esclamazioni di dolore da una parte, di
tripudio erotico e culinario dall'altra. Abbiamo trovato in questa commedia la
satira politica e la sensualità; possiamo notare intrecci di realismo vigoroso
e di trasfigurazioni grottesche, di comicità plebea e di dolore tragico nella
farsa del megarese costretto a vendere le figlie. In questa prima commedia non
manca, di tipico, la parodia letteraria di Euripide, mentre è assente quella
filosofica e pedagogica della scuola Socrate.
Per
trovarla bisogna leggere soprattutto le Nuvole,
la commedia del 423 che potrebbe addirittura avere contribuito alla condanna a
morte del maestro di Platone. Vediamone la trama commentandone alcuni
particolari. Un elemento dell'intreccio è il contrasto tra le generazioni: come
nelle Vespe (del 422) un padre e un
figlio non hanno gli stessi gusti. Il vecchio, Strepsiade, non riesce a dormire
di notte per i pensieri e i debiti che gli infligge il degenere rampollo
Fidippide, un giovane moderno e scialacquatore:
"io
disgraziato non riesco a dormire morso
dalle
spese, dalla mangiatoia, dai debiti
per
colpa di questo figlio qui. Lui con i capelli lunghi
cavalca
e guida pure il cocchio
sogna
cavalli, ed io mi sento morire
quando
vedo la luna che porta il venti del mese:
ché
gli interessi corrono"(12 - 18). Come si vede, è presente anche il tema
dell'usura.
Intanto
Fidippide che stava dormendo e sognando corse equine si sveglia e domanda:
"davvero,
babbo,
perché
brontoli e ti giri tutta la notte? "(35 - 36).
E
il vecchio risponde:
"mi
morde un esattore e salto fuori dalle coperte"(37). Ma il ragazzo non si
preoccupa e riprende a dormire. Il padre però ne è impedito dal pensiero dei
debiti.
Nei
Buddenbrook di T. Mann troviamo una
massima di salvaguardia dei sonni di questi commercianti di granaglie.
Una
sentenza scritta "in grosse lettere gotiche, accuratamente miniate e
incorniciate: "Figlio mio, dedicati con ardore agli affari durante il
giorno, ma combina soltanto quelli che ti consentano di dormire tranquillamente
di notte"(35).
Qui
la causa che impedisce di dormire è diversa, ma hanno la stessa origine la
stranezza di Fidippide e la stravaganza dell'ultimo Buddenbrook, Hanno che muore dolescente: la grande diversità di
inclinazioni del padre e della madre.
Ecco
come se ne lamenta Strepsiade:
"magari
fosse andata in malora la mezzana,
che
mi spinse a sposare tua madre:
io
infatti passavo una dolcissima vita tra i campi
lercia,
sporca, messa a casaccio,
piena
di api, pecore e sansa!
Poi
sposai una nipote di Megacle
figlio
di Megacle, io uno dei campi, lei della città,
altezzosa,
delicata, una incesirata"(41 - 48).
Cesira era una donna signorile e tipica della
famiglia degli Alcmeonidi, stirpe tra le più antiche, raffinate e note di Atene:
vi apparteneva, per esempio, Agariste, la madre di Pericle.
Il povero contadino dunque, maritatosi con
tale signora, si trova a disagio fin dal primo momento:
"Quando
la sposai io stavo a letto con lei
che
sapevo di mosto, di fichi secchi, di lana, di abbondanza;
lei
invece di profumo, di croco, di finezze di lingua
di
spese, di ghiottoneria"(49 - 52) in senso anche erotico, a giudicare dalle
parole successive.
Alla
nascita del figlio i due coniugi poco armonizzati cominciarono a litigare per
il nome: lei ne voleva uno desinente in "ippo", cavallo, come
Santippo (nome del padre e di un figlio di Pericle) o Carippo; lui preferiva
chiamarlo Fidonide, come suo padre. Un nome formato sul verbo feivdomai, “risparmio”.
Giunsero al compromesso di chiamarlo Fidippide,
sparagnacavallide. Tra la madre che lo educava alla cavalleria e il
padre a pascolare le capre, il figlio non ebbe dubbi: scelse la mamma e:
"sommerse
la sostanza sotto una smania cavallina"(73). Il vecchio dunque rimugina
tutta la notte su come venirne fuori e finalmente fa una grande pensata: quella
di mandare il figlio alla scuola di Socrate. Lo sveglia e glielo propone:
"questi
insegnano, se uno dà del denaro,
a
vincere dicendo tanto il giusto quanto l'ingiusto"(98 - 99). Strepside
vorrebbe assicurare il figlio che fa domande perplesso:
"il
nome non lo so con precisione;
ma
sono pensatori sottili, persone ottime"(100 - 101).
Ma
a Fidippide quei "maestri" sono venuti in mente con un'immagine
diversa:
'ah,
certo quei disgraziati, quei ciarlatani
quelle
facce pallide, gli scalzi
e
tra loro quello sciagurato di Socrate e Cherefonte"(102 - 104).
Di
Cherefonte parla Socrate nell'Apologia scritta
da Platone in questi termini: "Cherefonte infatti voi lo conoscete, credo.
Questo era mio amico fin da giovane ed era amico della vostra democrazia, e
partecipò a questo esilio e poi tornò con voi. Allora sapete certo che tipo era
Cherefonte, com'era impetuoso in qualunque cosa si accingesse a fare. E insomma
una volta andato a Delfi osò chiedere questo responso - e ora, per ciò che dico,
non fate chiasso, uomini - infatti domandò davvero se ci fosse uno più sapiente
di me. Rispose dunque la Pizia che nessuno era più sapiente"(21a).
Aristofane vede Socrate e i suoi discepoli come
dei chiacchieroni miserabili e disonesti: gente lontana dalla luce del sole e
dal pulsare della vita. E' l'ostilità della concretezza attica nei confronti di
un uomo che passa il tempo chiacchierando con dei ragazzi; è la reazione del
realismo all'estraneità della filosofia dalla vita. Cfr. l’antica ruggine tra
poeti e filosofi (Socrate nella Repubblica con l’indice dei passi di Omero da
censurare e Musil)
nella Repubblica di Platone, Socrate
manifesta la sua diffidenza nei confronti di Omero e di tutta la poesia che non
consista in “inni agli dèi” ed “elogi dei buoni”, attaccando in particolare la Musa drogata (th; n hjdusmevnhn[1]
Mou`san, 607) dei canti lirici o
epici che insediano piacere e dolore nel trono della città. Poi però il
filosofo abbozza una scusa, dicendo che tra la poesia e la filosofia c’è
un’antica ruggine (palaia; mevn ti~ diaforav, 607b) e cita alcuni sberleffi dei comici nei confronti dei filosofi.
Platone critica gli
agoni drammatici frequentati troppo spesso, e male, da un pubblico becero, trascinato
dalla musica caotica diffusa da poeti ignoranti, maestri di disordinate
trasgressioni, i quali mescolavano peani con ditirambi, confondendo, appunto, tutto
con tutto (pavnta
eij~ pavnta sunavgonte~, Leggi, 700d); di conseguenza le càvee dei teatri divennero, da silenziose, vocianti,
e al posto dell’aristocrazia del gusto subentrò una sfacciata teatrocrazia per
quanto riguarda quest’arte (701). Come se fossero stati tutti sapienti, diventarono
impavidi e l'audacia generò l'impudenza (701b).
continua
[1]
Da hJduvnw, “condisco”.
L'educazione dei giovani è sempre stata motivo di incomprensione tra coniugi dunque,il padre risparmiatore e la madre molle e dissipatrice.Giovanna Tocco
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