foto di Polina Oshmianskaya |
La fantasticheria del dicembre del ’68 e l’occasione non acciuffata[1] per i
capelli biondi nel luglio 1978.
La lettera barocca e squilibrata
Dal primo settembre avevo lavorato continuamente, senza
concedermi una mezza giornata di pausa.
Il 24 luglio del 1979 dunque, percorrendo all’indietro il
fiume del tempo, del sangue mio e della vita, rividi quella notte già allora
remota del dicembre del ’68.
Ero a Bologna, in via Del Borgo, in una stanza di una casa
vecchia e mal riscaldata. Mi ero coricato da poco: fissavo il soffitto segnato
da strisce di luce giallognola che entravano dagli scuri soltanto accostati.
Quel giorno di mia vita mortale avevo scritto parecchie pagine dalla mattina
presto a mezzanotte, quasi senza intervallo, e, prima di riprendere a lavorare
con lena, avrei dovuto dormire, ma non oltre le sette e mezzo. Dovevo terminare
la tesi, sulla poesia ungherese del Novecento, non più tardi del 5 febbraio;
scrivevo da tre mesi ed ero arrivato appena a metà. Volevo dormire, però la
paura angosciosa di non compiere il grande lavoro che doveva arrivare a
cinquecento pagine dattiloscritte, non mi lasciava prendere sonno.
Allora decisi di non dormire e di intrattenere pensieri
confortanti: mi diedi a rinovellare mentalmente le più belle esperienze della mia
vita. Pensavo alle assemblee
studentesche della nostra bella primavera, ai discorsi politici che reclamavano
giustizia, uguaglianza, solidarietà tra gli umani, alle due estati passate in
Ungheria, al grande bosco di Debrecen, alle feste nella Nyári Egyetem,
alla bionda Eeva Vuortama quando, la sera dell’addio, mi portò una rosa alla
grande fontana antistante la bella facciata dell’edificio asburgico che si
specchia nell’acqua multicolore quando schizzano gli zampilli vivaci sopra la
vasca e si accendono le tante finestre insieme con le stelle del cielo sereno, che
torna azzurro dopo il tramonto del sole. Con questi ricordi mi consolavo della
vita dura e deserta che menavo da mesi. Quindi pensavo che dopo la laurea avrei
cominciato a insegnare: allora bastava volerlo, magari spostandosi verso nord
est. Poi, in luglio, proseguendo verso oriente, sarei tornato a Debrecen, sarei
andato alla festa della conoscenza, e, finita questa, mi sarei seduto su una
delle panchine di pietra inserite nelle nicchie della facciata dell’Università
estiva; e di lì magari sarebbe passata
una ragazza italiana bella e intelligente, forse proprio quella splendidissima
bionda che avevo sentito parlare con eleganza e proprietà in primavera dentro
l’Università di Bologna occupata da noi sessantottini. Si chiamava Dadi quella
ragazza, aveva un dente un po’ fuori posto eppure era bella, espressiva,
luminosa: brillava di un fuoco interiore, aveva lunghi capelli, era ben fatta,
allettante, armoniosa come una dea, chiara nella pelle liscissima e aveva occhi
d’oro brunito dolci e vivaci; ebbene se
quella creatura perfetta mi fosse passata accanto lì a Debrecen, dove
Eros faceva incontrare ragazze e ragazzi perché si amassero senza timori e con
pochi pudori, l’avrei chiamata, e se non mi avesse sentito, l’avrei inseguita.
Le avrei chiesto di stare con me, di fare una bambina con me. Tali progetti
facevo in piena notte, al culmine dell’inverno, nella solitudine semifredda
della stanzetta quasi buia. Dopo tale fantasticheria della fine del ’68, ero
andato avanti altri dieci anni con il metodo degli amori mensili per le
finlandesi estive di Debrecen, senza impiegare il cuore e la mente con le donne
in Italia che pure incontravo e conoscevo volentieri nell’ambiente del lavoro
iniziato davvero subito dopo la laurea. Ma nell’autunno del ’78 avevo smesso di
procedere metodicamente per la strada degli amori mensili e delle avventure
istantanee, innamorandomi di Ifigenia.
Ordunque, il 24 luglio del ’79, mentre ero seduto sulla
panchina a ricordare e riflettere, vidi passare l’aurichiomata tedesca che, se
non altro per i capelli, poteva ricordarmi la Dadi della fantasticheria. La giovane donna si
accorse di me, si voltò e mi salutò con un sorriso. Poi si fermò. Probabilmente
aspettava una risposta. Magari che la chiamassi. Per un momento sentii
l’impulso, quasi il riflesso condizionato, di avvicinarmi e proporle una gita a
Hortobágy oppure una cena all’Aranybika, il metodo trovato e consolidato dal 1970 in avanti con le
finniche conosciute. Pensai che molto mi sarebbe stato perdonato se avessi amato
anche questa che era pienotta, belloccia e allettante non poco. Stava per scatenarsi
la bestia dentro di me. Ma prima che trionfasse, pensai di darle spaccio.
Mi venne in mente che quell’estate le cose potevano andarmi
meglio del solito, in quanto l’amore non dovevo cercarlo ma solo evitare di
perderlo: infatti in Italia c’era Ifigenia che amavo e mi aspettava e quasi
certamente-credevo- mi stava pensando anche in quel preciso momento. In seguito
a questo difettosissimo sillogismo, alla ragazza tedesca che mi avrebbe per lo
meno arricchito di una nuova esperienza
e altri ricordi, non diedi retta. Quella
sera avevo imprudentemente deciso di essere santo e anacoreta piuttosto che
satiro potente e lieto, e rinunciai a ribattezzarmi pagano nelle onde dei suoi
capelli pieni di vita.
La salutai con un sorriso quasi mesto e non mi alzai per
avvicinarla, né la invitai a venirmi vicino. Un errore dell’intelligenza, uno
sbaglio anche politico, poco meno peggiore di un crimine. L’avrei pagato con
somme colossali di pena.
Con Ifigenia, tornato in Italia, le ore sarebbero state
piene di tristezza e di noia nei primi tempi. Poi sempre peggio!
La bionda, non incoraggiata, girò la testa dalla parte della
fontana, quindi si allontanò verso i binari del tram numero uno, l’unico tram a
dire il vero ma tanto caro al cuore.
Così, pensai, realizzo la fantasticheria remota: non
fermando la tedesca, a un’avventura con una straniera avevo preferito un amore
serio e impegnativo con una donna italiana, una bruna, di aspetto del tutto
mediterraneo.
Poco dopo salii in camera. la solita nel secondo collegio:
la numero quattro del terzo piano. Salutai Alfredo che scherzava giovanilmente
con un paio di nuovi ragazzi, sebbene oramai quarantenne, e sedetti nello studio
contiguo per scrivere a Ifigenia. Le dissi che mi mancava al punto che lì a
Debrecen, nella cittadina universitaria dove avevo visto l’inizio e lo
sfolgorare delle mie gioie, ed era un luogo pur sempre pieno di offerte
simpatiche, mi sentivo dimezzato senza di lei e ne soffrivo. Aggiunsi che
quella sera non mi sarei unito ad alcuna brigata più o meno lieta, ma sarei
rimasto solo per pensare a lei, la mia compagna ricca di mito e di poesia.
Il giorno seguente, 25 luglio 1978, lo passai in solitudine
fino alle 10 di sera. Lessi e studiai la Storia dei Romani di Gaetano De Sanctis, poi All’ombra delle fanciulle in fiore di Proust, corsi i 5000 metri nello stadio
due volte, pensai a Ifigenia, quindi le scrissi questi pensieri da squilibrato:
“Ifigenia, tesoro, tu non sei qui, ma il ricordo del tuo
sorriso abbronzato e festivo decora tutte le ore della mia giornata solitaria,
studiosa e riflessiva. Ricordo il tuo splendido corpo che, svestito a festa,
illuminava le stanze di casa mia, cupe altrimenti nella tetra atmosfera della
nostra città dove lunghi sono gli inverni; ricordo le tue gonne che, quando mi correvi incontro, si sollevavano al
vento di primavera profumandolo con l’odore santo della tua pelle; ricordo come
il tuo corpo brunito, all’inizio di questa stagione, faceva tremare di luce
l’aria marina quando andavamo sul moscone, al largo della spiaggia di Pesaro
per fare l’amore, e le farfalle ci danzavano intorno i loro valzer pieni di gioia. Io ti amo, Ifigenia, ti
amo. Questi ricordi mi mantengono vivo, emozionato, attivo anche nella tua
assenza pur dolorosa, e il tuo sorriso illumina, riempie di vita il mio
cervello che altrimenti si stancherebbe nello studio della storia
dell’imperialismo romano e di Proust, sensibilissimo e raffinato ma privo d
potenza verbale e di capacità sintetica. Ho con me la copia di L’ombra delle fanciulle in fiore che mi
regalasti, e non manco mai di accarezzare, odorare, baciare la pagina sacra con
le parole della tua dedica ricca di amore e di arte. Così il profumo di te,
portato dal vento dell’ovest, mi ispira, mi spinge a correre lo stadio più di
una volta al giorno con tutte le forze, a cronometro, e mentre spremo con gioia
i liquidi del mio corpo agonista, mi sembra di avere un orgasmo con te.
La tua presenza in carne deliziosa e ossa modellate con
arte, la tua parola intuitiva, poetica, amore, mi manca a tal punto che se
l’effluvio odoroso di te, portato dal vento occidentale, si attenuerà, allora
io, invece di andare allo stadio, situato dalla parte dei selvosi Carpazi,
andrò dalla parte di Budapest e di Hortobágy, verso la grande pianura senza
alberi: là correrò, anelando, mentre i soffi dell’aria pienamente odorosa di te
mi benediranno e mi renderanno beato con il tuo aroma tutto intero prima che
questo sia stato filtrato dalle avide, invide foglie assorbenti della grande
foresta di Debrecen. Io allora continuerò a inebriarmi dell’essenza preziosa esalata dalla tua carne divina.
Ciao. Come vedi, ti penso
Tuo
gianni”
Tali barocchismi generava la mia sciocca, sciroppata e
perversa smania amorosa.
continua
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Questo brano è splendido...anche se non trovo che sia un occasione perduta ,quando si ama si ha bisogno di monogamia.Giovanna Tocco
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