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La canzonatura (to; skwvptein) era una componente essenziale e gradita al
pubblico.
Autori successivi a
questi di fatto furono Cratete e Cratino. Del primo Aristotele dice che
abbandonò per primo la commedia di invettiva e trattò argomenti generali (Poetica, 1449b). Riportò la prima
vittoria nel 449.
Aristofane nei Cavalieri ricorda che "ammanniva
pensieri molto arguti dalla bocca delicatissima"(539), e, forse per questo,
ebbe a subire ire e maltrattamenti del pubblico, pur senza cadere sempre ma
restando anche in piedi (540).
Con Cratìno siamo
arrivati alla triade canonica dei massimi autori del dramma attico consacrati
da Orazio in un famoso esametro: "Eupolis
atque Cratinus Aristophanesque poëtae "(Satire, I, 4, 1). Cratìno è il più anziano dei tre. Anche della sua
decadenza Aristofane parla nei Cavalieri
ricordando che un tempo fioriva (530), ma oramai[1]
si ritrova "con una corona secca in testa e morto di sete"( divyh/ d j
ajpolwlwv", v. 534), lui
che per le antiche vittorie meritava di bere nel Pritaneo. Cratino però era
ancora capace di vincere e nell'agone del 423 non solo si difese dalle accuse
di Aristofane ma sconfisse le Nuvole del
rivale più giovane con il Fiasco (Putivnh), un'autocanzonatura nella quale la Commedia,
moglie legittima del poeta lo accusava di tradirlo con l'Ebbrezza, di correre
dietro ai vinelli giovani, ed egli rispondeva che un bevitore d'acqua non
avrebbe potuto creare mai niente di bello.
E' interessante il
fatto che Cratino osò prendere di mira
Pericle accusandolo di fomentare la guerra in combutta con Aspasia e
sfottendolo con il chiamarlo "Zeus dalla testa di cipolla", un
epiteto che metteva in caricatura la forma allungata del suo cranio. Interessante
è anche il verbo coniato da Cratino: eujripidaristofanivzein, "euripidaristofaneggiare" per significare che i due autori non erano
poi tanto diversi quanto voleva fare credere il commediografo il quale nelle Rane renderà omaggio al collega già
morto chiamandolo: "Cratino il divoratore del toro"(Taurofavgo" v. 357), per esaltare la sua vocazione
dionisiaca con un epiteto che veniva attribuito allo stesso Dioniso.
Eupoli era coetaneo
di Aristofane, nacque dunque intorno alla metà del V secolo, ma morì diversi
anni prima del collega (intorno al 410): una leggenda tramandata da Cicerone in
una lettera ad Attico (VI, 18 cercal ) narra che secondo parecchie
testimonianze fu gettato in mare da
Alcibiade in seguito a un attacco subito dal figlio di Clinia presentato
come damerino eccentrico nella commedia gli Adulatori
che criticava i sofisti riuniti nella casa del ricco Callia, la dimora dove è
pure ambientato il Protagora di
Platone e il Simposio di Senofonte. Alcibiade
non fu l'unico capo di parte democratica a costituire un bersaglio per gli
strali di Eupoli che, di tendenza conservatrice al pari di Aristofane e Cratino,
se la prese con i più noti demagoghi: con l'Età
dell'oro (del 424) attaccò Cleone divenuto il beniamino del popolo dopo il
successo di Sfacteria (425) e dopo avere portato la paga eliastica da due a tre
oboli; più tardi, morto il becero cuoiaio ad Anfipoli (nel 422), il
commediografo levò le armi della parola contro il nuovo trascinatore della
massa, Iperbolo, nel Maricante (del
421), nome di un noto invertito ateniese.
Con Aristofane dunque Eupoli condivise l'ideologia,
ma i due drammaturghi si scambiarono
anche accuse di plagio: il primo nelle Nuvole accusa il rivale di avere saccheggiato i Cavalieri:
"Eupoli per
primissimo portò in scena il Maricante
travestendo i miei Cavalieri malamente il maligno con l'aggiunta di una
vegliarda ubriaca che ballava il trescone"(vv. 553 - 555). Questa sarebbe
stata la madre di Iperbolo.
Eupoli del resto nei Battezzatori affermò di avere scritto personalmente una parte dei Cavalieri.
L'ultima commedia di
questo autore fu i Demi (del 412)
dove c'è il motivo che si ritrova nelle Rane:
quello di riportare sulla terra dei morti: in questo caso i grandi politici del
passato: Solone, Milziade, Aristide e Pericle che veniva rivalutato rispetto ai
Prospaltii dove era stato attaccato con
la sua concubina Aspasia. Come si vede la parrhsiva, libertà di parola e di critica non aveva limiti e i commediografi
potevano prendersela con i potenti anche in tempo di guerra.
Aristofane.
Ma ora è già tempo
di parlare del massimo autore della commedia antica e di commentarne almeno un
paio degli undici drammi a noi pervenuti. Prima di affrontare i testi di
Aristofane però diciamo due parole sulla struttura della Commedia: questa, rispetto
alla Tragedia, ha come caratteristica propria due parti peculiari: l'agone che è un conflitto di battute tra
il personaggio principale e l'antagonista, oppure tra il protagonista e il coro;
poi la parabasi che significa sfilata
ed è il momento nel quale il coro depone la maschera, spesso animalesca, e
annulla la finzione teatrale per esporre le idee del poeta su argomenti vari, magari
attaccando i rivali o provocando il pubblico con lazzi di vario genere.
Aristofane nacque ad
Atene intorno al 445 a. C. e morì probabilmente nella sua città poco dopo il
385. Ricaviamo dalle sue commedie le notizie sulla vita. Ne scrisse una
quarantina conseguendo cinque vittorie: a noi sono arrivati undici drammi: gli Acarnesi (425), i Cavalieri (424) le Nuvole
(423), le Vespe (422), la Pace (421), gli Uccelli (414), la Lisistrata
(411) le Tesmoforiazùse (410), le Rane (405), le Ecclesiazùse (392), il Pluto
(388).
Dalla prima commedia
(Acarnesi, vv. 653 - 654)) sappiamo che il poeta aveva una proprietà
nell'isola di Egina: è probabile che questa sua condizione di benestante abbia influito
sulle idee conservatrici e favorevoli alle forze della tradizione.
Gli Acarnesi
è il più antico lavoro di Aristofane a noi pervenuto: con queso vinse alle
Lenèe (festa di fine gennaio durante la quale dal 440 a. C. si rappresentavano
commedie) del 425, precedendo i drammi di Cratino ed Eupoli, ma non costituì il
debutto del giovane autore che avvenne nel 427 con i Banchettanti i quali trattavano il tema dell'educazione: un padre
fa educare due figli in maniera diversa: uno alla scuola antica, l'altro dai
nuovi maestri di retorica: una storia ricorrente nella commedia: basta pensare
agli Adelphoe di Terenzio.
Nel 426 Aristofane
sferrò il primo grande attacco a Cleone con i Babilonesi che denunziava l'imperialismo ateniese e lo
sfruttamento imposto alle città alleate: nel 427 anzi Mitilene, che
aveva cercato di uscire dalla lega delio - attica, era stata riassoggettata con
estrema durezza che il demagogo avrebbe voluto inasprire ancora di più dando a
tutti i potenziali ribelli l'esempio di un vero e proprio genocidio. Per
fortuna, come vedremo in Tucidide che lo definisce "il più violento (biaiovtato") dei cittadini.. e il più capace di
persuadere (piqanwvtato") il popolo (III, 36) la sua proposta
criminale non passò; vennero comunque uccisi un migliaio di Mitilenesi.
In seguito alla coraggiosa
denuncia dei Babilonesi, rappresentato
alle Dionisie, festa cui partecipavano i rappresentanti delle città alleate, Cleone
accusò Aristofane di avere diffamato il popolo davanti agli stranieri. Lo
ricorda l'autore negli Acarnesi (vv. 377
e sgg. ) non senza compiacimento per essersela cavata, mentre nella parabasi
dei Cavalieri (anno 424) si
giustifica del fatto di non avere curato la regia dei drammi precedenti diretti
da Callistrato:
" non per
stoltezza gli è capiato di indugiare ma poiché riteneva che mettere su una
commedia è l'impresa più difficile di tutte", ajlla; nomivzwn/kwmw/didaskalivan ei\nai calepwvtaton e[rgon aJpavntwn"(vv. 515 - 516).
Aristofane fu un genio precoce e coraggioso: poco
più che ventenne aveva già trovato il suo stile e l'ardire di fare una satira
politica, non generica e blanda ma acuminata per gli attacchi personali contro
personaggi potenti e noti nell'Atene di quegli anni, oltretutto occupati e
funestati dalla grande guerra del Peloponneso.
Passiamo quindi ad
analizzare qualche parte dell'opera dalla quale trarremo, tra l'altro, l'immagine
storica più completa dell'ultimo venticinquennio del quinto secolo.
Partiamo dagli Acarnesi (425): un dramma contro la guerra e i guerrafondai. Da qualche tempo
Atene era afflitta da epidemie dovute, probabilmente, all'ammassarsi della
popolazione rurale dentro le lunghe mura, in condizioni di stenti, mentre i
nemici Peloponnesiaci occupavano e devastavano le campagne. Era la strategia di
Pericle che in teoria avrebbe dovuto salvare vite umane lasciando solo gli
alberi alla furia nemica[2],
ma di fatto costò la vita a molti abitanti dell'Attica che tutte le estati
veniva invasa dall'esercito del re spartano Archidamo, e allo stesso stratego
ateniese, il "re non coronato" della città dove "le nove Muse
generarono la bionda Armonia" per dirla con Euripide (Medea, 831 - 832).
La visione di Aristofane è meno idealizzante
di quella euripidea. Intanto Pericle, il leader carismatico si direbbe adesso, capace
di mantenere una certa concordia tra le classi e un discreto consenso degli
intellettuali, era morto, nel settembre del 429, come tanti cittadini comuni, di
peste. Il protagonista di questa prima commedia a noi pervenuta è un
"certo Diceopoli" (significa il cittadino giusto, ed è un contadino)
che non ne può più della guerra. Il dramma, ci informa il primo degli argomenti[3]
"è di quelli fatti bene ed esorta in tutti i modi alla pace". Infatti
Diceopoli non ne può più della guerra. Appena entrato in scena se la prende con
Cleone, il demagogo più amato dal popolo e più odiato dai personaggi positivi
di Aristofane. Ad Atene la gente chiacchiera "ma non c'è pensiero per la
pace: o città, o città"(26 - 27).
Un analogo grido di
doloroso amore si trova nel contesto tragico dell'Edipo re: " No certo, se uno comanda da malvagio -. O
città, o città" (v. 629[4] ).
E'
interessante notare che i lutti e i guai della tragedia e della commedia sono
gli stessi: peste, carestia, insipienza e scelleratezza dei capi.
Il
contadino Diceopoli manifesta subito con la predilezione della campagna, l'odio
per la vita urbana (33) i cui valori supremi sono comprare e vendere.
Sono
versi di un'attualità[5]
impressionante: qualche tempo fa il regista Attilio Bertolucci disse che andava
a cercare valori in Oriente dove infatti sono ambientati i suoi ultimi film, peraltro
non certo i migliori, siccome in Occidente non c'è altro interesse che il
vendere e il comprare.
Dice
dunque il cittadino giusto:
"guardo
verso la campagna, sono desideroso di pace,
e
odio la città mentre desidero il mio villaggio,
che
mai disse: compra il carbone",
ma
lui produceva tutto e il comprare che stanga non c'era"(32 - 36).
Ecco
dunque un altro male oltre la guerra: il consumismo e il mercato che uccide gli
affetti. Un disagio analogo viene manifestato da Ulrich ne L'uomo senza qualità:
" Come gettando uno sguardo fuori d'una finestra aperta di colpo, egli sentì quello che in realtà lo circondava;
i cannoni, i commerci d'Europa"(p. 800).
Se è vero dunque che la commedia è legata più
degli altri generi alla realtà contemporanea e che quella di Aristofane ci fa
toccare con mano l'epoca storica nella quale è ambientata, è altresì innegabile
che essa ci porta in una dimensione sovratemporale e universale dove possono
riconoscersi gli uomini di tutti i tempi. Anzi in questi drammi, come vedremo, possiamo
trovare elementi eternamente umani che nella poesia eroica e sublime, tragica o
epica, non hanno diritto di cittadinanza.
Diceopoli
parla agli ambasciatori tornati dalla Persia: costoro hanno approfittato della
missione per farsi grandi mangiate e bevute:
"poiché
i barbari stimano uomini solo
quelli
capaci di mangiare e bere moltissimo"(77 - 78). Questa battuta offre il
destro alla replica di Diceopoli:
"noi
invece i prostituti e i cinedi" (79). Poi un araldo fa entrare
"l'occhio del re"(94) il quale era un altissimo dignitario della
corte persiana che Aristofane raffigura, attraverso le parole di Diceopoli (vv.
95 - 97), prendendo alla lettera la metafora e dandole corpo con una figura che
sta a metà tra il mascherone carnevalesco e la materializzazione di un sogno.
"Esso
- scrive U. Albini - è dotato, per vedere, di un unico tondo oblò nel centro
del volto e procede fluttuando come un vascello"[7]. Gli
ambasciatori vogliono dare ad intendere che questo personaggio surreale, il
quale parla una lingua incomprensibile, prometta oro agli Ateniesi, ma
Diceopoli capisce l'inganno e decide di fare una tregua privata con gli
Spartani per sé solo, i figli e la moglie. Manda con questo incarico a Sparta
un certo Anfiteo che però al ritorno viene minacciato dagli Acarnesi, i vecchi
del sobborgo di Acarne, situato qualche chilometro a nord di Atene i quali
costituiscono il coro e sono
"duri
Maratonomachi di legno d'acero"(181) nostalgici del buon tempo antico
della prima guerra persiana nella quale hanno valorosamente contribuito alla
vittoria ateniese. Costoro dunque aggrediscono il messaggero di pace:
"allora
tutti a gridare: o maledettissimo,
tu
porti la tregua, mentre ci sono state tagliate le viti? "(181 - 182). Poi
si riempiono i mantelli di pietre per tirargliele addosso.
C'è
da anticipare che questo atteggiamento collerico lo ritroveremo nel vecchio Misantropo (Dyscolos ) di Menandro che, pure lui esacerbato, chiama maledetto
chiunque gli si avvicini e gli tira in faccia zolle di terra (vv. 108 - 111). E'
l'eterno tema dell'anziano disadattato rispetto a una società cambiata che i
commediografi del resto non guardano con simpatia: e se Menandro attraverso i
personaggi positivi raccomanda la comprensione tra tutti gli umani, Aristofane
irride i cretini e denuncia i furbi che traggono profitto dalla dabbenaggine o
dalla buona fede del popolo il quale, privo di guide oneste, corre verso la
rovina morale e materiale. Secondo alcuni, questo poeta è un reazionario
dogmatico, secondo altri, solo, o soprattutto, un pagliaccio che intende fare
ridere; a parer mio è pure un moralista che castiga ridendo i costumi.
continua
[1]
Siamo nel 424.
[2]
Cfr. Plutarco, Vita di Pericle, 38
[3]
Specie di riassunti che risalgono all'edizione di Aristofane di Bisanzio, non
l'autore ovviamente ma un filologo, prefetto della biblioteca di Alessandria, vissuto
tra il 245 e il 168 a. C.
[4] Questo verso dell - Edipo
re di Sofocle fa parte di una breve ajntilabhv con uno scambio concitato di battute
polemiche tra Creonte e il tuvranno~
di Tebe: Edipo invoca la città come fosse una donna amata molto, poiché
l'amante molto le ha dato. Egli l'ha salvata già una volta ed ora sta mettendo
a repentaglio la sua vita per salvarla di nuovo. Un'esclamazione
di tale doloroso amore si trova pure nel contesto comico degli Acarnesi di Aristofane: "eijrhvnh d j
oJvpw" - e[stai protimw's j oujdevn: w` povli" povli"",
ma perché avvenga la pace non c'è nessun pensiero: o città o città"(26 - 27).
[5]
Rispetto al corrente 1996 dico.
[6]
Imperativo dell'aoristo III di privamai,
"compro".
[7]
Nel
nome di Dioniso, p. 82
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